IL VASTO MONDO DI ALVAR: Una vita “prazzesca”. Opere, memorie e incontri di Alvar González- Palacios, storico dell’arte e molto altro
Alvar González- Palacios è uno degli ultimi campioni di una razza in estinzione, una genia di storici dell’arte che però scrivono come ai romanzieri italiani non riesce quasi mai. Scrittori più “a punto” dei prosatori, come se la precisione richiesta per decifrare un’opera, per trovare un’attribuzione, richiedesse la perfezione dello sguardo e poi della parola esatta. Gentiluomini dentro o più spesso fuori dall’accademia, più a loro agio tra principesse e musei che non in università scrostate. González riceve in un palazzo romano pieno di terrazzi, torrette, quadri e libri, sopra un’ambasciata sudamericana con bandiere e viavai anche in ascensore plurilingue e profumi fuorimoda. Sta lavorando a un nuovo fondamentale libro sul mobile romano, dopo aver scritto opere definitive sul Valadier, come su molti altri temi, e salta da una mostra curata alla Frick Collection a una al Getty, però il posto dove sta bene più di tutti è qui, in questa Roma rallentata, fuori tempo massimo, eterna e tropicale. Quale posto migliore, effettivamente, per uno scrittore d’antichità nato a Cuba? In realtà Roma non era prevista, la mamma voleva che studiasse a Yale, “ma sa, io ho sempre odiato gli Stati Uniti, non so bene per quale motivo, ma proprio detestati. Anche mio padre era così. Per farmi apprendere l’inglese ci portò quindi in Canada”. Il padre “veniva da una vecchia famiglia cubana, da giovane era stato comunista, aveva sempre combattuto Batista e poi incomprensibilmente accettò di fargli da ministro della Cultura alla fine, e poi morì poco dopo. Non l’ho mai compreso. Ma io del resto la politica non l’ho mai capita, non mi interessa”, dice González- Palacios sorseggiando un Tio Pepe. “A me piacevano piuttosto le principesse. E’ un po’ ridicolo? Forse. Ma che ci posso fare?” Lui, il piccolo, sognava quindi Roma, la Roma degli anni Cinquanta, che però alla mamma sembra troppo piena di distrazioni e tentazioni. “Per fortuna sulla nave che ci porta in Italia, la Cristoforo Colombo, mamma fa amicizia con questa famiglia fiorentina, i Magrini. Li trovò talmente noiosi e quindi rassicuranti che decise: andrai a Firenze. Così vado a Firenze, ma i Magrini non li ho mai visti, e ne ho fatte di tutti i colori”.
Gonzàles-Palacios discendente di un’influente famiglia locale, si trovava in Europa al momento della presa del poter di Fidel Castro e scelse di non far ritorno nel proprio paese, stabilendosi poi in Italia: a Firenze, a Milano e quindi a Roma, dove vive attualmente. Ha studiato nelle università dell’Avana, di Parigi e di Firenze; in quest’ultima è stato allievo di Roberto Longhi e si è laureato con una tesi sull’arte di corte a Napoli. Si segnala come uno dei massimi storici delle arti decorative, con una predilezione per l’area italiana, francese e spagnola; numerose sono le sue pubblicazioni in questo campo. Intellettuale e uomo di mondo, ha narrato le proprie vicende biografiche in due volumi: Le tre età (Longanesi, 1998) e Un anno di meno. Diario del 2006. Case, musei, incontri, viaggi (Skira, 2007).
Al posto dei Magrini un mondo ancora incapsulato nel suo sortilegio: la grande Firenze anglo- aristo- artistica. Incappa in Longhi, il gran maestro della prosa antiquaria e non, che lo fa desistere dagli studi letterari, e gli apre gli occhi sulla pittura. Longhi dalla sigaretta pendula alla Jean Gabin, Longhi “che mi stupì per la conoscenza dell’arte messicana”, Longhi soprattutto protagonista di una colossale guerra delle ville. In un determinato momento storico infatti insieme a Harold Acton e a Bernard Berenson quei tre numi della storia dell’arte si contendono il primato intellettuale- aristocratico- immobiliare sulla città. “Quella di Acton era una vera gran villa, poi quella di Berenson una villa normale, quella di Longhi piuttosto un casale”. Com’erano i rapporti? “Tutti nemici di tutti. Da Acton, con la vecchia mamma che leggeva diversi saggi, anche cinque o sei alla settimana, in altrettante lingue, passavano i Sitwell, le sorelle Mitford, Evelyn Waugh”. E il padrone di casa, forse non imparentato con i veri Acton inglesi o napoletani, c’era un mistero su questo, però con la mamma di Chicago certamente ricchissima, “più smaltata che truccata”. E si lamentava, “ah, beato te che sei qui, leggero, senza famiglia. Non sai che noia, gestire le quattordici persone di servizio. A me, che ero senza una lira, con la rivoluzione di Castro in corso”.
