Il tempo per ricostruire. Il tempo per accettare, processi e cambiamenti che abbiamo capito di non poter governare interamente, e di farlo con i nostri tempi nuovi, assurdamente dilatati, innaturalmente estesi per la nostra esistenza fino all’altro ieri. Era dal giorno meno uno del lockdown, da quell’sms che ci svegliò in piena notte alla fine di febbraio annunciandoci che, per tutelare la salute dei propri ospiti (e nonostante nessuno lo obbligasse ancora a farlo), la sfilata sarebbe stata trasmessa a porte chiuse in diretta streaming , che volevamo esplorare il concetto di questi tempi bergsoniani, i tempi della nostra coscienza e di una democrazia estetica spesso mal intesa, con Giorgio Armani. Anzi, con il “signor Armani” come lo chiamano tutti e come lo chiamiamo anche noi perché ad esclamare “Giorgio” non abbiamo mai imparato nonostante la lunga consuetudine, anzi alla sola idea ci viene un brivido perché, sebbene lo abbiamo visto negli anni fermarsi per strada a parlare con tutti, dalla signora che vuole raccontargli di quella volta che si è sentita tanto elegante con una sua giacca al trucidissimo che reclama un selfie e gli abbiamo sentito lanciare battute anche parecchio sapide, riteniamo che al “signor Armani” ci si avvicini meglio mantenendo un filo di rispettoso distacco. Un approccio un po’ da sudditi, diciamo, e sappiamo già che la cosa lo farà molto ridere anche in questi giorni di prove intensissime della sfilata estate 2021 nel Teatro progettato da Tadao Ando in via Bergognone, che verrà trasmessa in diretta sui social ma anche e soprattutto in televisione e in chiaro, su La7.
Un gesto che, dopo aver suscitato parecchi sopracciò nel mondo della moda che è sempre talmente avanti da non sapere più bene dove si trovi, in queste ultime ore ha scatenato la corsa all’imitazione. Lo scorso febbraio, la diretta in streaming sul web e sui social portò alla sfilata Giorgio Armani inverno 2020 oltre un milione di spettatori. Nessuno ha fatto le previsioni questa volta, tanto meno lui: abbiamo l’impressione che si tratti innanzitutto e soprattutto di un gesto simbolico, anzi ce lo dice proprio. Non a caso, si dice anche disposto ad aprire la diretta alle reti di altri paesi. La moda per tutti è un concetto che persegue da quando lanciò la collezione Jeans (noi andavamo al liceo e smaniavamo per l’aquilotto sulla tasca posteriore). Da allora, il concetto si è parecchio imbastardito, al punto che il pianeta sta facendo i conti con i cascami industriali, etici e morali del fast fashion.
Giorgio Armani sta lottando con Milano e con l’Italia contro il coronavirus. Il maestro, dopo una generosa donazione, ha comunicato la conversione di tutti i propri stabilimenti produttivi italiani nella produzione di camici monouso destinati alla protezione individuale degli operatori sanitari impegnati a fronteggiare la pandemia. Sono ben quattro aziende e si trovano a Trento, Carré, Matelica e Settimo.
La pandemia sta insinuando nei pensieri dei più che consumare come se non ci fosse un domani significa proprio questo: non avere un domani. Che questo retropensiero si sia già trasformato in realtà, cioè in azioni concrete, osserva il signor Armani, è ancora un po’ presto per dirlo. Ma i cambiamenti richiedono tempo. E quelli più profondi potrebbero non sembrare tali. ….La pandemia non è finita affatto, purtroppo. Tutt’altro. Con tutto il disagio che questo comporta.
“Il prolungamento dello stato di emergenza fino a metà ottobre è la cornice di un quadro ancora non ben definito, fatto di incertezza e attesa, ma anche di mascherine e distanziamento sociale, verso i quali si avverte, inevitabilmente, una sempre maggiore insofferenza”, dice Armani.
Però, lentamente, fra mille resistenze, il mondo sta imparando a convivere con l’emergenza continua. Lei ne ha vissuta già un’altra. Più violenta, meno subdola di questa, però sempre un’emergenza, cioè uno stato di allerta e di tensione continui. Quali sincronie (o diacronie) vede fra questa “guerra al virus” come viene definita, con un linguaggio militare sbagliato ma di effetto, e la Seconda guerra mondiale? E come sta organizzando la ripartenza? Facendo affidamento su chi, e su che cosa?
