MA COS’E’ LA DESTRA, COS’E’ LA SINISTRA, CANTAVA GIORGIO GABER- SIAMO ANCORA QUI A DOMANDARCELO, FRA MINI SCISSIONI, LO IUS SOLI CHE VA E VIENE, I VOLTAFACCIA DEL M5S, LE FABBRICHE CHE CHIUDONO E I MEDICI CHE MANCANO, LE CITTA’ SOTT’ACQUA, MENTRE SALE LO SPRED E CHISSA’ COSA CI ASPETTA- COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
Dunque Renzi se ne è andato, lasciando il PD. Ennesima
scissione a sinistra,…l’ultimo che resta spenga la luce!. E ritornano in
mente quelle innumerevoli del secolo passato. Tutte finite più o meno presto,
subito cagionevoli e malconce. Ma questa è diversa, e non solo perché avviene a
freddo. Per decifrarla dobbiamo però collocarla nell’attuale scenario politico
e, se ci sono, capirne le ragioni.
Quelle personali sono presto dette: Renzi non si è mai
rassegnato a farsi da parte dopo la sconfitta referendaria, che non gli ha insegnato
niente. Ambizione e superbia sono gli aspetti predominanti del suo carattere,
un carisma il suo che non attrae voti, capace di suscitare solo nemici o
subalterni. In ampie interviste sui
principali giornali, richiesto dei motivi del distacco, il senatore di Rignano
non ha saputo dire altro che del suo disagio di ospite occasionale e sopportato
del partito. Mentre Italia Viva, priva di un disegno accattivante e innovativo,
fa una fatica boia a distinguersi nella confusa arena partitica, nonostante i
continui strattoni che Renzi dà al carro del governo, già traballante di suo.
Quelle politiche sono invece più interessanti. Gli
ingredienti in gioco sono parecchi. Vediamoli.
Il declino berlusconiano lascia in un mare di incertezza coloro
(sempre più pochi) che ancora si aggrappano al suo Caraceni.
Chi ha capito che la sua leadership è di quelle che si consumano
con il venir meno del fondatore e non ammettono delfini, ha già preso il largo
o ha da tempo tirato i remi in barca. L’Avventura è finita, è durata un
ventennio, possibile grazie ai soldi di Silvio e agli spazi resi liberi,
letteralmente nel cuore di una nottata, dal crollo dei partiti di massa della
prima repubblica sotto i colpi di Tangentopoli.
Renzi successore del Cavaliere per l’elettorato orfano del centrodestra?
Sarà da vedersi, forse per qualche speranzoso ex parlamentare di quella sponda,
in quanto ai voti persi…vedremo. Una cosa è il Palazzo, dove i trasformisti
pullulano, una cosa le urne.
Certo, la mossa di Renzi e l’uscita di scena del Berlusca,
impediranno, a destra, due cose: la ricostituzione del centrodestra moderato e europeista
caro ad Arcore e, trovando argine al centro, causerà l’inevitabile slittamento
della Lega su un’area politica e di progetto sempre più radicale,
antieuropeista e sovranista, una destra dominata da Salvini col contorno di
Fratelli d’Italia. Il progetto di un Salvini che copre l’intero arco
costituzionale, come asso pigliatutto al nord e al sud, è per fortuna sventato
sul nascere, nonostante il crollo di un M5S allo sbando.
E a sinistra? L’attuale segretario Zingaretti, sta sgombrando il campo da quel che resta del progetto ulivista e delle bizzarrie renziane. Non più l’ansia di rottamare, ma un ricambio prudente e moderato di linea e di uomini. Troppo poco. Anche sulla discontinuità nel governo e nel programma del Conte bis, alla fine si è visto com’è andata. Per riconquistare i consensi perduti servirebbe uno come Landini, il cui intervento ha incendiato la convention del PD, tenutasi a Bologna dal 15 al 17 novembre 2019.