E poi c’era Berenson, animale guida di González: un lituano che era emigrato ragazzino negli Stati Uniti, che aveva studiato ad Harvard, e che è stato il primo di una razza, “avendo inventato quel prototipo di critico d’arte-guru-connoisseur-esperto-santone-esteta-esegeta-entità morale proprietario di villa, giardino, biblioteca”. Un mondo di intellettuali capaci di stare a tavola in più lingue, che non avevano abbracciato il pauperismo ma avevano scelto il grande stile, coadiuvati talvolta dai commerci, piuttosto fiorenti. “Chi non commerciava era perché non lo sapeva fare. Gli altri semplicemente mentivano”. Dunque ecco Berenson che scrive alla favolosa committente Isabella Stewart Gardner lettere collaudatissime: prima “un commento lirico sul tempo, poi qualche informazione sulla vita delle aristocratiche dame che ammaliavano ambedue i personaggi ( quante principesse!), poi una smaltata descrizione di fiori e tramonti cui fa seguire i rapporti sulla propria fragile salute. Poi arriva al mezza pagina orchestrata alla perfezione sulla storia dell’arte attorno a un dipinto in vendita, un capolavoro che era sempre un’occasione irripetibile ( con istruzioni dettagliate su prezzo, luogo di pagamento e codice per il telegramma di – si sperava – fervida accettazione”). E madonne duecentesche che passano le dogane nei sottofondi di bauli pieni ufficialmente di bambole. Anche Longhi commerciava? “
Ma certo”, dice González sotto un quadro “di scuola settecentesca bolognese”, “vede? E’ perfettamente intatto, e questa è la cosa che più conta alla fine”. “E giocatore d’azzardo, Longhi”. E oltretutto: sadico con gli studenti: “Mandava in giro uno a portare a mano un invito a cena per un altro, cena alla quale l’altro non era stato invitato. Alla fine tutti odiavano tutti”. Longhi però “grazia demoniaca”, uno dei più gran prosatori del Dopoguerra, il più gran maestro di Arbasino, per quanto ci riguarda, più di Gadda. “Ma anche, rispetto al Berenson più internazionale, goffaggine sociale. Invitava casual, e poi si presentava in smoking”. Un altro smoking andava magari regalato a uno studente povero, e però la moglie Anna Banti, la leggendaria Banteuse, celebre per caratteraccio, lo tagliava piuttosto a pezzi. E poi tante cortesie per gli ospiti: a una cena di riconciliazione, dopo molti anni di concorrenza e astio, Berenson chiede a Longhi: cosa si prova a essere sposati a un genio?”. Silenzio a tavola, la Banteuse per una volta protagonista.
Erano tutti vecchi o vecchissimi, “e sì, mi son sempre piaciuti i vecchi, mi rassicuravano. Io collezionavo vecchi. Piacevano a me e io piacevo a loro”, dice di quel mondo lontano. A Firenze oltre ai vecchi leggendari e fuori dalle ville c’è la fame (“fame vera, quella che ti svegli di notte coi crampi nello stomaco”. Da Cuba non arrivava più un centesimo). Poi per fortuna González capisce che l’arte può non essere povera, altri mondi sono possibili. Va a lavorare con Dino Fabbri, fondatore della Fratelli Fabbri editore, inventore geniale dei Maestri del colore, “una collana di libri d’arte economici ma che avevano fotografie migliori dei volumi di lusso. Tutti ne avevano uno in casa. L’idea era che con cento lire tu potessi avere un’opera d’arte in casa”. Fabbri, abbronzato, in forma, sembrava “più rilegato che vestito”, scrive González in una delle sue raccolte, “Persona e maschera”, Archinto editrice. Ed era lui la famosa vittima degli scherzi agnelleschi, quello che chiamava l’Avvocato sul telefono in macchina e si sentiva dire “è sull’altra linea”, che comprava la Rolls e Gianni gli diceva che una Rolls senza sedili Luigi XV era niente, e via a metter su poltrone.
