Quarant’anni fa, nel novembre del 1975, Pier Paolo Pasolini veniva brutalmente ucciso a Ostia Lido, vicino Roma. Rimane oggi uno dei pochi intellettuali della seconda metà del ‘900 la cui opera continua a farci riflettere. O meglio, per usare le parole di Attilio Bertolucci, continua insieme a “inquietarci e consolarci”. Perché? Per semplificare( mi rendo conto): è stato un artista dilaniato dalle sue contraddizioni che ha sapute affrontare con coraggio, fino alla cosciente autodistruzione. Un testimone del suo tempo, ma soprattutto un uomo che, mettendo a nudo la sua anima (soprattutto la parte più brutta, quella che “inquieta” ,appunto), ci costringe ancora oggi a mettere a nudo la nostra, smascherando ipocrisie, infingimenti, debolezze. Nella lettera che pubblico scritta da Oriana Fallaci a Pier Paolo Pasolini, già apparsa sul “L’Europeo” e ripubblicata da “il Giornale”, la giornalista fiorentina si addentra nella dimensione esistenziale di Pasolini, con analisi assai penetranti e che vale la pena di rileggere. Scriveva la Fallaci: “Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.” Lo stesso atteggiamento del poeta greco Kavafis, il cui nome compare nel sottotitolo di due racconti di Pasolini rimasti inediti fino alla sua morte Amado mio e Atti imputi, due elegie della giovinezza di Pasolini in Casarsa, preso già da allora dai lacci della “anomalia” dei suoi amori. Come Kavafis, che cerca di liberarsi dalle censure interiori rifacendosi alle proprie radici pagane e alla sessualità prescristiana, Pasolini in questi due romanzi in forma di diario cerca rifugio nell’eros omosessuale sapendo che è infecondo, lussurioso, e perciò rappresenta per lui pena, peccato, condanna a vita da scontare nei luoghi e nelle pratiche più infami. Da laico devoto, sia per passione che per profondità culturale, Pasolini considerava, come San Paolo, contro natura una tendenza che invece è innata e che tocca, fra uomini e donne, un quarto dell’ umanità, dimenticando che naturalia non sunt turpia.
Alla lettera di Oriana Fallaci faccio seguire un frammento della poesia di Attilio Bertolucci che ho appena ricordata, dedicata a P.P. Pasolini in occasione della sua morte dal titolo: Due frammenti e un envoy.
“Da qualche parte, Pier Paolo, mischiata a fogli e giornali ed appunti, devo avere la lettera che mi scrivesti un mese fa. Quella lettera crudele, spietata, dove mi picchiavi con la stessa violenza con cui ti hanno ammazzato. Me la sono portata dietro per due o tre settimane, le ho fatto fare il giro di mezzo mondo fino a New York, poi l’ ho messa non so dove e mi chiedo se un giorno la ritroverò. Spero di no. Vederla di nuovo mi farebbe male quanto me ne fece quando la lessi e rimasi intirizzita a fissar le parole, sperando di poterle dimenticare. Non le ho dimenticate, invece. Posso quasi ricostruirle a memoria. Più o meno, così: «Ho ricevuto il tuo ultimo libro. Ti odio per averlo scritto. Non sono andato oltre la seconda pagina. Non voglio leggerlo, mai. Non voglio sapere cosa v’ è dentro la pancia di una donna. Mi disgusta la maternità.
Perdonami ma quel disgusto io me lo porto dietro fin da bambino, quando avevo tre anni mi sembra, o forse eran sei, e udii mia madre sussurrare che…». Non ti risposi. Cosa si risponde, scrivendo, a un uomo che piange la sua disperazione di trovarsi uomo, il suo dolore d’ essere nato da un ventre di donna?
Non era una lettera diretta a me, del resto, ma a te stesso, o meglio, alla morte che rincorrevi da sempre per mettere fine alla rabbia d’ essere venuto al mondo grazie a una pancia gonfia, due gambe divaricate, un cordone ombelicale che si snoda nel sangue.
E come consolarti, placarti, di una simile ineluttabilità?
Le parole con cui consolarti erano nel libro che tu rifiutavi con ira, l’ unico modo per placarti sarebbe stato prenderti fra le braccia: amarti come solo una donna sa amare un uomo. Ma tu non hai mai permesso a una donna di prenderti fra le braccia, amarti. Quel nostro ventre da cui sei uscito ti ha sempre riempito di orrore.
Fuorché tua madre che veneravi come una Madonna messa incinta dallo Spirito Santo, dimenticando che anche tu eri stato legato a un cordone ombelicale che si snoda nel sangue, noi donne ti incutevamo fisicamente un disgusto. Se ci accettavi, era per pietà.
Se ci perdonavi, era per volontà. E in ogni caso non dimenticavi mai la leggenda che dà a noi la colpa d’ aver colto la mela, scoperto il peccato. Odiavi troppo il peccato, il sesso che per te era peccato. Amavi troppo la purezza, la castità che per te era salvezza. E meno purezza trovavi più ti vendicavi cercando la sporcizia, la sofferenza, la volgarità: come una punizione.
Come certi frati che si flagellano, la cercavi proprio col sesso che per te era peccato. Il sesso odioso dei ragazzacci dal volto privo di intelligenza (tu che avevi il culto dell’ intelligenza), dal corpo privo di grazia (tu che avevi il culto della grazia), dalla mente priva di bellezza (tu che avevi il culto della bellezza). In loro ti tuffavi, ti umiliavi, ti perdevi: tanto più voluttuosamente tanto più essi erano infami. Di loro ci cantavi con le tue belle poesie, i tuoi bei libri, i tuoi bei film.
Da loro sognavi d’ essere ucciso prima o poi per compiere il tuo suicidio. Sono cattiva a dirti questo? Sono crudele anch’ io? Forse, ma sei stato tu ad insegnarmi che bisogna essere sinceri a costo di sembrare cattivi, onesti a costo di risultare crudeli, e sempre coraggiosi dicendo ciò in cui si crede: anche se è scomodo, scandaloso, pericoloso.
Tu scrivendo insultavi, ferivi fino a spaccare il cuore. Ed io non ti insulto dicendo che non è stato quel diciassettenne ad ucciderti: sei stato tu a suicidarti servendoti di lui. Io non ti ferisco dicendo che ho sempre saputo che invocavi la morte come altri invocano Dio, che agognavi il tuo assassinio come altri agognano il Paradiso. Eri così religioso, tu che ti presentavi come ateo.
Avevi un tale bisogno di assoluto, tu che ci ossessionavi con la parola umanità. Solo finendo con la testa spaccata e il corpo straziato potevi spengere la tua angoscia e appagare la tua sete di libertà. E non è vero che detestavi la violenza.
Col cervello la condannavi, ma con l’anima la invocavi: quale unico mezzo per compiacere e castigare il demonio che bruciava in te. Non è vero che maledicevi il dolore. Ti serviva, invece, come un bisturi per estrarre l’ angelo che era in te.”
Attilio Bertolucci, da: “Due frammenti e un envoy.”
Io non so se le genziane viola sino al blu di Persenofe
fioriscono a Casarza
ma certo- di primo autunno- sui monti ferisce
e ventila il Tagliamento bambino.
Non un brindisi funebre un mazzo di genziane miste a felci
vogliono le sue ossa-
non le sue ceneri-
che continuano a inquietarci a consolarci
mentre attendiamo dubitosi e felici
vino e fiamme per il nostro oblio.