Avere 30 o 40 anni

28 Gen 2016 | 0 commenti

 

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Bambini in fuga da un villaggio vietnamita sotto le bombe americane

La generazione fra i 30 e 40 anni, quelli nati alla fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80. Nel 1975 Bill Gates fondava Microsoft e preconizzava “ un  computer su ogni scrivania, e uno in ogni casa”; finisce la guerra in Vietnam e muore ammazzato Pasolini.

Lennon Ono

John Lennon e Yoko Ono

Nel 1980 è virulenta quella passata alla storia come strategia della tensione, culminata nella strage alla stazione di Bologna. Bombe che scuotono  le coscienze, seguite a ruota dal terremoto in Irpinia, che scuote invece mezza Italia del sud. Proprio allo scadere dell’85 viene assassinato John Lennon, musicista libertario, simbolo del pacifismo che cantava “un fiore in ogni cannone”.

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Bill Gates con Paul Allen

Dov’è e cosa fa quella generazione? Si fa sentire, si muove, agita idee e propositi, in bilico com’è fra il venir meno delle restanti illusioni e la rabbia per una realtà senza più baricentro, i propositi di recuperare una propria soggettività comunitaria, per togliere tempo al tempo, per tornare protagonista e cambiare le cose.

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Quadro sulla morte di Pasolini

I testi che pubblico sono stati scritti da due blogger: il più giovane dei due è  Andrea Bizzocchi, il suo sito è A muso duro, ma potete leggerlo anche su Italiachecambia.org (blog.italiachecambia.org/a-muso-duro/) ; il secondo è Gianni Davico (giannidavico.it/brainfood) un piemontese che di mestiere fa il traduttore.  

Non commento le loro affermazioni, ma condivido lo stato d’animo che li ha spinti a scrivere. I testi non sono uno sfogo, ma una spia interessante di un modo di pensare, certamente condiviso dai 30/40 enni di oggi, diverso dalla mia generazione e proprio per questo interessante. strage bolognaIn particolare, appare curioso il ribaltamento concettuale (che è poi esistenziale) che Andrea Bizzocchi fa del termine “indipendente”, traguardo agognato dai più giovani e spesso tramutatosi per molti in frustrante attesa. Leggete.      

 

Bizzocchi Andrea

Andrea Bizzocchi

 

 

 

 

 

Il senso dell’ “assieme” di Andrea Bizzocchi, 21 gennaio 2016.

L’essere umano è un animale naturaliter sociale ed è fatto per condividere e cooperare. Ne consegue che l’idea tutta moderna dell’indipendenza e della libertà non è altro che uno strumento per allontanarci l’un l’altro oltre che da noi stessi. In questo senso la presa di consapevolezza e l’assunzione di responsabilità sono i due passaggi fondamentali per vivere bene il nostro presente e per creare un futuro degno di essere vissuto (indipendentemente da ciò che il Sistema ci propina).

Qualche mattina fa mi è capitato di lasciare l’auto all’ex Foro Boario di Fano, oggi comunemente conosciuto come il “parcheggione” o anche “parcheggio dell’ospedale”. Erano anni che non andavo, sia perché a Fano ci sono poco, sia perché quelle poche volte che vado in centro giro in bicicletta. Va da sé che il parcheggio, pur essendo molto grande, è sempre strapieno e trovare un posto è una vera impresa (ad onor del vero, essendo molto grande, c’è sempre un continuo andirivieni e con un minimo di pazienza l’agognato posto alla fine si trova sempre).

La cosa che mi ha colpito maggiormente del “parcheggione” era la presenza di una decina o forse più di ragazzi negri (e non “di colore” come con espressione politically correct e razzista li si definisce. Sono negri perché appartenenti al ceppo negroide) gentilissimi, simpaticissimi, soprattutto sorridenti e allegri. Sicuramente non hanno una vita facile ma sorridono sempre. Scrivo quanto segue profondamente convinto che corrisponda a verità: stanno meglio, molto meglio, di noi. Davvero, cosa c’è di più importante che essere allegri e, nonostante tutti problemi che devono affrontare, innamorati della Vita? Siamo noi a dover aiutare loro o viceversa?

Questi ragazzi, sparsi un po’ ovunque nel parcheggio, monitorano costantemente la situazione di partenze e arrivi e se ne stanno lì ad aiutare la gente a trovare il posto per l’auto in cambio, è ovvio, di qualche soldo. Ho parlato con tre di loro. Uno viene dalla Nigeria, uno dalla Repubblica democratica del Congo, il terzo dal Senegal; un esempio di coesistenza e cooperazione molto spontaneo e umano, alla faccia delle leggi idiote sull’immigrazione e ai pezzi di carta come i passaporti che servono a schedare e controllare e non ad avvicinare l’umanità.