“Moltissimo tempo fa mi capitò di incontrare Ernest Hemingway; vivevo ancora nella mia città, L’Avana, e non avevo vent’anni. Non so più da chi gli fui presentato ma ricordo bene l’uomo e soprattutto il suo volto e l’aura che lo circondava.La sua faccia squadrata era ben protetta da una barba nera e bianca ma lo sguardo era velato dagli occhiali, aveva più forza che autorevolezza. Sembrava un giornalista a caccia di notizie, più seccato che interessato a quel che sentiva; vagamente sensuale, un po’ ambiguo. Si diceva che beveva molto e quella sera (o furono due?) gli piacque molto quel che gli offrivano – rum bianco, zucchero, limone, ghiaccio tritato – e mandò giù con gran disinvoltura una dozzina di Daiquirì. Faceva il he man ma non appariva più virile di Gertrude Stein, sua amica non sempre devota, nella Parigi degli anni trenta. Hemingway sembrava impersonare un ruolo – un regista cinematografico, un inviato speciale in tempo di guerra, un leone ruggente. O forse avevo deciso io di vederlo così come volevano il tempo e le circostanze.”( Il Manifesto-magazine , 2 agosto 2011)
Dopo Firenze arriva Milano, alla Feltrinelli con Giangiacomo sognante e Mario Spagnol specie di editore geniale e diabolico (“trasformò la moglie Elena, inappetente e astemia, in un’autorità come autrice di un sacco di libri enogastronomici”). E però non ama Milano: “Lì è tutto diverso, tutto più borghese”. Insomma niente principesse. “Ma che ci posso fare io se una principessa generalmente è più divertente di una signora Rossi? A me non è che piacciano le principesse in quanto tali. Ma i posti che abitano…
Quale altra città oltre a Roma ti offriva ancora questi mondi intatti? A Londra, a Parigi, anche a Madrid, erano finiti da un bel po’. E poi gli spagnoli sono così cattivi. Lo spagnolo se ti può dire una cattiveria è tutto contento. Gli italiani sono cinici, ma cattivi no”. Dunque ecco Roma, “la città più bella del mondo”. E principesse a mazzi: Elvina Pallavicini detta Ninni, la leggendaria papessa nera, capa dell’aristocrazia romana, che a un certo punto gli commissiona il catalogo di tutti gli immani beni artistici del palazzo di fronte al Quirinale, ma prima vuole assolutamente conoscere meglio chi lo farà, dunque manda un impiegato, tale Fiore, a misurare l’ascensore di casa González, per verificare se la sedia a rotelle su cui è costretta da anni l’anziana principessa entrerà, ‘ per lei verrei ovunque’, e si presenta dunque finalmente con dama di compagnia, a vedere “dove scrive”. E Domietta del Drago, invece mobilissima, divertente e colta e quindi considerata una stramba nel suo ambiente, che poi passerà pari pari in “Fratelli d’italia”, dell’amico Arbasino, appellata “eccellenza, perché fino a non troppi anni fa ai principi romani si dava dell’eccellenza”, nel suo palazzo alle Quattro Fontane dove un tempo era stato bibliotecario un certo Winckelmann (” che poi finirà malissimo, assassinato da una marchetta, però a Trieste”). E giù imitazioni perfette dei vocioni principeschi (“prontooo, qui parla Elvina Pallavicini”, per la prima; “che nnnoiaaaa”, per la seconda. Anche le imitazioni del resto erano prerogativa longhiana e actoniana). Ma Alberto, con cui ci si vedeva da Bianca Riccio a San Salvatore in Lauro di tanto in tanto? Lì, Alvar: “Lo chiamavamo Sisal, perché di qualunque opera parlassimo, lui l’aveva già vista, mettiamo, nel ’ 58, nel ’ 64 e nel ’ 73. Una memoria prodigiosa, aveva, anche. Capace di ricordare tutte le edizioni del ‘ Parsifal’ o del ‘ Rosenkavalier’, con tutti i direttori d’orchestra, soprani, bassi e tenori”.
A Roma, ancora, leggende come Mario Praz (https://www.ninconanco.it/wp-admin/post.php?post=5228&action=edit), un altro che si era messo a studiare cose che tutti all’epoca ritenevano bizzarre o inutili, come l’antiquariato o l’arredamento. Col professore, vanno a vedere “Gruppo di famiglia in un interno”, a lui ispirato. “Volle che fossi io a pagare tutto, il biglietto, la trattoria prima, e il taxi, forse stizzito. ‘ Ma non mi somiglia per niente’, dirà poi; e ci credo, era bruttissimo rispetto al Burt Lancaster della pellicola. ‘ E poi io non ho quadri falsi alle pareti, e in quella casa sono tutti falsi! E non ho nessuna inquilina che canta’. L’aveva presa come una biografia sua, non capiva che era un gioco letterario. E però accanto a lui, a via Giulia, c’era Schifano, con un andirivieni, e insomma, quella modernità arrembante c’era”. Col professore, anche, qualche inconveniente. “Mi mandò a vedere la casa che Natalino Sapegno, uno dei massimi italianisti viventi, si era fatto e di cui era molto orgoglioso. ‘ Ti sono piaciuti i mobili? Glieli ho consigliati quasi tutti io, erano o troppo cari o non abbastanza belli per me’. Il giovane González risponde: ‘ Sì, bello, sembra però un albergo, un albergo dove vorresti andare tu, un Praz- Hilton’”.
