DISEGNARE LE NOTE E LEGARE I SUONI CON LO SPAGO- VINICIO CAPOSSELA DALLE OSTERIE AL POVERO CRISTO: UN CANTICO PER TUTTE LE CREATURE, PER LA MOLTEPLICITA’, PER COLMARE LA FRATTURA FRA UOMO E NATURA.
Intervista a Vinicio Capossela: «Imparai a suonare in chiesa, per amore della nipote del parroco»
Il cantautore: «Il mito di mio padre era Celentano: quando l’ho incontrato mi sono inchinato davanti a lui. La Rete? La tratto come faceva mia nonna in Irpinia con la tv: gli metteva una tendina sopra, lo considerava un intruso in casa»
«Ho imparato
a suonare i primi accordi sull’armonium in parrocchia: ero segretamente
innamorato di Maria Grazia, la nipote del parroco».
Vinicio Capossela non è semplicemente un musicista, ma un po’ antropologo ed
enigmatico filosofo. Le sue ballate sembrano riferirsi a mondi lontani, come la
città dov’è nato, Hannover. «Sono stato pochissimo in quella città, non ho
fatto nemmeno in tempo a imparare le parolacce in tedesco, perché poi sono
cresciuto in Emilia Romagna. I miei genitori, originari dell’Irpinia, erano
emigranti».
Che
mestiere faceva suo padre in Germania?
«I lavori più umili e più faticosi,
quelli che potevano fare solo gli emigranti. Ma era appassionato di musica,
tanto che mi chiamo Vinicio in omaggio a un fisarmonicista degli anni ‘60, che
mio padre apprezzava tanto. Un giorno si presentò a casa con un giradischi e
con dei 45 giri che erano bellissimi, coloratissimi. Il suo mito era Adriano
Celentano, se lo sognava di notte e, quando molti anni dopo io incontrai il
famoso cantante in una trasmissione televisiva, dov’ero stato invitato, mi
inchinai di fronte a lui come fosse una divinità: era l’omaggio che mio padre
avrebbe voluto fargli».
Quando
ha deciso che avrebbe fatto il musicista?
«L’ho desiderato sin da bambino. Ero attratto dagli strumenti a tastiera, così
come i ragazzini della mia età amavano il pallone o la bicicletta… Amavo in
particolare l’organo e, siccome ovviamente non ne disponevo, disegnai su una
tavola i tasti, scrivendoci sopra i rispettivi suoni: blin, blon, blen… Non
solo: prendevo le cassette di frutta vuote, le univo con lo spago per mimare un
impianto di amplificazione».
I primi
maestri?
«I maestri veri sono quelli che incontri
nella vita, gli altri semmai sono dei punti di riferimento, che per me sono
stati Luigi Tenco, Tom Waits, Fabrizio De André… Il mio primo incontro
significativo nella vita è stato con un giovane insegnante di liscio, che
sapeva suonare e mi insegnò i primi rudimenti al pianoforte. Però nei paesi
dell’Emilia Romagna, come quello dove vivevo io, Scandiano, e dove sono tuttora
residente, a quell’epoca dominava il ballo non solo nelle balere, ma nelle
feste dell’Unità, ai matrimoni… Si mangiava tanto e si ballava allo
sfinimento… E io guardavo ammirato quelle coppie che si scatenavano e
sudavano, sudavano… si squagliavano di sudore… gli uomini, come spugne
imbevute d’acqua, erano costretti a togliersi la giacca, poi la camicia…».
Tanta
passione per la musica, ma lei ha studiato economia all’università di Parma…
«Questa materia mi interessava per il suo carattere sociale».
In che
senso, scusi?
«Intendiamoci, non l’economia da ricchi, ma quella che parla dei salari, dei
diritti dei lavoratori, delle disuguaglianze, delle rivendicazioni sindacali…
insomma, volevo capirne i meccanismi per rendermi utile alla comunità».
Però ha
cambiato strada e ha abbandonato gli studi economici. I suoi genitori sono
stati contenti di avere un figlio musicista o lo avrebbero preferito impiegato
magari in banca?
«Ogni genitore ambisce, per il proprio figlio, al posto fisso, ne è attratto
come da un centro di gravità… Devo dire, però, che non ho avuto opposizioni
particolari da parte loro, perché non avevo un’azienda familiare da portare
avanti e il vantaggio di avere poco è che hai meno da perdere… sei più libero
nelle scelte. Mio padre si limitò a dire una frase lapidaria: “Vinicio meglio
di così non poteva venire. Peggio di così non poteva venire”».
Le
prime esibizioni non riscossero grande successo…
«Dica pure fischi… nella Bassa padana mi capitava di suonare dappertutto,
anche nelle osterie. Una volta andai a suonare insieme a un gruppetto in un
circolo punk a Modena e un tizio, di cui ricordo solo gli anfibi che portava ai
piedi, schifato dalla nostra esibizione, si alzò e, andandosene, esclamò: siete
la morte».