Alla sinistra italiana servirebbe un uomo concreto e
determinato, magari col coraggio di uscire dal coro, dagli eufemismi, qualcuno
che avesse fantasia e gusto del rischio, e che usasse un linguaggio schietto e
comprensibile a tutti. Ma non c’è e non si vede all’orizzonte. Il rientro dei
transfughi antirenzisti di Leu quando avverrà (ma dipende della legge
elettorale) rimetterà insieme i cocci di qual che rimane, con la tristezza di
trovarsi pochi, come quattro amici al bar.
Salvini è l’epifenomeno di questa crisi, un pifferaio magico come tanti altri in passato. Forse sarà inevitabile che arrivi al governo, cioè che l’Italia tocchi il fondo della sua crisi, ideale e sociale ad un tempo. Facciamocene una ragione, ma non smettiamo di lottare per affermare le nostre idee, e facciamolo con la forza della speranza, quella che sa che nella crisi stanno le ragioni di una rinascita.
“Come spesso nelle tragedie, il finale sarà improvviso, la
catarsi rovinosa quanto repentina, e non accompagnata da quel pathos che rende
l’exit in qualche modo avvincente, se non gradito.”
G.A. è un attore, parla mal volentieri di politica, per me fa un’eccezione, mentre intorno le luci ovattate della hall dell’albergo ispirano toni confidenziali. Ci conosciamo da parecchio, poi i diversi interessi ci hanno allontanati, ma il contatto è rimasto. Ha il volto segnato dalla fatica di un tour molto impegnativo, su è giù per l’Italia.
“Sospendo proprio la settimana delle elezioni. Pensavo al
palcoscenico come ad un rito liberatorio. Altre volte mi succedeva, ora no,
anzi, la gente è cambiata in peggio. Incapace di cogliere le sfumature, troppo
il frastuono esterno. In Italia di liberatorio non c’è rimasto niente, la gente
è preoccupata, e lo sento la sera in teatro. I due dioscuri sono pronti a
gettare la maschera, ognuno ad accusare l’altro per il fallimento di un
matrimonio impossibile.”
Parla di Salvini e Di Maio, naturalmente, le loro foto
campeggiano sul giornale che ha appena appoggiato a una poltrona.
“G.A, sghignazza, la voce si alza di qualche tono: Servivano due Bravi, che, sulla strada del Quirinale, avessero sbarrato la strada ai due, non tanto per incompatibilità, ma per manifesta incapacità di intendere politico. “
Ma perché hanno preso tutti quei voti? Come spieghi i
sondaggi favorevoli?
“Non lo so, o meglio è stato uno sberleffo, come nella
migliore commedia dell’arte. Al peggio di prima, la gente ha scelto il peggio
di oggi, per spregio, per un’abiura avventata del sistema politico. Ma sul
disprezzo non si costruisce niente, almeno niente di buono. E’ il nuovo è
preparato dal vecchio, sempre, anche nelle rivoluzioni. Ma questa è la
democrazia, bello! Quella liquida, fatta di tuit e selfie, perennemente
connessa al nulla.”
Come vedi queste elezioni europee?
“Non so cosa succederà in Europa. Ma, in ogni caso, l’alba del 27 maggio non sarà radiosa per l’Italia. Ogni strombazzata vittoria sarà effimera e illusoria. Il nuovo che avrebbe dovuto avanzare ha le fattezze della più vecchia partitocrazia, al pari sommersa da scandali, ruberie, risse continue. E i mercati guardano, incredibilmente pazienti, più allarmati che minacciosi. L’italia è ferma, il convento è povero e i frati sono ricchi, dicono le statistiche facendo rosicare i tedeschi, increduli di come noi si rimanga in piedi. L’Europa che sarà, è una nebulosa, o forse un buco nero che tutto inghiottirà. Né in giro si vede un leader degno di questo nome, che non cerchi bagni di folla, ma governi, cioè rimetta l’Italia e l’Europa in corsa, affronti le sfide del globalismo, concorra ad un nuovo ordine mondiale, sottometta a regole Zuckerberg e compagni, e in Italia ispiri un grande piano di rinascita nazionale, finanziato dagli stessi italiani, perché è questo che serve, in questa preannunciata tragedia travestita da farsa che appare l’Italia che lasceremo ai nostri figli.”
