All’asta di Sotheby’s il collezionista cinese Justin Sun si aggiudica la BANANA per 6,2 milioni di dollari
Se mentre state leggendo questo articolo state mangiando una banana sappiate che ogni morso potrebbe valere decine di migliaia di euro. Infatti ieri sera a New York è andata in vendita alla casa d’aste Sotheby’s, lotto numero 10, “Comedian”, la ormai famosa e marcita banana attaccata al muro con il nastro grigio da pacchi che Maurizio Cattelan creò nel 2019 e presentò alla fiera di Miami, inizialmente venduta al prezzo di 120.000 dollari. Mentre scrivo non so a quanto è stata battuta, voi però sì e potrete confermare o contraddire quello che scrivo. Visto il battage pubblicitario sicuramente qualcuno, a mio parere un vero cretino, l’avrà comprata a una cifra surreale. Magari Elon Musk, nel suo priapismo politico, imprenditoriale e autopromozionale, potrebbe aver deciso di comprarsela, intaccando il suo patrimonio in mondo insignificante. Lo stesso potrebbero aver voluto fare Jeff Bezos, Bill Gates o Bernard Arnault.
La cosa è sicuramente una notizia ma al tempo stesso la prova scientifica che l’idiozia non ha veramente prezzo. Anche se, da sostenitore incallito di Cattelan, sono assolutamente convinto che la sua banana sia un gesto radicale all’altezza del quadrato nero di Malevic, dell’orinatoio di Duchamp, della merda d’artista di Manzoni, del taglio di Fontana e della scatola da scarpe vuota di Orozco. Tutti gesti che non hanno bisogno di nessuna conferma economica. I 120.000 dollari pagati inizialmente erano già stati sufficienti per dargli diritto al suo capitolo nella storia dell’arte. Inoltre è stata pure beatificata dal fatto di essere entrata nella collezione permanente del museo Guggenheim. Più di così si muore. Anche un solo dollaro in più non aggiungerà nulla, non aumenterà la sua importanza, anzi magari indebolirà il significato polemico e rivoluzionario che Cattelan voleva dargli, una reazione all’inflazione di quadri e quadretti a prezzi stratosferici che hanno ridotto il sistema dell’arte a un bazar da fiera di paese.
L’onanismo congenito e autoreferenziale del mondo dell’arte avrà avuto orgasmi multipli alla vista di un paio d’idioti che si sono sbranati per portarsi a casa la banana a qualsiasi cifra. Chi se l’è aggiudicata, da un punto di vista storico e culturale, potrà infilarsela in uno dei tanti orifizi di cui il corpo umano dispone. Il prezzo, quale che sia, equivale ai cento euro della pizza di Briatore. Lo spettacolo dell’asta con applausi e risate è più o meno quello del campionato mondiale di mangiatori di hot dog, e il prezzo record del frutto potrebbe addirittura leggermente mettere in crisi la già ottima reputazione e importanza che l’autore ha nella storia e nel mondo dell’arte, avendo fatto diventare volgare e banale un’idea che invece non lo era. Non è vero che pecunia non olet, la pecunia in certi casi olet e parecchio. Dopodiché togliere l’odore è complicato.
I grandi momenti della cultura e della società non hanno né odore né valore, non si possono comprare, non si possono stimare. Non ha prezzo la migliore performance di Maria Callas, il più bel gol di Maradona, il discorso di Martin Luther King, l’idea, solo l’idea appunto, di Duchamp di entrare in un negozio d’idraulica e comprare l’orinatoio, l’urlo di Tardelli al mondiale di calcio. Così non ha prezzo il momento in cui Maurizio Cattelan ha pensato, dopo aver visto l’ennesima crosta in una galleria a Manhattan con un prezzo assurdo, “ma vaffa… io ora ti appiccico una banana sul muro e la vendo pure”. Si può comprare tutto ma non la vera essenza delle esperienze e delle idee. Per questo un iphone costa al massimo mille euro, che è già parecchio, o “Guerra e Pace” di Tolstoj quindici euro, che è nulla per quello che c’è dentro. Che il mercato dell’arte sia un gioco costoso e sregolato è cosa nota e stranota. Adesso sta diventando una parodia di se stesso. Gente fortunata, compreso il sottoscritto, da questo gioco trae grandi benefici. L’importante è essere coscienti che è un gioco, come lo è il calcio anche se il calcio fa divertire tre quarti dell’umanità a prezzi abbastanza abbordabili. Quando venne giù il muro di Berlino un fruttivendolo dell’ovest divenne milionario vendendo banane ai tedeschi dell’est, con i soldi fatti iniziò a comprare arte. Oggi dovrebbe vendere arte per potersi permettere una banana. Il cerchio si è chiuso.
