ARTE E FINANZA

2 Lug 2017 | 0 commenti

 

Esplorazioni alla Biennale di Venezia

L’ARTE INTERCETTA
LE CONTRADDIZIONI
DEL CAPITALISMO

L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Anne Imhof e Damien Hirst: due estremi che sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale. Due mondi lontanissimi che sembrano inconciliabili ma che – in fondo – risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.

 

 

L’arte decostruisce la realtà, la seziona senza pretese didascaliche e poi la proietta nel futuro. L’arte non deve spiegare, bensì trasmettere lo spirito del tempo che la pervade. Ma l’arte che rimane nel tempo è sempre spiegabile da un termine posteriore, anche se rimane criptica, inintelligibile, nel presente.

Venezia, 2017. Biennale dell’arte. German Pavilion ai Giardini. Installazione corale curata dall’artista Anne Imhof. Una performance povera, fatta di plexiglas, popolata da animali e da corpi umani.

Venezia, 2017. Biennale dell’arte. Punta della Dogana, palazzo Grassi. La mostra di Damien Hirst, la più sfavillante di sempre, costata 120 milioni di dollari, riscrive i canoni dell’arte grandiosa ed esagerata.

 
 

Questi due estremi sembrano intercettare le contraddizioni del capitalismo globale.

Hirst incarna l’esplosione di liquidità monetaria che si è riversata, in modo molto selettivo, sul pianeta Terra, emblema dell’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica.

La performance di Imhof, al contrario, non è mai riproducibile: corpi umani che amano, lottano, urlano, cantano, ballano, e che si ribellano all’interno di una cornice fissa, di uno spazio chiuso, protetti o controllati – e la differenza è tanto sottile quanto cruciale – da due dobermann feroci.

Imhof descrive il disagio, la lotta del corpo al tempo della biopolitica, trasformato in oggetto su cui sperimentare nuove tecniche estrattive, in cavia ultramoderna, ma anche colto nel suo sottrarsi al regime di sorveglianza, al regime del capitale che controlla subdolamente, in modo invisibile.

Imhof ci mette davanti alle nostre catene interiori, il suo Faust provoca uno straniamento quasi immediato. Non è arte contemplativa, questa: è arte sensoriale. Non si rimane incantati: si rimane senza fiato, come colpiti da un pugno al fegato. Imhof non racconta sogni né incubi: aggredisce, al contrario, il reale con il quale – e nel quale –  proviamo a convivere. Quella realtà che cerchiamo di abbellire e mascherare ogni giorno, ma che l’artista tedesca ci sbatte in faccia senza trucchi né belletti: vivida, così com’è.

 
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Damien Hirst, “Demon with Bowl”

 

Ora, lasciati i Giardini, prendo un vaporetto e raggiungo Punta della dogana.

L’atmosfera cambia. Il sobrio lusso dello spazio di Pinault è asettico. Il contrasto è netto: dall’accoglienza del padiglione tedesco, con le giovani donne che sembrano uscite dal quartiere St. Pauli di Amburgo, al formalismo dei dipendenti. Da un posto all’altro, sull’acqua della Laguna.

Damien Hirst utilizza capitali infiniti per costruire un’opera senza precedenti, fuori da ogni canone. Immagina il ritrovamento di un vascello naufragato nel 1800 nei mari del Sud. Crea una serie di reperti sottratti agli abissi, li riproduce in serie da tre, li ributta nelle acque e ne “documenta” il falso ritrovamento. Li espone in una menzognera forma originale: ricoperti di coralli come se fossero rimasti sommersi per duecento anni.

 
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Damien Hirst, “Hydra and Kali Discovered by Four Divers”

 

Tutti i pezzi esposti sono stati già venduti per cifre esorbitanti a diversi tycoon che li esporranno nelle sedi delle loro corporations o in alberghi di lusso in giro per il mondo, oppure saranno acquistati da fondi d’investimento baciati da una liquidità colossale.

Damien Hirst sfrutta le cataratte di cartamoneta che scorrono impetuose a livello globale, intercetta i famelici flussi di capitale in perenne ricerca di sbocchi, di opportunità alternative d’investimento; orchestra un’operazione straordinaria, in cui si prende gioco del mondo dell’arte, oltrepassando i confini del “postmoderno”.

Nel vascello sommerso, il tempo collassa in una singolarità, il fluire lineare va in cortocircuito in mezzo a reperti d’ogni epoca: si passa da sculture egizie con tagli di capelli post-punk e piercing alle icone Disney come Pippo, Mickey Mouse e Mowgli. Nel vascello c’è spazio per tutto ciò che l’artista ha visto e che ricorda, nelle forme di opere rigorosamente riprodotte in serie da tre e probabilmente vendute prima ancora di essere concepite

 
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Damien Hirst è l’imprenditore di se stesso, entrepreneur of the self, l’uomo-brand con un fatturato superiore a una fabbrica di medie dimensioni. Damien Hirst è il culmine del sogno del terzo millennio, l’individuo idealizzato dal tardo-capitalismo.

Poi chiudo gli occhi e torno a pensare all’iper-realismo del Faust di Anne Imhof, l’arte invendibile, irriproducibile, il corpo dei singoli e i corpi dei molti in lotta con i demoni e gli aguzzini: oltre i confini dell’epidermide, dentro la mente e fin nell’inconscio, dove la biopolitica volge in psicopolitica.

L’arte da vivere che si rovescia contro l’arte in vendita, ma comunque inarrivabile per i più, e quindi solo contemplabile nel puro feticismo della merce. Due mondi lontanissimi, all’inizio e alla fine di questo percorso, che sembrano inconciliabili ma che – in fondo –  risultano complementari: le facce opposte della stessa moneta come Quantitative easing e austerità, una complementare all’altra.

L’ordine della sorveglianza e la risparmiocrazia, la ricchezza fine a se stessa e il rigore imposto oltre ogni misura, il lavoro vivo dequalificato fino a metterne in discussione la sopravvivenza stessa contro il lusso sfrenato della finanziarizzazione.

Le opere di Hirst finiranno in ogni angolo del pianeta a simboleggiare la globalizzazione dei capitali, quelle di Imhof vivono già nel mondo, non sono riproducibili perché già riprodotte miliardi di volte dalle vite di donne e uomini.

Lascio Venezia, questa città oltre ogni definizione, con un senso di stordimento addosso e la convinzione che l’arte – nelle sue molteplici, svariate forme – è il filo conduttore dell’umanità.

 Articolo tratto dal sito www.idiavoli.com un progeto di Guido Maria Brera

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