La casa editrice Adelphi ha nel suo catalogo il libro di Alberto Savinio Souvenirs, che meriterebbe di essere ripubblicato.
Il libro raccoglie articoli su Parigi e la Francia pubblicati nell’arco di vent’anni, dal 1926 al 1945. Savinio soggiorna a Parigi una prima volta nel 1911, durante il quale ha modo di conoscere molti esponenti delle avanguardie artistiche come Pablo Picasso, Blaise Cendrars, Francis Picabia, Jean Cocteau, Max Jacob e Guillaume Apollinaire. Ritorns nella capitale francese negli anni Trenta Savinio e trova la città irriconoscibile, l’apprendistato creativo è lontano, la città gli appare priva degli stimoli culturali di vent’anni prima.
In una recensione apparsa nel 2019 su Il Tascabile, dal titolo Parigi è nuda, Lavinia Torti, docente all’università di Bologna, così scriveva:
“La Parigi degli anni Trenta qui sembra “una dama dal passato brillantissimo” nella morsa di una crisi e di una conseguente stasi di cui non vuole avvedersi. La Francia tradizionalista e borghese prosegue a rintanarsi in quell’“enorme credenza”, in quella “mostruosa cassapanca” che è l’“Operà” (sic), metafora stessa di una Parigi quale “Vieille Dame”.
Lavinia Torti riporta alcuni brani del libro che meglio descrivono lo spaesamento culturale di Savinio:
“E mentre gli altari maggiori si spengono, e crollano i templi dei culti tramontati, e sub terris tonuisse putes, come cantava il divino Nerone, l’Opera di Parigi raggrinzita ma tenace, tra lo strombettare di mille e mille automobili che le girano attorno e in mezzo all’indifferenza generale, continua serenamente a vegetare, a simiglianza di quelle piante sterilizzate che non hanno più che farsene né di acqua né di sole. “
“E là dove una volta sorgeva il Vaudeville, oggi sorge, fontana di luce, il Paramount; ove una volta sorgeva l’Olympia […] ora sorge, sotto lo stesso nome, la sede centrale dei cinematografi Jacques Haïk; ove una volta erano le Capucines – un amore di teatrino, una bombonnière dorata e profumata – ora sorge, dopo poche trasformazioni e riattamenti, il cinematografo delle Capucines. E solo chi ha attitudini di podista, fede di pellegrino e la costanza di avventurarsi fin presso la Piazza della Repubblica, potrà trovare ancora alcune scene, come la Renaissance e la Porte-Saint-Martin, ove attori e attrici in carne e ossa continuano imperterriti, davanti ai quattro gatti che scaldano le poltrone di platea, a sparare gli alessandrini di Rostand o le tirate di Henry Bernstein.”
La borghesia parigina diventa il bersaglio preferito dei suoi reportages parigini. Ne descrive le ridicolaggini e i vizi, ne riporta aneddoti e pensieri privati, con ironia a tratti insolente, humor pungente, con toni a volte rassegnati, quasi compassionevoli. Agli artisti riserva pezzi dai toni brillanti ma composti, aulici ma mai pedanti, in cui la satira, scrive Torti, “ come in certi suoi quadri la metafisica prende il posto della satira (ad esempio in Objets dans la forêt)” La sua impertinenza non risparmia nessuno, esclusi Apollinaire e Georg Simenon.
Il brano che riporto ben esprime questi modi di Savinio, la protagonista è Colette, scrittrice allora assai in voga. Di Parigi e Colette ho già scritto nel blog (https://www.ninconanco.it/wp-admin/post.php?post=1018&action=edit).
“” I libri di Colette sono noti e diffusi anche in Italia, ma io non li ho letti. Ignota a me nello spirito, ho avuto il piacere di conoscere Colette in carne: nel corso del passato inverno, alla mensa di un parlamentare tra i più colti e mondani. Ho detto: in carne. La proprietà di questa locuzione apparirà chiara, quando avrò aggiunto che Colette è voluminosa e piramidale, o per meglio dire sagomata in quella forma a campana o a tartaruga che da Sarah Bernhardt alla signora Delarue-mardrus e da questa a Colette, mostra di essere il tipo somatico di tutte le illustri donne di Francia.
Si sa quale armonia associa le voluttà dello spirito a quelle del palato. Il pranzo al quale partecipava Colette, era un pranzo intellettuale.
