Non è più nemmeno una questione di garantismo (partita persa e strapersa), ma di salute mentale. Ieri è finito dentro per corruzione Marcello De Vito, presidente a cinque stelle dell’ Assemblea capitolina, e il capo Luigi Di Maio l’ ha scaricato in dodici secondi: «Si difenderà ma lontano da noi».
A quelli del Pd non gli pareva vero, e in una mezza dozzina hanno assicurato di non essere giustizialisti, ma coi grillini, hanno detto, la corruzione è arrivata fin sul pennone del Campidoglio. Tutti mossi da altissima moralità, naturalmente, e si giocano la loro partitella del consenso sulla gola di un innocente secondo Costituzione (la presunzione d’ innocenza, che noia). Non poteva che andare così, quando si trasforma la lotta alla corruzione in una psicosi millenaristica.
Sono anni che si sentono stupidaggini secondo cui la corruzione è il cancro, la metastasi, la malattia mortale, e dovremmo essere sepolti da secoli, visto che già lo diceva Giovenale («il torrente di vizi… la follia del denaro… tutto ha un prezzo»). E così questo partito della scatoletta di tonno era venuto al mondo – parole dello stesso De Vito – proprio «per spazzare via la corruzione». Nemmeno gli viene in mente che il medesimo vasto programma albergava nella testa di Robespierre, e poi la testa gli finì staccata dal collo.
Non li viene in mente che la corruzione non è il cancro o la metastasi, è da millenni un effetto collaterale del potere, insomma un reato e come tale lo si dovrebbe affrontare, senza isterie. Fatti loro. Noi staremo qui a vederli impiccarsi l’ un l’ altro ad alberi sempre più alti, a maggior gloria della loro etica.
Articolo di Mattia Feltri per “la Stampa”