Volumi sul comodino: «I Promessi sposi: è un libro meraviglioso, ma non dovrebbero più infliggerlo a scuola. All’epoca era un obbligo da studiare e nella mia testa di ginnasiale l’imposizione uccideva il fascino letterario. Se fosse rimasto nascosto come Jukebox all’idrogeno, ai nostri occhi Manzoni sarebbe forse diventato alternativo come e più di Ginsberg». Nel mezzogiorno di marzo, davanti a un bicchiere di bianco, in un bar a due passi da casa, Francesco De Gregori trasforma il marciapiedi nella piazza di un paese. Passa un ragazzo, lo saluta: «Lui è Stefano, il più bravo tabaccaio di Roma, mi trova le Gauloises, anche se per essere il migliore del mondo dovrebbe sforzarsi e portarmi le Senior Service».
Ancora tre settimane e questo fumatore compulsivo che accende sigarette e inventa capolavori con la stessa lieta indifferenza di chi ha trovato una porta segreta tra cielo e terra compirà 68 anni: «Pensare che sono su un palco da più di 50 non mi terrorizza, ma sicuramente mi stupisce. Non ho mai pensato che la mia vita dovesse essere così legata alla musica, non solo come mestiere, ma in senso intimo. Quando scrivevo i miei primi dischi, mi sentivo soltanto uno che aveva preso un treno in corsa».
Un treno da cui scendere in fretta?
«Sì e per diecimila motivi. In famiglia, da mia zia a mio nonno, la musica c’era sempre stata. Ma l’idea di farne una professione era lontanissima e l’ambiente discografico non era proprio il mio. E invece da ’sto treno – un treno che si è fermato, ha rallentato e a tratti accelerato – non ho mai trovato un motivo per scendere».
Perché?
«A bordo non stavo poi così male e intorno ai 40 anni mi sono reso conto che quello ero e che sarebbe stato inutile provare a forzare le cose per tentare di essere o peggio diventare qualcun altro».
Dove ha trovato la sua libertà?
«Nel non costringermi a fare quel che non volevo. Non ho mai avuto un prezzo, neanche quando le tasche erano vuote».
I tempi del Folkstudio.
«In via Garibaldi non c’era un cenacolo di intellettuali, ma un gruppo di amici. Era un’epoca precaria ma felice, ci esibivamo sul palco. Cantavamo canzoni che a volte non trovavano neanche la via per essere incise».
Da dove venivano?
«Dall’ispirazione del momento e dai cassetti che si riempivano di appunti, frasi, graffi e ispirazioni che ogni tanto diventavano melodie».
In rete gira un pezzo intitolato De Gregori era morto. «De Gregori era morto/ucciso dal suo ultimo Lp e dai suoi profeti».
«In qualche modo quella canzone non è più mia e anzi, forse non lo è mai stata. Era anche divertente, ma era scaciata e in fondo non mi piaceva».
Scaciato, vocabolario Treccani: «Miserello, dimesso, trascurato».
«Come quella canzone ce ne sono altre cinque o sei. Pezzi che chiunque potrebbe prendere e firmare sostenendone la paternità con qualche speranza di essere creduto. Ma è normale: un artista fa un quadro che non gli piace, lo mette da una parte e poi arriva qualcuno che dice: “L’ho dipinto io”».
Le altre cinque nel cassetto oltre a De Gregori era morto?
«Una si intitolava Roma Capitale. L’ho scritta nel 1970 per celebrare il centenario dell’Unità d’Italia: una canzone sarcastica che non ho mai pubblicato. Alcuni amici mi dicono: “Possiamo inciderla noi?”».
E lei cosa risponde?
«Se vi piace tanto, prendetevela».
Non è stato mai geloso del suo ruolo?
«Del mio ruolo, che non so neanche bene quale sia, proprio mai. Non sono neanche sicuro dell’efficacia di quello che ho scritto trenta o quarant’anni fa, figuriamoci del ruolo».
Rinnegherebbe alcuni dischi?
«Dal punto di vista del suono o dell’arrangiamento più di uno. Salvo solamente i primi e gli ultimi. Se solo potessi, affronterei gli album che vanno da Terra di nessuno ad Amore nel pomeriggioin maniera completamente diversa. Andrei dritto sulle melodie di base senza creare incisi e ponti musicali che una volta risentiti, anni dopo, stancano e a volte stancano molto».
Ha lo stesso rapporto con alcune canzoni?
«Ho litigato spesso con La leva calcistica della classe ’68. Fino a quando l’ho cantata pensando a me stesso nei panni del bambino calciatore mi è parsa una canzone datata e anche un po’ finta. Ora la canto volentieri perché riflettendoci credo che sul campo non vada soltanto Nino con la sua maglia numero 7, ma un nucleo di vita. Un aggregato umano».
Composto da chi?
