Figlio di imprenditori di Prato del ramo tessile, Edoardo Nesi chiuse nel 2004 la sua carriera in fabbrica per dedicarsi alla scrittura, la sua passione fin da ragazzo, quando leggeva soprattutto libri di fantascienza. Sul braccio ha tatuato il nome del padre, Alvarado, scomparso due anni fa. Iscritto a Giurisprudenza, ha dato solo cinque esami.
Edoardo Nesi è alla scrivania dove ha creato tutti i suoi romanzi. Alle sue spalle, è appesa la testiera di un letto del Seicento spagnolo che lo incornicia fra sontuosi ghirigori di legno. «Mio suocero sosteneva d’averla comprata da un autentico nobiluomo in disgrazia», spiega. «Questa casa era sua. L’acquistò a fine anni 60 per riceverci i clienti. Era ancora giovane, ancora non aveva fatto i soldi, ma già immaginava di vendere bene i suoi tessuti se i clienti l’avessero visto nell’agio. Qui sono venuti tutti gli stilisti più importanti». Nesi si alza, si avvicina alle vetrate: «Da quella parte, c’è la zona industriale di Prato. Lui la indicava e, ingigantendo, diceva: li vedete quei capannoni? È tutta gente che lavora per me». Silenzio. Sospiro. «Erano tempi straordinari». Suo suocero, Sergio Carpini, compare anche in Storia della mia gente col quale Nesi ha vinto lo Strega nel 2011 e che ha scritto dopo aver venduto la sua, di fabbrica, ormai arreso alla concorrenza dei cinesi, e compare nell’ultimo, Economia Sentimentale, edito dalla Nave di Teseo, dove c’è Nesi stesso che passa il lockdown in questa casa, un po’ a struggersi di nostalgia per i tempi che furono, un po’ a telefonare ad amici economisti e finanzieri per capire i tempi che verranno.
Anche suo suocero chiuse travolto dalla globalizzazione?
«Lui, a fine anni 80, quando per la prima volta un cliente gli chiese il prezzo di un tessuto. Ne fu scandalizzato. Per lui, il mondo perdeva uno dei suoi fondamenti: l’idea rinascimentale per cui il signore che commissiona il ritratto all’artista non chiede quanto costa».
Se lei, nel 2004, non avesse chiuso il Lanificio T.O. Nesi & Figli, avrebbe trovato il coraggio di scrivere e basta?
«È una domanda enorme. So che lavorare in azienda mi piaceva».
Da piccolo, voleva diventare imprenditore o scrittore?
«Ero chiuso, timido, permaloso. Stavo sempre in casa a leggere. Divoravo fantascienza: mi affascinava il progresso. Dai 14 ai 18 anni,ho scritto racconti in cui c’era sempre un personaggio tipo me, un po’ triste, solitario, a cui succedevano cose clamorose e importanti. Crescendo, l’idea di entrare in fabbrica, come volevano i miei, non mi attirava, ma loro sapevano che avrebbero vinto: io una vera vocazione non l’avevo. A Giurisprudenza, dove ho dato solo cinque esami, mi sono iscritto incantato da una scena del Verdetto. C’è Paul Newman che sull’arringa finale si blocca, con un foglio fra le mani. Quando finalmente si riprende, dice: nella vita perlopiù ci sentiamo smarriti».
E perché lei sentì suo quello smarrimento?
«Lui sa di aver ragione però sta perdendo, ma io quando lo vidi in quell’aula, in quella penombra tagliata da una lama di luce… Be’, mi rovinò Newman. Era così che mi sono sentito finché non mi sono sposato: sempre male, sempre nell’incomprensione delle cose».
E invece, sposandosi, cos’è cambiato?
«Prima di sposarsi, il ragazzino triste e solitario si era messo a divertirsi… Ero pieno di energie e curiosità e le seguivo tutte, ma non mi divertivo mai davvero, un po’ soffrivo sempre. Mia moglie mi ha fatto capire che il divertimento non mi portava da nessuna parte. Mi ha riportato sulla Terra. E cominciai a scrivere seriamente solo dopo aver sposato Carlotta».
«La mia eterna fidanzata bellissima». La definisce così, in un libro.
«È molto bella, molto intelligente. Le devo tutto. Ci siamo fidanzati che avevo 19 anni, sposati che ne avevo 29. Mi ha visto in tutte le fasi: studente fallito, imprenditore fallito… Ed è sempre stata lì. Mi è sempre stata di aiuto in tutto. Legge i miei libri man mano che scrivo. È una tale lettrice fantastica che il mio editore americano chiede a lei cosa pubblicare».
È vero, per sua moglie lei scrive troppo di miserie e di tragedie?
«Pensa che dovrei scrivere qualcosa di più positivo, ma io non sono tanto positivo. E quando finalmente ho avuto un po’ di successo è stato con libri che raccontano di fallimenti. Miei, soprattutto».
Il ragazzo che fa le summer school in America, il capitano d’azienda in giacca di Versace a New York o a Monaco… Quanto è davvero lei l’Edoardo Nesi di certi suoi libri?
«Sono proprio io, sempre io. Sono quello della giacca che fu il primo regalo da imprenditore che mi fecero i miei. Ci ho provato, ma i romanzi, se io non ci sono, vengono peggio. Storia della mia gente è nato così, parlava solo di economia, ma quando mi ci sono ficcato dentro, ha preso senso».
Prima ha detto che non voleva entrare in fabbrica ma che poi lavorarci le è piaciuto.