Non sei troppo pessimista?
“Mah, sarà anche l’età. Pessimismo? Non so, ma mi vengono spesso in mente le parole che Marguerite Yourcenar fa dire ad Adriano: “persino i gaudenti, da noi, si tediano della felicità. L’incivilimento dei costumi, il progresso delle idee è opera di un’esigua minoranza di spiriti illuminati. La massa resta ignara, feroce quando può, sempre egoista e gretta, e si può scommettere fondatamente che tale resterà sempre.”
STESSA GUERRA, STESSO FINE?- QUALI SONO LE MOTIVAZIONI CHE SPINGONO DEI GIOVANI ANTAGONISTI IN ITALIA AD ARRUOLARSI IN UNA GUERRA LONTANA?- DAL CENTRO SOCIALE ALLA SIRIA PER FARE POLITICA CON ALTRI MEZZI?COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
E’ passata in silenzio domenica 24 marzo la puntata di In mezz’ora, condotta da Lucia Annunziata.
In sala erano presenti Alessandro Orsetti, padre di Lorenzo, il foreign fighter, morto di recente in Siria.
Lorenzo Orsetti, a destra, con un compagno d’armi
La Annunziata è sembrata impacciata, ha imbastito a fatica un discorso di presentazione, e poi ha data la parola all’Orsetti che, con accenti commossi e ciglio un poco umido, ha restituito alla trasmissione il suo giusto afflato.
Insieme a lui, quattro italiani da poco rientrati in Italia, dopo essere stati per qualche tempo arruolati nelle file curde nella guerra contro l’Isis. Facce serie, quasi cupe, sguardo duro, volto chino sulla tavola. Eddi Marcucci, una giovane sulla trentina, lunghi capelli scuri su un viso affilato, inespressivo, ha un tono di voce secco, quasi atono: in sintesi il suo gesto aveva un obiettivo: dimostrare che alla violenza e alla sopraffazione una possibilità diversa c’è, oltre a quella di stare inerti a guardare. Fabrizio Maniero che le sta accanto, quando è il suo turno sembra ridestarsi da mesti pensieri: racconta che è stato arruolato in una unità di difesa del popolo, che ha partecipato a cinque azioni di guerra, è molto contrariato per l’accoglienza avuta al suo ritorno da parte della polizia e della giustizia italiana. Davide Grasso è di Cuneo, laureato, aspetto serio, asciutto nell’eloquio. E’ incredulo di come possa essere stato considerato socialmente pericoloso dalla autorità italiane solo per essere stato a combattere dalla parte giusta, senza infrangere nessuna legge.
Jacopo Bindi di professione fa il fisico, non ha combattuto sul campo, in prima linea, anzi non ha abbracciato proprio le armi. Pare di comprendere dalle poche parole che dice che la sua sia stata una funzione di supporto, logistica e organizzativa. La molla che lo ha spinto ad arruolarsi è stata la strage del novembre del 2015 al Bataclan di Parigi.
Verso la conclusione, è la stessa Annunciata a fornire alle rimostranze dei ragazzi una matrice comune: tutti e quattro sono provenienti dai centri sociali. Le loro scelte hanno trovato nell’ estrema sinistra antagonista il terreno sul quale crescere. La Annunziata non ha però chiesto loro da quali centri sociali provenivano. Perché non tutti i centri sono come quelli che Luce Rocca definiva in un articolo apparso sul Tempo di Roma:
Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui “nemici”, impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i “centri sociali” più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze.
Fino a che punto la qualifica di soggetti socialmente pericolosi, secondo le attuali norme di pubblica sicurezza, può convivere con quella di combattente? Può un combattente, spinto da nobili propositi, essere considerato in patria soggetto socialmente pericoloso? Sono perché sa usare le armi?, si chiede uno dei quattro.Trovarsi a combattere dalla parte, considerata giusta dai paesi occidentali e, quindi, dall’Italia vuole dire qualcosa?