«Dalle suggestioni di una persona che tutto desiderava nella vita tranne star fermo. Mi sono mosso e agitato, anche dentro me stesso. Sono partito, sono tornato, ho avuto i miei insuccessi come tutti e ho avuto anche le mie paranoie».
Quali paranoie?
«Scarti d’umore, alti e bassi, momenti in cui si davano il cambio euforie e tristezze».
Il primo successo clamoroso, invece, fu Alice.
«Mi ritrovavo in scena: io, la chitarra che neanche suonavo bene e il palco vuoto. Tutti volevano ascoltare i gatti morire e il sole avvicinarsi tre volte in tre quarti d’ora. Diciamo la verità, Alice era delizia, ma anche croce».
Partiamo dalla delizia.
«Appena accennavo due accordi piovevano applausi da 500 persone. Non posso negare che mi desse una certa soddisfazione. Alice era oggettivamente una hit e l’idea di aver composto una hit non mi dispiaceva».
La croce?
«Cantata Alice, del resto della scaletta, a nessuno fregava più un cazzo di niente. Può darsi che i concerti che sto tenendo a Roma, alla Garbatella, in un piccolo club che può contenere poco meno di 250 persone, rappresentino una rivincita a posteriori sul tempo che fu. Alla Garbatella non faccio più di 4 o 5 hit in tutto».
In questi concerti suona e canta pezzi meno noti della sua infinita produzione.
«Se mi ritrovo a cantarli con gioia, anche se sono stati scritti 30 o 40 anni fa, entrano nella scaletta. Poi certo, gli anni sono passati e quell’amore a cui mi rivolgevo, quel nome o quella faccia non ci sono più. Ma in quel momento non sto interpretando un periodo, ma un disagio, una sofferenza, un istante di gioia. Bisogna togliere la biografia dalle canzoni e mettere in luce con onestà ciò che è immutabile: il sentimento. Vale anche per le canzoni politiche».
Ne ha scritte?
«La storia siamo noi, Viva l’Italia. Le ho scritte, certo. Prendendo però sempre le distanze da una certa mitologia della sinistra. Non avrei mai scritto una canzone su Guevara o su Carlo Giuliani».
Come mai?
«Non sono certo un reazionario, ma ho sempre diffidato della superideologizzazione. Non a caso Pablo, temendo sovrapposizioni improprie, lo avevo chiamato collega. Neruda non c’entrava niente e Pablo avrebbe potuto chiamarsi Pedro. Pablo suonava meglio».
Ha scritto Informazioni di Vincent, in cui confessava di essere sempre rimasto indifferente ad Angela Davis, e anche A Pà, dedicata a Pier Paolo Pasolini.
«Ma Pasolini è un artista, un poeta, tutto tranne che un uomo politico e, anzi, Pier Paolo con la politica ci ha sempre fatto a botte».
Anche lei?
«Da ragazzo, quando mi chiedevano per chi voti, lo dicevo. Quella formula: “Il voto è segreto”, mi sembrava il manifesto del doroteismo».
Oggi?
«Non mi va più di dirlo, né ho mai anelato sostenere pubblicamente qualcuno o peggio esserne sostenuto. Non bramo per abbracciare o essere abbracciato dalla politica, non sventolo vessilli, non mi presto a un ragionamento parziale per vedere il mio pensiero sintetizzato allo scopo di fare casino, vestire una delle magliette di una delle squadre in campo. Preferisco non giocare e se non mi va, magari, evitare di vedere la partita».
La politica per lei ha ancora un senso?
«Non vivo in una torre d’avorio. Leggo i giornali, vedo i talk show e guardo a quello che succede nella politica. Ho le mie opinioni, quelle che la gente può immaginare benissimo. In questo periodo storico di lacerazione e conflitto planetario, non certo solo italiano, accadono cose dolorose. Ma non mi piace parlare di politica accorciando i ragionamenti e tagliando le cose in maniera schematica come i politici di professione, anche per un ovvio ritorno elettorale, fanno regolarmente. Le ricette suggerite e gli slogan sono quanto mai semplicistici. E io alla semplicità, nella vita, aspiro davvero. Ma nella schematizzazione della politica non mi riconosco. La politica è cosa complicata e su certi temi vorrei sentire ragionare con assunti che vadano oltre lo slogan».
Romano Prodi definisce Salvini un razzista tout court.
«Con il massimo rispetto per i bar, luoghi che amo profondamente, nella discussione da bar non entro. La semplificazione di problemi come immigrazione o globalizzazione mi sembra sbagliata e l’uso di una parola così netta, che ha un significato così variabile nella storia del mondo, che si applica a situazioni diversissime: dal razzismo degli Stati dell’America profonda all’antisemitismo europeo del ’900, mi sembra superficiale come spesso è stato l’uso dell’aggettivo fascista o comunista attribuito al nemico politico solo per evitare di scendere sul piano della contestazione critica. Più che razzista, definirei Salvini xenofobo, che vuol dire un’altra cosa anche se i due termini vengono spesso accostati e confusi».