L’umanità è già vicina, lo è spontaneamente, lo è per natura; “mitakuye oyasin” (siamo tutti fratelli), dicevano i Lakota che avevano certamente capito qualcosa più di noi su cosa è il vivere. O si comprende questo profondamente, intimamente, e lo si pone come regola di Vita, o non si va da nessuna parte (infatti non stiamo andando da nessuna parte).

Ho passato dieci minuti a chiacchierare con il ragazzo nigeriano il quale mi ha spiegato che lui e i suoi compagni assieme lavorano e assieme dividono quanto ricavato al termine della giornata. Il gruppo, già di suo vario ed eterogeneo, cambia ogni giorno, eppure non hanno problemi di divisione del denaro e di chi deve avere cosa e quanto. Molti di loro, oltre a lavorare assieme, vivono assieme.

Cosa voglio sottolineare con questo “assieme”? Molto semplicemente che assieme è, o dovrebbe essere, l’unico modus vivendi per questo animale che chiamiamo uomo; del resto di altri modi ne abbiamo provati tanti e non funzionano granché bene. L’unico modo che funziona è assieme perché assieme significa collaborazione, cooperazione, aiuto, tutte cose che ci appartengono per natura e che sono state spazzate via negli ultimi decenni dall’ubriacatura individualista di questo sistema indotto (perché è indotto) che ci ha condizionato fino alle viscere.

Ci ha condizionato a tal punto che tutti vogliono essere liberi e indipendenti. Liberi di cosa? Di andare al supermercato e di scegliere la marca e il modello del telefono? Indipendenti da cosa? Nessuno di noi è indipendente, neppure colui che vive in autosufficienza in mezzo al bosco, figuriamoci se può esserlo chi vive inserito nel sistema. C’è un motivo molto concreto perché nessuno è indipendente: il fatto molto semplicemente è che tutti siamo inter-dipendenti, che è la cosa più ovvia, naturale e spontanea del vivere fino a che non ci hanno convinti del contrario.

Secondo la logica dell’indipendenza ognuno di noi deve avere il proprio lavoro, la propria casa, la propria auto, il proprio televisore e soprattutto il proprio denaro, per potere essere libero di fare quello che vuole; per poter essere “indipendente” appunto. Siamo così tanto condizionati dal Sistema (questo condizionamento subliminale parte praticamente subito dopo la nostra nascita, si sviluppa con l’inserimento nell’ambiente sociale, cioè l’asilo e la scuola, per poi prendere il pieno sopravvento in età adulta con l’attività lavorativa e tutto il resto) che essere “indipendenti”, o quantomeno aspirare ad esserlo, ci pare normale. Ma non lo è, e la prova provata di questo è che stiamo male e non bene. Sapete perché stiamo male? Proprio perché siamo “indipendenti”, perché essere indipendenti significa essenzialmente due cose: la prima è essere separati, la seconda come conseguenza, è essere soli.

Non è un caso che la solitudine imperi soprattutto nelle grandi città e soprattutto tra coloro di successo, che sono “indipendenti” appunto. In ogni caso (e chi vuole intendere intenda) nessuno è meno libero e indipendente di chi si crede libero e indipendente. Come non bastasse, se da un lato vogliamo essere meno dipendenti dagli altri, dall’altro lo siamo ovviamente molto più dal Sistema. Un gran libertà davvero.

Siamo tutto fuorché liberi ma si può cambiare e per farlo è necessario sviluppare da un lato consapevolezza riguardo a ciò e dall’altro decidere di assumersi la responsabilità della propria Vita e di come viverla. Non si può cambiare continuando a pensare e fare come si è sempre pensato e fatto. Questa è La Via del Mago e ne parlerò più diffusamente prossimamente, ma vorrei intanto anticipare qualcosa perché credo che questo qualcosa, se seguito, possa indirizzarci verso una Vita migliore da adesso, nonché verso una condivisione gioiosa anziché una indipendenza triste.

1) E’ imperativo agire per risolvere i problemi, qualunque problema, il che significa al tempo stesso smetterla di lamentarsi e criticare. E’ forse la cosa più difficile da fare per chi è nato e cresciuto in questa cultura.

2) E’ imperativo decidere di essere contenti per ciò che siamo e non per ciò che abbiamo. Inoltre si deve essere contenti della contentezza altrui e non invidiosi della loro gioia e contentezza. Deve esserci condivisione della gioia e non invidia separatrice. La felicità dell’altro è la nostra felicità, così come il benessere dell’altro (e intendo qui altro in maniera estesa, non in riferimento solamente agli umani ma alla Vita e a tutto ciò che ne fa parte) è il nostro benessere.

