Feltri, il Corriere e d’intorni

4 Mag 2015 | 0 commenti

Vittorio Feltri

Vittorio Feltri

Riprendo un articolo di Vittorio Feltri, apparso sul Giornale. Con la sua ironia amara e l’espressione prosaica che lo rende simpatico, il giornalista pesa fatti e persone smitizzando luoghi comuni, ma senza saccenteria, anzi col tono di compiaciuta complicità e l’indulgenza di chi ne ha viste tante. Questa volta parla di giornali e di giornalisti.

 

I giornalisti si sopravvalutano. I direttori, poi, si sentono investiti di una missione e pensano di essere chissà chi: dimenticano che il loro peso (momentaneo) è commisurato alla stazza della testata che guidano. Se ne ricordano soltanto quando, licenziati, verificano di non contare più nulla. I loro ex subalterni (perdonate il termine antipatico), nel giro di alcune ore, li considerano zero e, incontrandoli in corridoio, dopo un minuto di convenevoli sono annoiati e trovano un pretesto per scaricarli. Succede a tutti i capi di essere snobbati una volta persi i galloni: sarà lo stesso per Ferruccio de Bortoli che ha appena abbandonato la poltronissima del Corriere della Sera, occupata in due riprese per 12 anni. Più di lui, in quel posto elevato credo che siano durati, nella prima metà del secolo scorso, solo Luigi Albertini e Aldo Borelli, le cui vicissitudini sono ignote alle ultime generazioni. Immagino lo stato d’animo di Ferruccio: egli proverà un senso di solitudine, parente stretta dell’inutilità. Il Corriere non è un giornale qualsiasi: è il quotidiano per eccellenza, il più autorevole e importante d’Italia, antico e glorioso. Chiunque faccia il nostro mestiere di scribi sogna di lavorarci e di dirigerlo, privilegio riservato a una ristretta élite di fortunelli. Si dice che gli addetti alla compilazione di articoli e di pagine si dividano in due categorie: quelli che hanno una scrivania in via Solferino 28 e quelli che la vorrebbero. Chi presta opera in altre redazioni finge di essere soddisfatto; in realtà mira al Corriere. Coloro che lo hanno lasciato per recarsi altrove, attratti da stipendi più consistenti, lo rimpiangono: in cuor loro desiderano rientrarci, magari nel ruolo di numero uno. Aspetta e spera. Quando viene scelto il comandante del primo foglio nazionale, e se ne pronuncia il nome, ogni collega dice a se medesimo: se hanno assunto quello lì potevano ingaggiare anche me.