Nello studio l’imbarazzo è stato ad un certo punto palpabile, ma la Annunziata non ha avuto il coraggio di affondare l’analisi, ponendosi e ponendo l’unico interrogativo possibile: la guerra in Siria (quella giusta) è stata per loro la prosecuzione in grande di quella (sbagliata) dei centri sociali antagonisti e violenti in Italia? Oppure no, in Italia come in Siria, fatte le debite e profonde differenze, il fine è per loro lo stesso, riportare giustizia e umanità dove non c’è?
IL BORGHESE SOPRAVVISSUTO SCENDE IN PIAZZA A TORINO– PRIMO, COMPOSTO E TIMIDO TENTATIVO DI REAZIONE AL POPULISMO E AL SOVRANISMO NELLA CITTA’ CHE FU DELLA FIAT,OGGI ALLA RICERCA DI UN SUO DESTINO- CONTRO LA DECRESCITA FELICE E L’IDEOLOGISMO DEI NO TAV SI GIOCA UNA PARTITA DECISIVA PER IL FUTURO ITALIANO E EUROPEO.COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
Di passaggio da Torino ho voluto esserci in piazza Castello, sabato 10 novembre, giornata uggiosa come non mai, città pigramente in movimento.
Le sette madamìn che hanno voluto la manifestazione del Sì alla TAV Torino-Lione, sono su un palco improvvisato, l’acustica è pessima, ma la gente accorre, composta, confondendosi con i turisti che escono dal museo Egizio o che hanno fatto compere alle bancarelle di via Roma, da dove arriva il profumo di cioccolata e dolciumi del Cioccolatò 2018, la kermesse dedicata a una delle eccellenze della città.
Non potendo vedere il palco invisibile, né comprendere le prevedibili esortazioni, gli appelli e gli slogan, gironzolo fra la folla sempre più fitta. Alla fine, gli organizzatori parlano di 30 mila presenze.
Ma non è il numero che mi interessa, ma la gente che è accorsa, i discorsi che fanno, i cartelli (pochi) che inalberano. Il taglio è sobrio, riflessivo, non solo sul palco ma anche nella piazza. Sembra quasi un raduno di reduci, che non si riconoscono più, dato il tempo passato, ma che sono comunque felici di ritrovarsi.
A rompere l’impaccio dell’estraneità, tutti gli sguardi convergono verso la rassicurante gigantografia di Cavour, mentre piovono applausi quando si ricordano Marchionne e Pininfarina, due di famiglia nella comune genealogia piemontese.
A proposito di ricordi, in quella stessa piazza, 5 o 6 anni addietro, assistetti a un comizio di Beppe Grillo, agli esordi del suo Movimento. Allora c’era ancora la FIAT e Torino una città industriale senza più industrie. Intorno a me giovani, tanti e incazzati, nervosi e carichi, pronti ad applausi liberatori ad ogni battuta, a sottolineare con epiteti e bestemmie ogni sentenza del guru sul palco, che si agitava, attorniato da timide e labili comparse locali. La piazza era fatta di facce dure, gente della periferia e della cintura, disoccupati, cassaintegrati, parecchi di colore, femministe, No Tav, antagonisti dei centri sociali, giovani o giovanissimi in larga prevalenza.
Questa piazza oggi è molto diversa.
L’indomani in treno leggo il resoconto sulla Stampa, che con editoriali infuocati ha molto gonfiato l’evento, e ricordato la storica marcia dei 40 mila, capeggiati da Romiti, che chiuse la stagione degli scioperi alla Fiat. “La verità è che c’ erano tutte le associazioni di categoria, commercianti artigiani, industriali, un mezzo miracolo per chi conosce la litigiosità dei corpi intermedi torinesi. C’ erano operai, studenti, maestre e avvocati d’affari, una piazza difficile da colorare o definire, figlia di una manifestazione davvero spontanea. Fino alla sera del 29 ottobre (voto in consiglio comunale No-Tav, ndr), appena dodici giorni fa invece non c’era niente che facesse presagire questa mescolanza così inedita.”