E Cattelan? Lui avendo sicuramente un’altra banana in un cassetto, sarà ancora più famoso e teoricamente più ricco. Chi non è riuscito a comprarsela all’asta magari proverà a comprarla da lui e lui, se è furbo, non la venderà. Cosciente, da vero artista, che il desiderio altrui ha più valore del proprio bisogno, e la ricchezza che non ha limiti non può limitare la ricchezza del proprio spirito, che per altro è già benestante. Lo sapeva il grande pittore americano Jasper Johns che, già famoso negli anni 60, a un collezionista che voleva comprare uno dei suoi dipinti con la bandiera americana per una cifra assurda, rispose: “Io il quadro non lo vendo e tu a offrirmi quella cifra sei chiaramente molto ricco ma anche un totale imbecille”. Il denaro, è vero, non rende sempre felici ma spesso, banana docet, fa diventare stupidi.
Articolo di Francesco Bonami per Il Foglio Quotidiano
La spiritualità della quale la religione è stata custode per secoli sembra essersi eclissata. Colpa della secolarizzazione, si potrebbe dire. Ma la secolarizzazione non ha distrutto la spiritualità, l’ha soltanto pluralizzata. Se ieri la spiritualità si riferiva a una religione, a una “regola” o a un insieme di regole grazie alle quali avvicinarsi a Dio, una serie di pratiche che comportavano impegno e privazioni, una sorta di addestramento, a volte persino doloroso, che veniva accettato in vista di un bene futuro più grande, la salvezza, oggi è venuto meno precisamente questo orizzonte comune e ognuno cerca di soddisfare a modo suo le proprie esigenze spirituali. Se ieri la spiritualità si esercitava in un orizzonte di fede in Dio, diciamo di credenza, oggi essa si esercita in un orizzonte contrassegnato soprattutto dalla non credenza. Siamo passati da una società in cui tutti, almeno sulla carta, credevano in Dio, a una società nella quale la fede anche per il credente è soltanto una possibilità umana tra tante. Di qui il crescente sganciamento della spiritualità dalla religione e il proliferare di forme di spiritualità in aperto contrasto con la religione.
Oggi le nostre esigenze spirituali non si ispirano più a una regola “esterna” che ci indica la strada da seguire. Il processo moderno di secolarizzazione e di individualizzazione ha svelato, uso le parole di Herder, che ogni uomo ha un suo modo originale di essere se stesso. Il cosiddetto principio d’uguaglianza diventa sempre di più il diritto di ciascuno alla propria differenza. Siamo entrati nell’epoca dell’autenticità, l’epoca cioè che riconosce a ciascuno il diritto di realizzare a modo suo la propria umanità. Quanto al rapporto con Dio, anche questo sembra essersi sempre più sganciato dalle istituzioni religiose tradizionali. Siamo giunti al Dio personale, come recita il titolo di un celebre libro di Ulrich Beck.
Ma la storia che sto raccontando forse non è così lineare come sembra. Non è detto insomma che il weberiano “disincantamento” del mondo prodotto dalla secolarizzazione coincida con la crisi o addirittura con la fine della religione e delle forme di spiritualità tradizionali. C’è infatti anche un altro lato del discorso, un lato che apre alla religione una strada nuova e imprevista proprio sul fronte di quello che Weber aveva individuato come l’esito ultimo del processo di secolarizzazione: “il sentimento di un’inaudita solitudine interiore del singolo individuo”. Più la secolarizzazione si radicalizza e più si fa forte il desiderio degli individui di uscire dalla loro solitudine. Non a caso, dopo aver abbandonato le “regole” delle religioni tradizionali, registriamo un ritorno a Dio e alla fede a partire dalla ricerca personale. Il sentimento della nostra “inaudita solitudine” sembra diventare insomma la disposizione spirituale privilegiata per riavvicinarci in qualche modo al mistero di Dio. La mia anima è inquieta finché non riposa in te, diceva Agostino. La stessa inquietudine che contraddistingue anche l’orizzonte della non credenza. E’ proprio il caso di dire con Charles Taylor che “è venuta alla luce una razza di uomini capaci di vivere il proprio mondo come una realtà completamente immanente”. Al tempo stesso, però, è sempre Taylor a dirlo, assistiamo alla ricomposizione “della vita spirituale in nuove forme, e di nuovi modelli d’esistenza sia all’interno sia all’esterno della relazione con Dio”.
E questo forse spiega l’esplosione in mille forme del fenomeno della spiritualità nelle società secolari, che rende il concetto stesso di spiritualità piuttosto ambivalente e polimorfo. Se digitiamo su Google la parola “spiritualità”, vengono fuori più di un milione e trecentomila voci. Non soltanto le diverse forme di spiritualità si rendono dunque autonome rispetto alle religioni tradizionali, che le praticavano come ascesi e distacco dal mondo, ma acquistano un carattere sempre più mondano; più che con Dio, esse vengono coltivate in vista di un’armonia con se stessi e con la natura che ci circonda, senza disdegnare pratiche esoteriche, terapeutiche o spiritiche.
