La malattia: strumento di indagine interiore, per ritrovare se stessi nello sdoppiamento e nell’angoscia. Rinunciare a tutto, prima che la devastazione del male e la coscienza del nostro stato ci sommergano.
«Una volta ero Flesherman». Inizia così, lapidario, il racconto di chi si scopre improvvisamente fragile, minacciato dall’oblio e dall’assenza di futuro. La voce che dice “io”, senza pienamente riconoscersi, è quella di un criminologo e psichiatra di fama mondiale a cui viene diagnosticato un male irreversibile, l’Alzheimer. Le pagine che seguono, in questo raffinato romanzo di Giuseppe Aloe –Lettere alla moglie di Hagenbach- Rubettino editore- non sono la storia di una malattia, con lo strascico di inevitabile commiserazione che essa comporta nella percezione degli altri, ma il tentativo del protagonista/narratore di mantenersi quanto più integro, anche nello sdoppiamento, di prolungare la coscienza del proprio stato. La scrittura, cristallizzazione di una parola che il narratore prima o poi perderà, è il mezzo che gli permette di registrare asincronie e interferenze, alterazioni e affondi nella realtà.
Anche se il protagonista ci avverte subito di una frattura, questa non è facilmente identificabile nel corso degli eventi, perché la narrazione contiene la deriva e, come insegnano i maestri dello straniamento, da Kafka a Gogol, qui sapientemente chiamati in causa, anche gli incubi obbediscono a una logica serrata. Risalire con certezza all’attimo in cui Flesherman ha smesso di essere se stesso è una misurazione riduttiva, lasciata allo sguardo del medico o della moglie; mentre nel racconto in prima persona tutto si dispiega con grande fluidità. Alla notizia di un’imminente prigione fisica e psicologica Flesherman reagisce con l’avventura: accetta cioè l’invito del collega Bausch, primario di medicina legale a Berlino, a collaborare su un caso importante: la perizia che potrebbe svelare, dopo 90 anni dall’uccisione, l’occultamento del vero cadavere di Rosa Luxemburg, la fondatrice del partito comunista tedesco.
Da una città non specificata Flesherman approda a Berlino, deciso a compiere, ancora una volta, il suo mestiere. Ma, contrariamente alle sue aspettative, l’entusiasmo del collega lo lascia indifferente. Lo incuriosisce, invece, un altro caso: la scomparsa, non ancora ufficiale, dello scrittore Hagenbach. Bausch gliene parla in amicizia, quasi uno sfogo personale. Gli racconta del dolore di Hagenbach per la moglie Dora, ormai incosciente a causa dell’Alzheimer. Non si ha traccia dello scrittore da 24 ore, ma qualcosa si può forse intuire dalle lettere che lui ha continuato a inviare alla moglie, dal giorno del ricovero in clinica, nell’assurda speranza che lei potesse riprendersi. Con il plico delle lettere tra le mani, Flesherman ha un’improvvisa intuizione che lo spinge a lasciare la perizia scientifica su Rosa Luxemburg e inseguire una pista che conduce verso il suo stesso destino di annullamento. Flesherman vuole ritrovare Hagenbach, capire l’abisso del suo dolore, forse imparare da lui l’arte di rinunciare a tutto: ai propri affetti, alle proprie abitudini. In breve tempo, il criminologo si trasforma in detective, e grazie a un indizio si trasferisce a Travemünde, luogo in cui spera di trovarsi faccia a faccia con il fantasma di se stesso. La città di mare diventa così lo scenario di ulteriori cortocircuiti memoriali e di un’inaspettata vitalità sensuale. Proprio attraverso la distanza geografica dai luoghi della sua esistenza, e la deviazione da comportamenti abituali, Flesherman paradossalmente ritrova se stesso, i suoi pensieri sommersi, le sue sensazioni sopite; dall’obnubilamento che gli provoca la malattia emergono punte di chiaroveggenza, in cui avverte il desiderio, ma anche la vergogna e la desolazione.
In questo romanzo, avventuroso e a tratti poetico, la trama è solo la linea sovraimpressa di un disegno che ha invece contorni mossi e mille sfumature. Al fallimento di una vita fa da contraltare la fragilità della storia, evocata attraverso la vicenda di Rosa Luxemburg, e la stessa ambientazione berlinese, quasi a voler contrapporre smemoratezza individuale e bisogno di memoria collettiva. Eppure l’autore non insiste quasi mai sulle implicazioni sociali dell’Alzheimer. Mentre una sempre più numerosa letteratura ci ha reso tristemente consapevoli della devastazione che questa malattia impone sul malato e sulla comunità dei suoi cari, Aloe sceglie la prospettiva originale dell’introspezione. Non sapremo mai se tutto quello che Flesherman ci dice è accaduto o inventato. E non a caso Flesherman si identifica sia con Dora, la malata, sia con Hagenbach lo scrittore inconsolabile. Manca, se non per brevi istanti, il racconto dell’altro, come invece prediligono due opere pionieristiche sull’argomento, il romanzo Lo sconosciuto (Sironi 2007) di Nicola Gardini, e la raccolta poetica, Ricordi di Alzheimer (Book Editore 2008) di Alberto Bertoni, che si concentrano infatti sulla prospettiva dei figli rispetto ai padri ammalati.
Per Giuseppe Aloe l’Alzheimer è soprattutto uno strumento di indagine interiore, che, pur nell’alienazione progressiva, permette di ripercorrere con acutezza sentimenti dimenticati («Sentivo finalmente cosa significasse essere figlio. Quale miracolo fosse essere ancora figlio. Vivere in un mondo che si apre di continuo») e di dar forma ad angosce sotterranee («È il mondo che ti uccide. Chi altri?»). Allo stesso tempo la malattia non è una condizione eccezionale, ma la metafora di ogni vita, sospesa tra desiderio di infinito e paura della fine.
Recensione di Teresa Franco