“La risposta alle grandi sfide è sempre la stessa e fa leva sul forte desiderio di andare avanti, per ‘ricostruire’ appunto uno scenario accettabile. L’unica differenza è una maggiore consapevolezza, rispetto al passato, della responsabilità che abbiamo verso il futuro. Per quanto mi riguarda ho optato per una cauta ripresa, con la novità della sfilata Giorgio Armani trasmessa, per la prima volta, in televisione. Ripartire per me significa infatti continuare a dialogare con il pubblico. E’ dall’inizio della pandemia che penso al concetto diventato cardine nei dibattiti degli ultimi tempi: la democratizzazione. E’ stata alla base anche di quella Ricostruzione che guarì il paese dalle ferite della guerra e che attraversai con la forza spontanea che hanno soltanto i bambini, ma di cui ho parlato liberamente solo alla fine degli anni Ottanta”.
Armani è Italia, certamente, ma è molto, moltissimo estero. Dirette tv Oltreoceano o in Asia non sono previste?
“I canali social permetteranno a tutti, in qualsiasi parte del mondo, di assistere allo show, mentre gli italiani potranno seguirla anche in tv. Noto con piacere che di questa scelta si sta parlando molto anche all’estero; e infatti, se qualche emittente fosse interessata, io sono qui”.
In anni in cui il concetto di inclusione si è trasformato in un’arma di offesa e di body positivity parlano anche i rotocalchi popolari, questo imporrebbe anche qualche valutazione di ordine estetico, non crede? Lei non ha mai subito attacchi per i suoi casting, e non ci sono dubbi che non vesta solo taglie 38. Però Armani è sempre stato noto per scelte estetiche e pubblicitarie di precisa simmetria, per canoni per così dire classici…
“Lascerei Antonio Canova al Neoclassicismo”, dice Armani. “Nel mio lavoro ricerco piuttosto una bellezza che non si lega soltanto all’aspetto esteriore e che rivendico come un bene che riguarda tutti. Trovo che purtroppo il discorso sulla cosiddetta bellezza inclusiva sia a volte forzato e che snaturi il significato positivo che ne è alla base”.
C’è anche un altro tema, positivo in origine ma dai risultati contrastanti, che forse varrebbe la pena approfondire, e sono quelli che si potrebbero definire “i tempi del possesso” della moda. Per fare un esempio moderno, fino a tutto il Settecento, ma anche oltre, le vesti particolarmente preziose venivano legate per testamento. Sulla vendita e i pegni di tessuti sono nate banche. Dai primi dell’Ottocento, la massificazione della produzione ha ribaltato a poco a poco il valore dell’abito, ad eccezione della sola haute couture. Da anni però molti stilisti e imprenditori, lei compreso, hanno predicato il ritorno al valore dell’acquisto e al valore del possesso, anche attraverso politiche rigorose sui saldi, su un’evoluzione coerente dello stile e sulla durata stilistica e affettiva di un capo. Rafforzerà questa strategia, ora?
“Credo che per anni siamo stati prigionieri di un equivoco che ci aveva affascinato, forse per la magnifica definizione di moda democratica, che abbiamo però imparato a capire solo con il tempo. Perché costi eccessivamente bassi – e bassi compensi per la manodopera – equivalgono a materiali di scarsa qualità e breve durata; oggetti ordinari che annullano la creatività dello stilista, che cancellano il concetto di qualità. Un capo deve vivere a lungo, offrire ogni volta il piacere di ritrovare la mano satinata di un tessuto, il morbido comfort di una lana. Perché è la qualità del modello che parla da sola”.
Prima di proseguire sul tema che le ho proposto devo chiederglielo per forza. Qual è il capo più storico che il suo guardaroba contiene?
“La mia maglietta blu di lana o di cotone. Ma forse dovrei dire le mie magliette, considerato che oramai se ne vedono circolare a centinaia”.
Ha anche dato il via libera (qualcuno direbbe “sdoganato”) la loro libera circolazione sotto le giacche da sera. A questo punto è inevitabile parlare dei tempi del profitto. La maggior parte degli analisti considera impossibile il ritorno al mark up pre-coronavirus. Ma la moda sarà disposta a rivedere i propri margini, o agirà su altre leve (per esempio la qualità dei materiali) per mantenerli?
