IL POP-DADAISTA DELLA BASSA CHE ASSEMBLA SANTI E GUERRIERI– LUIGI ARMANNI DA’ IL MEGLIO DI SE’ QUANDO DONA AGLI OGGETTI NUOVA VITA SOTTO LA LUCE DEL MITO, DELL’EROISMO E DELLO SBERLEFFO IRRIVERENTE.
In un articolo (vedi qui ) vi ho parlato di Luigi Armanni pittore. Ma altrettanto interessanti sono le sue sculture. Anzi, chi conosce la personalità di Luigi, sa che manipolare, riadattare, accostare materiali, assemblare e reinterpretare oggetti d’uso è la cosa che più gli è congeniale.Luigi non potrebbe stare ore e ore a sbozzare del marmo, cesellare del metallo o incidere una miniatura. Il pennello, i colori vanno trattati con una cura e una pazienza che sembrano ritardare, quasi sviare l’idea di partenza, scansioni che l’impazienza di Armanni mal sopporta. Non a caso, alla tela, da qualche tempo preferisce i muri, dove l’idea di precarietà e consunzione, di contingente dell’opera umana, prima ancora che artistica, è presente re ipsa. A volte il suo segno si appesantisce, quasi volesse scavare nel muro, con una rabbia che ricorda quella di Jean-Michel Basquiat, artista afroamericano morto ad appena 28 anni.
La pratica del riuso per accostamenti creativi è vecchia, dal dadaismo costruttivista all’arte povera, secondo la felice definizione datane da Germano Celant. Ma quella di Armanni non è l’estenuata replica di un epigono.
Il muro stesso, non è solo più la superficie sulla quale operare, ma materiale da plasmare, attorniare di oggetti, segnali, cartelli, che di fatto lo travisano e camuffano. Uno slittamento di senso verso una installazione in cui la pittura è decorazione e la scultura assorbe tutto il significato.
Nelle sculture-assemblaggio di Armanni l’ispirazione, apparentemente diretta ed esplicita, in realtà va interpretata alla luce del suo nomadismo culturale, in cui confluiscono lezioni antiche e influenze contemporanee, reinterpretate per ridare vita e significati diversi agli oggetti, grazie alla forte e originale ispirazione dell’artista.
L’archetipo che balza subito agli occhi è il “primitivismo” che guida la mano di Armanni. Inteso non tanto come recupero di un pensiero primordiale, di una purezza originale, ma del mito come antidoto alla modernità, come reazione alla prosaicità del vivere, dove l’apparenza ha sostituito la realtà. In tal senso la ripresa che egli fa di Corto Maltese, il moderno Moby Dick di Ugo Pratt, è esemplare.
Ne risultano opere che appaiono grezze nel loro insieme, realizzate con oggetti frutto del caso, ma in realtà studiate con l’attenzione dei particolari e con l’abilità dell’esperto artigiano. Il tono squillante di un colore, la leggerezza di un sagoma, la preziosità quasi barocca di un dettaglio, servono per contrasto, a dare all’insieme quel senso di forza, quasi brutale, di perentorietà, che solo le sculture tribali ci trasmettono.
Ma qui finisce ogni parallelo, dal monento che l’arte di Armanni si muove logicamente su un tessuto antropologico assai diverso, ibridandosi di elementi altrove sconosciuti e in cui il grottesco e l’eccesso riescono a convivere con il senso della misura, l’equilibrio compositivo e una esplicita spinta ironica, a volte quasi uno sberleffo, che serve a decodificare prosaicamente il contesto e il significato dell’opera. L’opera sopra riportata, che rappresenta il leone, simbolo di Venezia, ne è l’esempio, a mio parere, più elaborato e raffinato
La scultura che precede è il pifferaio magico della favola di Andersen. La figura si proietta sul reticolato che fa da sfondo e dà prospettiva, con un sapore schiettamente pop, in cui si recuperano, insieme al colore (il clarinetto a strisce è esemplare) toni e dinamica leggerezza, come solo si possono provare nei momenti onirici.
Una seconda fonte di ispirazione mi pare di intravvederla nel recupero dell’iconografia classica. Armanni intende l’artista, come durante il Rinascimento, quale costruttore di forme. I graffiti con santi e madonne, il modello del grande trittico con scene evangeliche, in cui forme quasi bizzantine scansionano icone, dipinte su materiale poverissimo come le tegole di un tetto, sono radici culturali ben visibili e feconde.
La metamorfosi che gli oggetti subiscono nelle mani di Armanni riesce quasi sempre con esiti di felice espressività perchè è ben presente nell’autore l’idea che l’arte è anche inganno e finzione, come ogni opera di libera associazione e interpretazione. Però, al contrario di Magritte e dei metafisici, più interessati all’atto creativo in sè e meno alla fruizione, Amanni con onestà e sincerità evita di imporre una sua soluzione, ma lascia il significato dell’opera alla libera interpretazione di chi guarda. Almeno fino a quando essa esisterà sotto i nostri occhi, per rimanere dopo nell’animo del fruitore e dare “forma” culturale permanente al “rito” che si è consumato. Il retroterra culturale è insomma lo stesso di un Burri o un Fontana, anche se con esiti estetici diversissimi. La nutura e la sensibilità anarchica di Armanni, guardano scopertamente, oltre che ai già citati dadaisti, ad aspetti concettuali che richiamano Tano Festa e, più in generale, agli artisti della Scuola Romana, alla felice stagione di reazione della pop-art italiana allo strapotere americano, fra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Anche i mostruosi cetacei di Armanni, pesci che affondano negli abissi misteriosi, continuano il mito insondabile dell’avventura, ma capovolti in aria, appesi al soffitto.Ondeggiano,con distratta leggezza, e più che farci paura richiamano lo sguardo, come in un gioco di bambini.
Non poteva mancare il giovane, biondo guerriero, bello, forte e certamente gentile, come alludono i fiori deposti ai suoi piedi. Un santo senza corona, ma già assiso nel tabernacolo? Sorregge un trofeo o una coppa. La violenza è sparita, rimangono il gesto cavalleresco, la vocazione e il destino da seguire. La preziosità dei segni e dei colori sul muro sembrano i tasselli di un mosaico bizzantino, o la ripresa di Egon Schiele.
L’inganno e la finzione si fanno un invito al gioco per lo sberleffo supremo: la violenza e la forza rappresentate dal guerriero, sontuosamente abbigliato e ricoperto di orpelli, dall’enigmatico nome di ERO (abbreviazione forse di eroe, chissà), si trasformano nella fattezze mostruose di un dadaista Ubu Re, il patafisico inventato da Jarry nel 1896 per scandalizzare la borghesia parigina.
Non poteva mancare San Giorgio, il viso di dura scorza legnosa, la sua corona di latta e l’armatura travisata in forma di ventaglio. In quanto al drago, eccolo ai piedi del santo, informe, vinto eppure ancora vitale e minaccioso, come sempre lo è il male che è in noi.
Un’ultimo lavoro, di attualità mai remota. La bocca in primo piano sembra conturbante. Un banale invito erotico? No! Sono le scritte, prima ancora degli oggetti ad indicare divieto e blocco, che ci danno il vero significato del lavoro: un urlo di dolore, il respiro che manca e Charlie che muore. Il Bataclan, Parigi, il terrore. La morte.
In copertina: scritta apparsa su un muro di Parigi durante la rivolta studentesca del 1968.