Il Corriere è un microcosmo che riflette alla perfezione il macrocosmo sociale. Ciò che avviene nelle sue stanze è simile a quanto si svolge nei palazzi del potere politico: stesse tribolazioni, accese rivalità, ambizioni sfrenate. Nell’azienda editoriale di cui trattiamo, de Bortoli è nato professionalmente al tempo dei Crespi (padroni storici), ai quali l’anno appresso, 1974, subentrarono i Rizzoli, una famigliona che, morto il capostipite Angelo senior, è stata in grado di dissipare (con impegno) un patrimonio immenso. Capita. D’altronde, chi tocca il Corriere crepa o si fa molto male. Esso è portatore sano di sfiga. Molti degli imprenditori che lo hanno posseduto, o hanno cercato di possederlo, sono finiti male. L’avvocato Gianni Agnelli lo raccattò per due soldi al termine dell’amministrazione controllata: un affare con i fiocchi. Egli però defunse consegnando agli eredi una Fiat a pezzi. E a pezzi sarebbe rimasta se Gianluigi Gabetti, genio finanziario del gruppo, non avesse estratto dal cilindro magico un coniglio mannaro: Sergio Marchionne. Un fenomeno. Roberto Calvi, quello del fu Banco Ambrosiano, ci rimise le penne: impiccato a Londra con in tasca un’opzione per rilevare l’impresa devastata dalla gestione rizzoliana. Orazio Bagnasco cercò di accaparrarsela e tirò le cuoia prematuramente. Altri che tentarono di mettere le mani sul mitico organo di informazione furono sbattuti in galera, taluni senza colpa. È la certificazione che questo giornalone è fonte di iella esiziale. Coloro che da esso sono fuggiti hanno avuto fortuna. Invece quelli che ne sono stati al timone, tranne poche eccezioni, tra cui Paolo Mieli, sono spariti nella generale indifferenza. Proprietari e direttori accomunati da un triste destino e dalla scalogna. Mi viene alla mente Giorgio Fattori, amministratore delegato e presidente della Rcs, persona di spessore: ebbe guai giudiziari e di salute. Deceduto. Lo rammento con gratitudine per avermi tolto dal Corriere e affidato L’Europeo , dove fui accolto con due mesi di sciopero, al quale resistetti col suo gelido sostegno. Via Solferino dovrebbe cambiare nome e chiamarsi viale del Cimitero. Non vi transito da un ventennio nel terrore di disgrazie, malattie, sciagure varie. Consiglio a de Bortoli, visto che è sopravvissuto a lungo agli influssi malefici del sito, di stare alla larga dal quartiere Brera. Non si sa mai. Contestualmente auguro al neodirettore, Luciano Fontana, di essere immune dalle note maledizioni. Egli, peraltro, essendo scampato alle stragi e al fallimento dell’ Unità (la cui dipartita è ancora oggetto di varie feste organizzate dai compagni per motivi misteriosi), dovrebbe avere gli anticorpi necessari per sopravvivere anche alle iatture del Corriere . Ma sia prudente. In ogni angolo della redazione si celano insidie. Non intrattenga rapporti coi sindacati interni, altrimenti detti Comitati di redazione, che hanno provocato più disastri dell’Isis.

Torniamo al dimissionato Ferruccio. La sua non breve permanenza nella ditta è stata contrassegnata da eventi memorabili, a cominciare dalla sua assunzione al Corriere dei Ragazzi nel 1973. All’epoca era un giovanottino. Gli premeva fare parte della categoria dei pennini d’oro ed ebbe soddisfazione. Nel 1975 passò al Corriere d’Informazione, diretto da un talento sciupato, Cesare Lanza, dove si impratichì. Era talmente bravo e intelligente che nel giro di pochi mesi divenne comunista ed esponente sindacale, manifestando una precoce predisposizione per il potere. Non ha scritto articoli indimenticabili, attività che non gli interessava e non gli interessa. Ma ha fatto cose assai più redditizie, realizzate con maestria: caporedattore di qui e di là, direttore di qui e di là, dal Sole 24 Ore al Corriere . Un’irresistibile ascesa che lo ha issato due volte sul trono da cui è sceso un paio di giorni orsono. I suoi meriti sono riconosciuti da chiunque non sia in malafede. L’uomo ha stile innato, capacità manovriere, mestiere consumato: praticamente è un sughero inaffondabile. Non è responsabilità sua se la carta stampata è in crisi e se migliaia di edicole hanno chiuso per disperazione, vendendo una miseria di copie. Forse l’intera categoria cui appartengo non ha saputo adeguarsi al progresso tecnologico e continua a confezionare giornali con tecniche superate, inconsapevole che la concorrenza di Internet e delle tv è micidiale. Per reggerla si imporrebbe un mutamento dello spartito. Ma questo è un discorso troppo complesso per essere affrontato nella presente circostanza. Resta da dire che de Bortoli è arrivato in cielo non perché sia un Bel Ami, figuriamoci. All’inizio del suo cammino è stato al massimo un Ami. Strada facendo si è trasformato in un duro, conservando modi garbati. Invecchiando, gli uomini imparano a essere spontanei, trascurano gli opportunismi e mandano al diavolo con il sorriso sulle labbra chi li importuna, a costo di pagare un prezzo salato: prima o poi qualcuno si libera di loro. Ecco. Ferruccio adesso è libero. Anche di cambiare professione e di investire la liquidazione a piacimento. In bocca al lupo, caro collega: benvenuto tra noi ex ragazzi di bottega.

Vittorio Feltri Il Giornale 4.5.2015

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