“Cerco di mantenere quella certezza che si possa fare sempre meglio e che è il motore della mia energia. Sono realista però, e penso che probabilmente la moda muterà tutti i suoi processi pur di conservare i propri margini”, dice Armani. Qualcuno ci ha provato anche nei mesi di lockdown; però – come dire – è stato denunciato e messo alla berlina. E’ possibile che vi sia una nuova sensibilità, all’etica del lavoro, soprattutto da parte dei giovani. Sono loro a dettare il cambiamento anche al fast fashion, loro a guidare la crescita del mercato del vintage di qualità. Questi saranno tempi nuovamente giovani o, perlomeno, è quanto tutti ci aspettiamo, sogniamo e speriamo. I giovani (stilisti e non), paiono al tempo stesso eccitati e spaventati dalla prospettiva: ci saranno sicuramente meno risorse disponibili, meno disponibilità anche da parte dei clienti finali. Qualcuno, immagina un futuro di piccoli atelier e un ritorno alla scoperta del nuovo, alla ricerca“
Lei che cosa si sentirebbe di consigliare e che cosa prevede?
“Il futuro… è così difficile prevederlo. Io posso soltanto dire che ci metterà alla prova perché non può essere il prosieguo del presente, come se nulla fosse successo, e nemmeno totalmente diverso. Finora non ho visto segni di ripensamento da parte dei grandi marchi del lusso, ma quasi un accanimento a riprendere più veloce la corsa, cosa che non mi sembra prefigurare un avvenire per i piccoli atelier. Sarò sincero: io sento il dovere di essere coerente con quanto ho detto all’inizio della pandemia e, sebbene osservi e valuti le iniziative degli altri, alla fine non mi interessa quello che decidono di fare”.
In questo lungo iato temporale – dopotutto lei torna a sfilare dopo sei mesi di silenzio – quali sono stati i suoi pensieri? A che cosa si è dedicato? Quali gli interessi, le letture, le attività extraimprenditoriali?
“Ho deciso di rallentare e, in qualche modo sotterraneo, lo pensavo fin da prima. Ho scelto di fare meno e fare meglio, di trovare una dimensione più umana. E mi sono ricordato che in Giappone la durata di un edificio non si identifica con il fatto che si conservi per millenni, ma che venga ricostruito innumerevoli volte. E’ il ripetersi del gesto a rendere le cose eterne. Quindi, in isolamento con alcuni dei miei collaboratori, ho pensato a come riorganizzarmi puntando sull’autenticità, sul rapporto più stretto con i miei clienti, su una diversa organizzazione del lavoro. E’ stato un tempo di riflessione perché avevo percepito una grande stanchezza nel pubblico e sinceramente anch’io ero un po’ stanco dal ritmo imposto dal business”.
Durante il lockdown, ha scritto una lettera aperta per ringraziare i medici e gli operatori sanitari impegnati così duramente. Queste stesse figure sono state riconosciute e celebrate anche durante i primi eventi pubblici di quella che potremmo considerare la ripartenza, e cioè l’esecuzione del “Requiem” di Verdi in Duomo, la Mostra del Cinema di Venezia. Di certo si è trattato di gesti mirati a generare consenso, ma non di meno sono stati significativi, anche perché senza precedenti. Nessuno in Europa aveva valorizzato fino a oggi figure che non fossero quelle di grandi star. Stiamo identificando i nostri tesori nazionali fuori dal cinema, dalla moda o dall’arte. Forse stiamo diventando un po’ giapponesi anche noi. Non crede che questo nuovo atteggiamento porterà a una riscoperta delle competenze, alla scomparsa delle professioni fai-da-te, inventate? Ed è conscio di essere diventato ancora più di prima il punto di riferimento etico, e morale, della moda?
“Era ora che si tornasse a parlare di competenza. E’ un concetto fondamentale che richiede esperienza e preparazione e che la pandemia, con il sacrificio di medici e infermieri, ha ricordato essere indispensabile. Sono passati cinque mesi da quando il mondo è cambiato sotto i nostri occhi. Di quello che allora ho scritto in una lettera aperta a WWD (il quotidiano della moda, ndr) non cambierei una parola: era un messaggio che nasceva da pensieri e riflessioni più volte esternati e che attendeva soltanto il momento giusto perché venisse veramente recepito. Sono stati in molti, è vero, a manifestarmi gratitudine e interesse, a condividere il mio punto di vista, ma nella realtà vedo pochi cambiamenti. A meno che le fashion week non riservino sorprese inaspettate”.
Il Foglio Quotidiano, intervista di Fabiana Giacomotti (www.ilfoglio.it)