Se anche c’erano le parti sociali che l’articolista elenca, certo esse hanno tenuto un profilo molto basso. Forse non ci credevano, poi meglio non correre il rischio di politicizzare.
Attorno a me, invece, ho visto la classe media di Torino, benestante, colta, età media sui 50 anni, spesso in coppia, parecchie donne con al bavero il simbolo arancione del Sì TAV Torino. I pochi giovani stavano in vetrina, dietro il palco, simili a trofei da esporre.
Che la classe dirigente e benestante italiana si affacci in piazza e canti l’inno di Mameli, va bene.
Che, al termine, non ci fosse nemmeno una carta per terra, come scrive compiaciuto il direttore Maurizio Molinari, ancora meglio. Si può manifestare con stile e misura, non solo sbraitando.
Ma in democrazia uno vale uno. Purtroppo, potrebbe dire qualcuno, magari pensando che i badòla (stupidi, n.d.r.) non dovrebbero avere diritto al voto.
Ma fino a quando ci saranno in Italia 5 milioni e mezzo di poveri e oltre il 10% di disoccupati, i numeri ci dicono un’altra cosa. Ci dicono che è più convincente il pifferaio magico, che distribuisce ricchezza che non ha e non produce, ma almeno fa sognare. Cosa che la classe “media riflessiva” non è capace di fare, per sè stessa e per chi dovrebbe amministrare, perché ha smarrito il senso del proprio ruolo e scappa dalle sue responsabilità.
IL CINEMA QUARTO POTERE? – GIANNI CANOVA SCRIVE UN SAGGIO SUL POTERE VISTO DA DIETRO LA CINEPRESA– DA ROSSELLINI A FELLINI E PASOLINI, DA SCOLA A MORETTI, FINO A SORRENTINO- PERCHE’ BEPPE GRILLO, CHE SUL SET NON CI SAPEVA FARE, SI SCOPRE PROFETA DELLA DEMOCRAZIA DIRETTA. COSI’ LA PENSA GEPPETTO.
Vedendo al cinema Darkest Hour (L’ora più buia) riflettevo sul fatto che gli autori stranieri hanno del potere un’idea diversa dalla nostra. Da una parte Churchill che impersona la politica come servizio e missione, dall’altro la maschera che Toni Servillo fa di Andreotti (prossimamente di Berlusconi, c’è da scommetterci): il ritratto archetipo dell’italianità triviale, melliflua, viscida addirittura.
Sul tema del potere, Gianni Canova ha di recente pubblicato il saggio Divi, duci, guitti, papi, caimani -L’immaginario del potere nel cinema italiano da Rossellini a The Young Pope. La tesi di fondo è che nel cinema italiano il potere non può essere buono, ma sempre misterioso, occulto, ingannevole, complottista. Sostiene Canova che si tratta oramai di una ideologia di fondo, una religione laica, una visione del mondo.
Gianni Canova
Scrive Andrea Minuz, commentando sul Foglio il saggio di Canova: “Bisogna partire dai registri narrativi principali con cui il cinema italiana ha messo in scena il potere: il grottesco da un lato, e la denuncia, l’indignazione dall’altro. In entrambi i casi, prende forma un’idea negativa del potere: il potere come colpa, o vergogna, o delitto, un’idea divorata da uno schematismo ideologico che appare indifferente alle trasformazioni sociali, culturali, politiche. Settant’anni di vita repubblicana non hanno minimamente scalfito un immaginario del potere ancora legato all’idea di malvagità, di cospirazione, con tutto il lessico dell’intrigo e della sopraffazione che ne deriva- “il Palazzo”, “le segrete stanze”, i “poteri occulti”, i “poteri forti”, la “casta”..