La tavola nuda e lucidissima rifletteva i trionfi di argento e di cristallo, come il mare notturno riflette le luci di una città marittima. Palle succose di un’artiglieria incruenta, pesche ipertrofiche e fuori stagione si levavano a piramide e a tre a tre dalle fruttiere. Dagli orli di altre fruttiere, biblici grappoli d’uva grondavano giù come donne ignude e svenute, e formate unicamente di minuscole mammelle. I rami d’oro delle banane esaltavano la signoria dell’uomo bianco sul negro sottomesso e laborioso. Gli ananas corazzati sotto un pennacchio di parata, si offrivano in omaggio a Santa Barbara, protettrice dei cannonieri. Alla gloria di Pomona, fiori rarissimi e mostruosi univano la loro magnifica inutilità. Ero alle nozze di Cana, ma trasportate in un clima squisitamente europeo e ammorbidito dal tepore dei radiatori.
Tuttavia la ministressa di cui eravamo gli ospiti aveva l’aria di considerare la propria mensa alla stregua di uno squallido deserto, di cui conveniva correggere l’aridità mediante una giusta ripartizione di ombre riposanti e di refrigeranti sorgenti. Ella infatti aveva divisa la propria tavola in tre zone distinte, ciascuna delle quali godeva i benefici effetti di un’oasi umana… Non lo so: l’ordinatrice della mensa non mi aveva collocato nel reparto politico, ma in quello letterario. Questa oasi era tutta mossa da umoristici venti, animata dal verbo di quel “maestro del riso”… Dal capo opposto della tavola, seguivo con occhio ansioso l’atteggiamento della mia amatissima sposa. Benché essa intenda chiaramente il francese e lo parli anche con lodevole correttezza, non è riuscita ancora a penetrare tutte le sottigliezze di questa lingua, la quale si compone più di accenni e sfumature che di espressioni plastiche e corpose. Cionondimeno, e forse più che altro per contagio, l’amatissima mia sposa non solo partecipava generosamente all’ilarità generale, ma a un certo momento l’eccesso del riso le mandò di traverso un boccone di petto di pollo, e se un suo vicino premuroso non l’avesse aiutata mediante ripetuti colpetti sulla spalla a ritrovare il ritmo regolare della respirazione, l’incidente avrebbe potuto avere conseguenze gravi…
Colette, la fine scrittrice, io l’avevo al mio fianco. Essa, or non è molto, ha aperto a Parigi una bottega di cosmesi femminile, o, per dirla in termine consacrato, un istituto di bellezza. È da credere però che la signora Colette non ci tiene affatto a costituire per il suo istituto una vivente pubblicità. Quel giorno essa portava un abito monacale, un saio di fraticello costellato di macchioline varie, le quali con eloquenza muta illustravano la vita intima, i costumi, le fatiche domestiche dell’illustre donna. Una selvaggia foresta di capelli giallastri le grondava sugli occhi. Oltre a ciò la signora Colette si era ferita a un dito, e l’arto malato ella lo aveva avvolto dentro uno straccio originariamente bianco, i cui lembi, nella foga alimentare della signora, strascicavano ora nelle salse delle pietanze, ora nel condimento dell’insalata.
Ma Colette è meno un corpo che un puro spirito. E la sua parola, come potei convincermene quel giorno, non è parola umana ma il canto di un’anima.
Essa, più che dei propri simili, è l’amica tenerissima, la protettrice, l’avvocata delle bestie. Cani, gatti, cavalli, uccelli di vario genere sono i suoi compagni prediletti.
Questa però non è se non la parte meno importante della sensibilità colettiana. Là ove essa sensibilità tocca al suo zenit, è nelle relazioni tra la sua anima e i fiori. Dei fiori, dice la signora Colette, essa vive la vita, soffre le sofferenze, gode le gioie. “Non chiudo occhio tutta la notte”, mi confidò a un certo punto l’illustre scrittrice chinandosi verso me, mentre la forchetta manovrata dalla mano inferma fruconava dentro un gruppetto di piselli che schizzavano a raggio fuori del piatto, come chicchi di granturco sotto le ali di una faraona che starnazza.
“Ha provato il Sedobrol?”. Colette sorrise con indulgenza: “Che può fare il Sedobrol? La notte io sento in tutte le fibre del mio corpo lo sforzo che devono fare i tulipani per sbocciare alla luce del giorno. Come dormire, se lo sforzo dei tulipani io lo vivo intensamente?”. Dopo questa dichiarazione, un profondo avvilimento oscurò la mia mente, pesò sulle mie membra. A petto a una tale sensibilità, capii quale bruto io sono e in qual rozzo legno Natura mi ha tagliato.
Tuttavia, e per l’effetto forse che le parole di Colette ebbero a fare sulle mie vie digerenti, io, per invitanti che fossero le vivande portate in giro dai camerieri entro piatti d’argento, non toccai cibo, né potei gustare quel pollo tenerissimo che per poco non aveva soffocato la dolce compagna della mia vita.“”