«All’inizio, non ci volevo mica stare, non mi piaceva mica, venivo da un’idea sbagliata di lavoro. Avevo avuto un attacco giovanile di comunismo, mi sembrava che vi si sfruttassero gli operai. Solo dopo capii che quello che credevo di sapere era falso. La filiera di produzione di Prato era fatta di piccole aziende e artigiani e tutti guadagnavano e potevano fare la luna di miele in Polinesia, c’era l’idea che il lavoro si poteva condividere e il benessere toccasse un po’ a tutti, se eravamo bravi, se ci impegnavamo. Era un mondo risolto, aveva le sue regole e, se ubbidivi, avresti avuto benessere».
In «Economia Sentimentale», racconta di Muhammad Ali e del giorno in cui stava per finire al tappeto e dice che lei, invece, un giorno, al tappeto ci è andato e ci è rimasto per mesi e mesi. Qual è quel giorno?
«Quello in cui è morto mio padre, due anni fa. Il libro nasce dal tentativo di riprendere una vita normale dopo la botta più forte della mia vita. Lui è stato, insieme a mia moglie, il mio punto di riferimento, il mio idolo. Fino ai miei 18 anni, abbiamo parlato poco: era un padre della sua generazione, stava sempre in fabbrica, l’ho conosciuto solo lavorando con lui. Mi faceva da guida, mi insegnava un mondo complicato. Insomma, volevo scrivere di lui, ma le parole non mi venivano, poi ho capito che il babbo, per me, è sempre stato la decodificazione del mondo attraverso l’economia e ho capito che il libro poteva nascere solo mettendo insieme le due cose».
Davvero ha tatuato Alvarado, il nome di suo papà, sul braccio?
«È stato il primo dei miei 15 tatuaggi. Lui ne fu onorato. Poi, ho tatuato i nomi di mia moglie, dei miei figli, frasi di Francis Scott Fitzgerald, “rage, rage against the dying of the light” di Dylan Thomas: infuriati, infuriati contro la morte. Sul cuore, ho la scritta “per sempre”».
È il titolo di un suo libro. Perché, una volta, ha detto che non doveva pubblicarlo?
«Perché appartiene a un mio momento strano e personale: avevo iniziato ad andare nelle chiese, che ci fossero o no le messe. Mio padre, da liberale ateo, si stava convertendo e ho voluto vedere che c’era dentro questa cosa. Non sono riuscito a capirlo».
Anni fa, ha detto al che, dopo aver chiuso la fabbrica, la depressione non ha smesso di accompagnarla. È ancora così?
«Ora, nel nuovo libro, ho scritto che le cose non vanno via mai, nemmeno quando finiscono, e nemmeno le persone, neanche quando muoiono. Alcuni ricordi sono indelebili. Io, per fortuna, non conosco la depressione maggiore, ma ho passato giorni difficili. Di quelli che ti svegli e vedi il vuoto davanti; poi, la mattina dopo, ti svegli e vedi un altro vuoto. Poi, arriva un giorno luminoso e il sole, quando c’è, mi cambia le giornate in maniera comica».
Si sente in colpa per non essere riuscito a tenere in vita l’azienda?
«Un po’ sì. I miei figli, Ettore e Angelica, 23 e 25 anni, sono bravi, sono andati a Londra, ne ho un orgoglio pazzesco, ma quando li ho visti partire è stata durissima, pensavo che io non avevo una fabbrica in cui farli entrare. Quello che oggi mi manca, e che cerco di raccontare in tutti i modi, è la promessa che il futuro ti porti del bene. Questa promessa devi averla, se no come fai a impegnarti?».
La nostalgia del progresso sembra un ossimoro. Invece?
«È il fulcro di quello che scrivo. Ai miei tempi, c’erano cose straordinarie. C’era il Concorde che andava a New York in tre ore. Mi dirà che altri scrittori si occupano d’altro, ma se non c’è più il progresso, le persone si abbandonano a lavori temporanei dai quali non imparano nulla, tutto s’inaridisce…».
Il critico Camillo Langone ha scritto: «Bisogna tenerselo caro Edoardo Nesi: ma dove lo si trova nelle patrie pauperistiche lettere un altro capace di dire che i soldi danno la felicità?». Si riconosce nella definizione?
«I soldi aiutano molto, specie se sono frutto di lavoro e di capacità. Io ero felice quando vendevo un tessuto a uno stilista importante e quel tessuto andava in tutto il mondo».
Primo libro «Fughe da fermo» pubblicato nel ‘95, poi altri sei e il primo successo nel 2011. In mezzo, ha mai pensato di smettere?
«Ho avuto la fortuna di avere un editore, Elisabetta Sgarbi, che mi ha sempre trattato come autore di successo anche quando non lo ero. E a scuola avevo conosciuto Giovanni Veronesi, il regista, e con lui suo fratello Sandro, che era andato a Roma e provava a scrivere. Sandro è magnetico oggi e lo era ancora di più da ragazzo. Leggeva i miei racconti, m’incoraggiava. Anche avere lui è stata una fortuna».
Ha tradotto «Infinite Jest», mille pagine e oltre. Perché ha definito David Foster Wallace «il suicida che mi ha insegnato a vivere»?
«Perché mi ha insegnato a capire come vive un alcolizzato, un infelice, un depresso e mi ha insegnato la tolleranza verso gli uomini e le donne di questo mondo. È come se mi avesse abbracciato con quel libro, come se ci avesse abbracciato tutti».
Come s’immagina da vecchio?
«Mi sto avviando verso questa cosa e questa, sì, sarà divertente».
Articolo di Candida Morvillo per Il Corriere della Sera