La storia del Praz- Hilton dilaga e giunge infine agli italianisti- hotelier, e si chiudono i rapporti. “Però non era uno iettatore. La prima volta che lo vidi e lo abbracciai mi disse che nessuno lo abbracciava da quarant’anni. Quella dello iettatore era una diceria. A me anzi ha sempre portato bene”. Insomma niente poteri paranormali. Chi li aveva, invece, sostiene González- Palacios, era Federico Zeri, e qui nel salone c’è una sua gran foto sorridente e benaugurante. “Aveva la capacità di leggere nel pensiero. Dopo un po’ lo sapevi e in sua presenza cercavi di pensare a cose buffe, ma lui se ne accorgeva e si infuriava moltissimo”.
Col più bizzarro di questa genia di connoisseur, rapporti non facili, silenzi di anni, ma poi “ci si voleva bene”. Zeri accusava Longhi di avergli sbarrato il cammino universitario, “ma non fu un male, dato che l’università in questo paese è abbastanza un luogo oscuro. A lei piace insegnare?”, chiede González sornione. Gli si risponde che si era persino pensato di studiare storia dell’arte, ma si rinunciò, perché daltonici. “Ah, ma non fa niente, tanto la maggior parte degli studiosi è cieca. E poi il gusto: generalmente molti storici dell’arte non ne hanno… Io detesto insegnare, tutti lo vedono come punto d’arrivo, uno status. Ma a me piace andare in giro per musei, far vedere un quadro, spiegarlo, tenerlo in mano, e poi per me l’accademia era un punto di partenza, metà della mia famiglia italiana insegnava all’università, non certo di arrivo”.
Meglio il gran mondo dei collezionisti. Il conte Vittorio Cini che a Venezia teneva decine di foto della moglie, ex star del muto, Lyda Borelli, tutte con la stessa dedica, “tua”, e opere mirabili anche in ascensore, “così me le guardo tutti i giorni”. John Paul Getty, l’uomo più ricco dell’epoca sua, leggendaria avarizia, che nel suo castello del Surrey avverte l’ospite prestigioso: “Se deve telefonare, il maggiordomo le porterà i gettoni per la cabina all’ingresso”. John Pope-Hennessy, il “papa” degli storici dell’arte, il direttore del British Museum, dalla voce talmente acuta, dalle frasi talmente spezzettate, che lo rendeva incomprensibile in ogni lingua. “Le prime volte pensavo fosse il mio inglese insufficiente, poi capii che era così per tutti”. Pope-Hennessy mediamente sadomasochista come tutti gli inglesi un po’ che va a riconoscere il cadavere del fratello morto invece in un festino sessuale troppo spinto, e prepara martini “brutali” nella casa con opere d’arte incomparabili ma senza riscaldamento, dunque gelida, a Notting Hill.
Tutte queste storie González- Palacios le scrive in un italiano luminoso come una terracotta dei Della Robbia e affilato come un Mantegna. “Oh, ma io non ho neanche una mia lingua, ormai neanche lo spagnolo lo è più”, dice, forse civettando o forse sincero, invece ha uno stile cesellato e secco, non rovinato dall’accademia e rispondente ai doveri di precisione che il lettore medio non pretende ma il magnate evidentemente sì. Ecco come descrive la casa di Sandro Orsi, antiquario milanese: “la ricerca del senso di un paese provinciale fra il ritmo compassato del Settecento e quello più sognante del romanticismo si percepiva ancora di più nell’appartamento vicino a San Babila. Non so se esista ancora quell’interno composto di piccoli ambienti per poche persone. Ricordo un’armonia di tinte sabbiose, di legni levigati, tutta misura ridotta come si confà ai soffitti un po’ bassi dei piani alti di una casa milanese che non intendeva diventare palazzo. Pochi ritratti veneziani di signori azzimati e un po’ limitati, il fiore leggermente appassito di una provincia civile lontana da Parigi e da Vienna con un suo carattere originale qua noiosetto là personale. Questa era la scenografia. Il presente erano tre bambini timidi, un paio di cani da caccia annoiati in città, pochi oggetti, cibi odorosi. Lidia materna e riservata poi Sandro polemico e contraddittorio, arguto e poi seccato di sembrare arguto e poi affettuoso”. Ma qui siamo già a un altro gruppo, un’altra famiglia, un altro interno.
Michele Masneri per il Figlio Quotidiano