Cosa è per lei il conformismo?
«Volersi appiattire su quello che è un sentire collettivo. Percepire nel mondo che ti circonda una volontà comune, spesso stereotipata, magari cavalcata dai giornali, dalla tv o dagli amici che ti dicono “bisogna esse tutti così”. Desiderare di appartenere a una specie di collegio di persone che la pensano tutte nel medesimo modo e in questo modo si rassicurano. Come diceva Prezzolini, io sono un àpota: uno che non se la beve. Mi piacerebbe essere così, uno che non se la beve, uno che può avere idee difformi, anche rispetto al contesto o alla cultura politica in cui è nato. Uno che non concorda in maniera meccanica e aprioristica, ma ragiona con la propria testa anche se la tua testa è un po’ sghemba rispetto alla morale corrente. A me gli sghembi, gente come Tenco o De André, o, per restare a oggi, Francesco Tricarico, sono sempre piaciuti».
Come mai?
«Perché mi pare ci accomuni un’indole di fondo. L’illusione di rispondere no a chi ci dice cosa dobbiamo essere o cosa dire o fare. Non lo sopporterei e credo neanche loro. Rimmel nasce proprio dal rifiuto nei confronti della mia casa discografica che voleva farmi fare un disco da cantautore, solo voce e chitarra, perché in quel periodo, secondo il mio produttore Lilli Greco, uno come me doveva sembrare in un certo modo».
Lei lo ha anche cantato: «C’è uno stile di vita/ e un certo modo di non sembrare».
«Infatti ai tempi di Rimmel dicevo: “Bene, allora vorrei fare un disco accompagnato dai Pooh”. Certe facce sgomente avevo davanti, avrebbe dovuto vederle».
L’avranno ritenuta il solito stronzo, come ha detto ironicamente di voler essere considerato.
«Non è che mi piaccia, intendiamoci. Se un amico mi dice “sei un vecchio stronzo”, può farmi anche bene, ma quando affermo di voler essere il solito stronzo intendo dire che rifiuto di essere innalzato a maestro. Mi sono sempre visto come un uomo normale che fa un lavoro normale: mi rendo conto che agli occhi di chi osserva il mondo di chi fa spettacolo come un’accolita di marziani calati dall’alto la cosa appaia poco credibile, ma a me pare di svolgere quasi un servizio pubblico».
Un servizio pubblico?
«Nella storia, da sempre, l’artista lavora per la gioia degli altri. Quando mi chiamano maestro dico: “Chiamatemi bidello oppure preside”. Di essere considerato un mostro sacro non me ne frega niente. Non ho niente da insegnare a nessuno, anzi, mi capita di imparare ancora molto dagli altri».
Ha mai pensato di ritirarsi dalle scene?
«Sono sempre le scene che si ritirano da te. L’idea del gran rifiuto non mi ha mai sfiorato. È capitato anche a me: avvertire fatica o attraversare frangenti in cui il mercato non ha risposto succede, ma non ho mai drammatizzato. Ho sempre pensato fosse un passaggio transitorio e che facesse parte del gioco».
È vero che provò a fare l’attore?
«Ma no, ero amico di Paolo Pietrangeli e un giorno mi propose di fare un provino con Fellini. Al maestro, lui sì che si poteva chiamare così, avrei portato l’acqua con le orecchie. Ma lui cercava un ragazzo bruno e non tanto alto per il suo Roma e invece si presentò questo spilungone roscio. Fellini fu gentile, ma poi si rivolse a Pietrangeli: “A Pà, che ci devo fare con questo bel giovane?”. Fine della storia con il cinema».
Sempre a quegli anni risale una delle sue prime apparizioni televisive.
«Vincenzo Micocci, non so come, aveva trovato a me e a Venditti un passaggio in Rai. Il programma si intitolava Tutto è pop. Io e Antonello arrivammo a Torino dove passai i tre giorni peggiori della mia vita. Per esigenze di scena avremmo dovuto travestirci e giravano abiti che andavano dalla divisa da cowboy a quella di paggio del Settecento. Lo scenografo intimava “te devi vestì così”. E io rispondevo: “Non ci penso neanche, io ho scritto Signora aquilone, lo sa?”. Temevo di sputtanarmi con i miei amici del Folkstudio e volevo andar via. Mi fermarono e vedendo il mio smarrimento mi consolarono, paterni, Claudio Villa e Gino Paoli: “Ma dai Francesco, resta qui, che te frega?”».
Che anni erano quelli della giovinezza?
«Anni ribaldi. Vivevo a Trastevere ed ero solo un ragazzo che cercava di emanciparsi anche economicamente in fretta, non tanto per smania libertaria quanto per poter mettere mille lire di benzina in più nella R4 verde mela. Tiravo tardi, conoscevo gente che beveva e fumava, anche se le canne non mi hanno mai appassionato. Ne avrò fumata una in tutta la mia vita».
Articolo di Malcom Pagani per Vanity Fair