3) E’ imperativo imparare ad ascoltare ed a comunicare con forme di dialogo non violente affinché si superino le abituali relazioni conflittuali che informano, in generale, i nostri rapporti. Avere ragione non è importante, lo è molto di più venirsi incontro e capirsi. Il compromesso è capacità di convivere pacificamente e non sinonimo di perdita di indipendenza. Invece di discutere e litigare è bene cercare assieme delle soluzioni. Ciò che scrivo ora l’ho già scritto tante volte e vi parrà banale ma non lo è: cominciate con il buttare la tivù, il principale mezzo di manipolazione delle masse, dove tutti urlano e litigano oltre a tutto il resto, e avrete già fatto un enorme passo avanti in questo senso e senza alcuno sforzo.

4) E’ imperativo capire che aiutarsi reciprocamente (il che significa anche chiedere aiuto nella difficoltà senza vergogna di non riuscire da soli) è sinonimo di condivisione. Chiedere aiuto non è debolezza ma forza, quella stessa forza che ti permetterà di aiutare quando qualcun altro chiederà aiuto a te.

5) Riprendo parzialmente il punto 2. E’ imperativo essere allegri, sorridenti, grati per ciò che abbiamo. Abbiamo molto e guardiamo a ciò che non abbiamo. Per avere successo devi desiderare ciò che non hai, per essere contento è sufficiente essere grato per ciò che hai.

Ma soprattutto per fare tutto questo e in verità tanto altro ancora, è imperativo prendersi la responsabilità di farlo in prima persona e per prendersi questa responsabilità in prima persona è necessario fare uno sforzo consapevole per uscire dalla massa, dal gregge, per tornare ad essere se stessi. Perché quando siamo noi stessi, quando siamo quegli animali umani che naturalmente siamo, l’unità e la condivisione sono la spontanea e più alta espressione del nostro autentico essere. E lì stiamo bene senza fare nulla in particolare per stare bene.

Un po’ come i ragazzi negri del “parcheggione”.

 

Davico Gianni

Gianni Davico

 

Partiamo dai fondamentali, di Gianni Davico, gennaio 2016 (giannidavico.it/brainfood)

Nel post di lunedì scorso ero stato – volutamente – provocatorio, perché la mia idea è che bisogna dare degli scossoni e non solo delle piccole spinte per provocare il cambiamento.

Ma che cosa significa, questo, in pratica? Che cosa si potrebbe fare per migliorare la propria condizione economica al fine di migliorare il proprio stato generale di benessere? È una domanda legittima, cui ora cercherò di dare non delle risposte (impossibile), ma qualche indizio.

Parto dalla mia definizione di ricchezza:

La vera ricchezza è data dal tempo che hai a disposizione, non dal denaro.

Siamo sulla stessa pagina o no sul punto? Se no, non ha senso proseguire.

Se invece siamo intesi che è così, ne consegue che il lavoro è uno strumento per liberare il proprio tempo. E dunque condizione necessaria per la

vita 2.0 (lo dico semplificando) è quella di lavorare per conto proprio. Il vero rischio è infatti essere un dipendente, ovvero ciò che un tempo appariva un rifugio sicuro. (Parlo per me, ma nonostante tutti gli errori fatti sino a qui – e chissà quanti ne commetterò ancora – mai e poi mai se potessi tornare indietro sceglierei di lavorare alle dipendenze di terzi.)

E il concetto di impresa, in questo contesto, significa per forza microimpresa, ovvero un’attività che dia da vivere ma non richieda ottanta ore settimanali per starle dietro. Sì, perché altrimenti si perde di vista l’obiettivo fondamentale – il benessere del qui e ora – e si ritorna a lavorare per i piani di qualcun o qualcos’altro (la propria azienda, in questo caso).

Su questo punto mi viene in aiuto Tim Ferriss, e nello specifico questo libro, che dice in maniera magistrale ciò che c’è da sapere sull’argomento. Quindi ne suggerisco una lettura critica. (Questa mia recensione può dare qualche spunto.)

E aggiungo questo: liberare il tempo non vuol dire dimenticarsi del lavoro. Io quando sono sul lavoro sono concentrato al 100% in quello che faccio, impegnato e determinato a dare il meglio e il massimo ai nostri clienti. Anzi, devo dire che forse – ma non so giudicare con precisione – i nostri clienti ottengono più da me oggi rispetto a quanto ottenessero dieci anni fa, quand’ero al mio apice nel sentirmi un imprenditore. Oggi il mio tempo è più corto, la candela è già bruciata per un pezzo troppo lungo, e allora ogni attimo di tempo lavorativo è professionale al 100%.

Questi sono alcuni punti che considero assiomi fondamentali in questo percorso. Come sempre, i commenti dei miei venticinque lettori saranno più che graditi, e serviranno ad accrescere la conoscenza e sperabilmente il benessere comuni.

 

 

 

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