Si è
scoraggiato?
«Assolutamente no. Il rapporto con il pubblico è sempre rischioso. Il guaio è
quando diventa condizionante e quindi, pur di compiacerlo, rinunci alle tue
scelte per farne altre, cambi i tuoi programmi. Un artista deve intraprendere
il suo cammino, tra fischi e applausi, accettando la fatica di farsi accettare
per ottenere consenso. Non sono un elitario, tuttavia secondo me è peggio
quando ci si adegua alle richieste del pubblico: il rischio, come canta Ivano
Fossati, è di fermarsi ad ogni lampione. La stessa cosa avviene in politica».
Cioè?
«Non sono partitico, ma politico, ogni gesto che facciamo è politico. Il fatto
di delegare, degradare la politica a una macchina del consenso, dove siamo
tutti tirati per la giacchetta, è la maniera più limitata. Non si può ridurre
la figura del politico a quello che si fa i selfie in piazza e non si può
ridurre un cittadino a colui che mette una crocetta sulla scheda del voto.
Ripenso alla figura di Enrico Berlinguer, che parlava da solo, davanti a
milioni di persone ed era capace solo con le sue parole di porsi come un vero
leader».
Altri
tempi. La realtà attuale è un’altra.
«Purtroppo, ma il reale non coincide con il vero. La dittatura dell’attualità,
che ci costringe a esprimere opinioni per esempio attraverso i social è
ineludibile e insopportabile. Quello che mi preoccupa è l’abuso dell’immagine
rispetto alla parola: le immagini che dilagano in rete, sono immagini che
mettono in circolazione le pulsioni più basse e possono anche fare molto male
alle persone. Ecco, io preferisco avere un rapporto mediato con la “bocca della
verità” che è la rete, uno strumento meraviglioso che richiede un alto senso di
responsabilità. E allora sopra a quelle immagini ci metto una tendina, così
come facevano mia nonna o le mie zie in Irpinia che sul televisore ci mettevano
la tenda, perché lo consideravano un intruso in casa: si sentivano osservate da
quel catafalco che dominava in camera da pranzo».
Il suo
ultimo album si intitola «Ballate per uomini e bestie». Chi sono gli uomini, e
chi le bestie?
«Appartengono entrambi allo stesso genere umano. La bestia, infatti, non è solo
l’animale selvaggio, quello destinato all’arena, bensì la persona che si
comporta male, aggredendo il prossimo nella lotta per la sopravvivenza, facendo
prevalere la legge del più forte. Bestia è un termine ampio, comprende anche il
maleficio, non a caso è pseudonimo del diavolo».
Insomma,
qual è il confine tra gli uomini e le bestie?
«Ciò che ci rende uomini è la cultura, il rispetto delle regole, il sapere
stabilire dei limiti per stare insieme in una convivenza pacifica. Il confine,
ovvero la differenza, è tra civiltà e barbarie».
Chi è
«Il povero cristo», che dà il titolo a un brano dell’album?
«Non sono credente, non sono sorretto dalla Fede, ma sono sensibile al sacro,
alla ritualità e leggo con attenzione le Scritture. La religione ci offre delle
chiavi di comprensione più dell’uomo che di Dio. D’altronde, Dio stesso si è
fatto uomo».
Posso
farle una domanda impertinente?
«Dica pure».
Lei in
palcoscenico è sempre provvisto di cappello. È una questione che riguarda il
costume di scena oppure si tratta di pura e semplice civetteria, per nascondere
la calvizie?
«È davvero un po’ impertinente questa domanda, che nessuno mi ha mai fatto… —
ride —. Ora le spiego: non è civetteria, è una forma di travestimento, il più
pratico che esiste da portare in giro nelle tournée. Di cappelli ne ho tanti,
di varie fogge e diversi colori, ma sono facili da trasportare, perché occupano
poco spazio, tranne alcuni che sono più ingombranti, insomma… un teatrino
portabile! Però la loro funzione è soprattutto un’altra: con i cappelli si
creano dei personaggi, si trasmettono delle suggestioni, rappresentano una
vestizione delle mie canzoni… In altri termini, sono degli ottimi compagni di
lavoro che accompagnano certe stagioni della vita. Dunque, non sono coperchi
per la calvizie».
Nato ad
Hannover, cresciuto a Scandiano, poi in giro per il mondo. Si sente un apolide?
«Non mi sento fuori dalla polis, dalla comunità. Credo di essere apolide come
qualunque uomo contemporaneo. Semmai ho il vantaggio di essere pluripolide: di
comunità ne ho parecchie».
Intervista di di Emilia Costantini per il Corriere della Sera