Non c’è bisogno che sottolinei la portata della sfida che tutto questo potrebbe rappresentare, poniamo, per la chiesa cattolica. Premesso che considero un bene il fatto che ognuno cerchi ormai di realizzare a modo suo la propria umanità, secondo le inclinazioni che sente più congeniali; premesso altresì che l’autentica ricerca di un luogo di pienezza personale rappresenta forse l’unica forma di spiritualità veramente compatibile col nostro tempo; premesso tutto questo, ne consegue che anche le religioni tradizionali debbono sapersi adattare a questa nuova istanza; persino il sacrificio e l’ascesi vanno declinati come risposta possibile al nostro bisogno di “pienezza” e di autorealizzazione. Tuttavia, e concludo, questo bisogno di autenticità va temperato con una consapevolezza altrettanto importante circa l’orizzonte non individualistico delle nostre vite. La fede potrebbe giocare in proposito un ruolo decisivo proprio in vista dell’elaborazione di codici simbolici soggettivamente più seduttivi, meno preconfezionati e nel contempo più capaci di valorizzare la dimensione relazionale di ciascuno di noi. Come dice Taylor, “il lato oscuro dell’individualismo è il suo incentrarsi sull’io”, l’allontanamento dagli altri e dalla società. Di qui il rischio di una spiritualità narcisistica sempre più vacua e diffusa e l’urgenza di non perdere di vista lo sfondo comunitario, che solo può salvare l’autenticità della ricerca personale dalla sua irrilevanza. Un orizzonte di significato da costruire dialogicamente insieme agli altri. Una grossa chance, questa, per le religioni tradizionali.
Articolo di Alfonso Berardinelli per il Foglio Quotidiano
Lo sconforto per il cammino sempre più arduo che vediamo aprirsi davanti a noi, fra ingiustizie, fame e emarginazione, guerre, sembra certi giorni sopraffarci. Anche la Parola di Cristo ci sembra lontana, debole e incomprensibile. Non sentiamo la presenza di Dio padre, di Gesù e dello Spirito Santo, essi ci appaiono obiettivi impossibili da raggiungere.
Fino a quando, ricacciando le nostre egotiche fragilità, arriva la luce della verità: non sono obiettivi da raggiungere, ma doni da accogliere. Dio ci abita e il corpo e l’anima si unificano- La nostra vita deve essere fatta insieme a Lui e per Lui.
Viviamo immersi nella Presenza di Dio Padre, con Gesù, nello Spirito Santo. Non è un obiettivo da raggiungere, è un dono da accogliere. Il dono di vivere tutto quello che facciamo insieme con Lui, in Lui e per Lui. Se diventiamo consapevoli di essere abitati da Dio, a poco a poco il nostro io si ritira, lascia spazio a Lui e ritroviamo l’unità di noi stessi: persone unificate nel corpo, nella mente, nello spirito.
Il dono della Presenza custodito, continuamente ravvivato ci fa crescere nella consapevolezza quasi fisica che Lui ci fa compagnia nei gesti quotidiani, guida i nostri pensieri e i nostri sentimenti, ci incoraggia ad avere pazienza e misericordia con noi stessi e con gli altri. Con Dio non abbiamo altro desiderio se non quello di amare, di fare del bene, di non ricambiare mai
Dal figlio del fondatore della Lega uno può legittimamente aspettarsi di tutto, anche che scriva «Dagli Appennini alle Langhe» o che proponga un referendum abrogativo della pizza napoletana. Di tutto, ma non che abbia percepito per quarantatré mesi il famigerato reddito di cittadinanza. Peggio, che sia stato rinviato a giudizio con l’accusa di averlo intascato indebitamente. Confidiamo che Riccardo Bossi riesca a dimostrare la sua innocenza. E ce lo auguriamo ancor più per suo padre che per lui. Nella favolistica padana, di cui l’umberto è stato un cantastorie inesauribile, il reddito di cittadinanza si colloca tra la bacchetta magica di lord Voldemort e la mela avvelenata della strega di Biancaneve. Il simbolo ultimo dello Stato assistenziale, di Roma ladrona, del Sud parassita del Nord. Non c’è pregiudizio o luogo comune che non sia stato tirato in ballo per ironizzare su un sussidio di sopravvivenza che, magari con altri nomi, è presente in tutte le principali democrazie occidentali. Lo so: certe norme, che risultano efficaci per gli svedesi o gli austriaci, funzionano un po’ meno bene nell’interpretazione creativa degli italiani. Almeno di quelli che, quando il reddito era in vigore, lo usavano per arrotondare un lavoro in nero. Ma se — Dio Po non voglia — il processo a Riccardo Bossi dovesse concludersi con una condanna, risulterebbe evidente che tra i due popoli confinanti, padani e italiani, esistono notevoli affinità.
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