Scrive Canova; “ L’idea che il potere possa avere a che fare con la democrazia, cioè possa consistere prima di tutto nel governo delle istituzioni in vista del raggiungimento del bene comune, non ha avuto mai una grande presa su registi, sceneggiatori e produttori, che hanno preferito raccontare il potere come arbitrio, controllo, dominio, un potere che nasconde quasi sempre qualcosa, spietato feroce, malvagio, oppure viscido, mellifluo, felpato” appunto.
Il vate e profeta di questa lettura ripugnante del potere, per quanto attiene casa nostra, è stato Pier Paolo Pasolini di cui Canova cita gli scritti: “ nulla è più anarchico del potere”, “il potere fa quello che vuole e sfugge alle logiche razionali”, il potere “è completamente arbitrario e manipola i corpi in modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o Hitler”.
Scena da The Young Pope
Scrive ancora Minuz: “Il cinema italiano ha dato forma a questa cosmologia apocalittica del potere in tutte le possibili variazioni: l’impunibilità del potere (“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”), la corruzione del potere ( “Il portaborse”, “Il caimano”), il trasformismo del potere (“Il gattopardo”, “I Vicerè”), l’oscenità del potere (“Salò o le 120 giornate di Sodoma”), la malvagità del potere (“Buongiorno notte”, l’arbitrarietà del potere ( “In nome del popolo italiano”).
Scrive Canova, commentando The Young Pope di Sorrentino che il punto di forza della serie: “ sta nell’avere intuito che per raccontare le strategie del potere, in Italia, bisogna rinunciare alle ambizioni dell’affabulazione per calarsi piuttosto nella dimensione del cerimoniale e della liturgia”. Il potere si mostra come affresco e rifugge lo storytelling; nel palcoscenico del paese funziona di più l’immaginario, il cerimoniale, la teatralità diffusa, la caricatura dello spettacolo, il “bagaglino”.
Toni Servillo sul set del film su Berlusconi di prossima uscita
Non ci interessa il potere ma la “scenografia del potere”, il film diventa una macchina processuale, sostituendosi alla giustizia incapace di arrivare alla Verità. “Grillo fa teatro, Santoro fa teatro, Travaglio fa teatro, Floris si aggira per lo studio a forma di teatro elisabettiano”.
Il cinema americano o inglese (si pensi a King’s speech, Il discorso del re) mette in scena il potere come fatto politico e etico, narrativo. Quello italiano proietta una immagine del potere come una entità astratta, invisibile e inafferrabile, poco esprimibile attraverso l’affabulazione. Per riuscire a raccontarlo bisogna corrispondere alla sua natura invisibile e misteriosa. Così come fece Fellini in Prova d’orchestra, potente apologo che in pieno ’68 mostra la deriva del disordine anarcoide e gli esiti del capovolgimento definitivo del mondo. La cultura del narcisismo, l’insofferenza delle regole e di ogni principio di competenza, a favore di una “democrazia diretta” stanno tutte in questo film, vero e proprio avvio della deriva che oggi chiamiamo populismo.
Beppe Grillo
.Non poteva, perciò, mancare nel saggio un capitolo dedicato alla deriva populista del nostro sistema dei media. Il personaggio analizzato è Beppe Grillo. Dalla coralità del gruppo si passa al monologo, adattissima forma per la “dittatura della semplificazione, l’invettiva, l’urlo anti casta, la lotta della piazza contro il Palazzo perché la verità apparterrebbe alla piazza, le menzogne solo al Palazzo.
Grillo, afferma Canova a conclusione del suo escursus, “ ha portato a forma di spettacolo assoluta e totalizzante il monologo.. Lui parla da solo, gestisce il flusso della comunicazione in modo verticale, diffondendo il Verbo dall’alto del suo assolutismo enunciatario…. L’idea che tutto ciò abbia a che fare con la “democrazia diretta”, qualsiasi cosa voglia dire, è la beffa più grande che poteva rifilarci”.
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