TORNIAMO A PARLARE DI BASQUIAT E SCHIELE, LA CUI MOSTRA SI E’ APPENA CHIUSA A PARIGI ALLA FONDAZIONE VUITTON– NON CERCAVANO L’ARTE, MA LA VITA, CHE LASCIARONO PRESTO, AMBEDUE A 28 ANNI, BRUCIATI DALLO STESSO FURORE, PRIMA ANCORA DELLA MALATTIA O DELLA DROGA.
Egon Schiele e Jean Michel Basquiat insieme alla Fondation Vuitton. Bastano i nomi: il ragazzo della Vienna fin de siècle e quello della New York underground degli anni Ottanta, stesso furore, stessa bellezza, stessa sovversione dell’ esistente, stessa morte giovane, a 28 anni, uno di influenza spagnola nel 1928, l’ altro per overdose di speedball nel 1988.
Superate le reticenze iniziali che a volte ispirano le retrospettive monstre, Schiele-Basquiat si rivela un viaggio emozionante, a tratti perfino uno choc, come ha detto la pur solitamente sobria Suzanne Pagé, direttrice artistica della Fondation Vuitton: «Questi due artisti si rispondono, perché le loro opere toccano direttamente il nostro sistema nervoso centrale».
Toccano i nervi, perché sono nervi scoperti. Le linee faticano a restare dentro le cornici, che siano i corpi distorti e tormentati, bellissimi, di Schiele o i torrenti di acrilico di Basquiat. Si entra pensando di sapere già tutto o quasi sui tratti eternamente moderni di Schiele, i suoi colori e le forme prestati a tutto, all’ immaginario collettivo, alla pubblicità, ai poster nelle camere, e di sapere già tutto anche sui graffiti di Basquiat, diventati linguaggio di ogni giorno, su ogni diario scolastico, in ogni discorso, e invece si scopre un’ intatta radicalità sovversiva, che disturba, lascia interdetti (e infatti, nonostante la folla, c’ è molto silenzio), commuove anche. Innanzitutto non è una mostra, ma sono due, separate.
Il curatore Dieter Buchhart ha scelto una presentazione simultanea dei due ragazzi, ma non una sovrapposizione. I disegni di Schiele, quelle linee col carboncino dentro le quali, diceva, «c’ è una morte che vive», restano separate dai pastelli grassi e gli aerosol stridenti di Basquiat. A Schiele vanno le sale del piano terra, con un allestimento che non cede a nessuna velleità: pareti gialle e marroni, i colori di quel decennio d’ inizio secolo a Vienna dove stava nascendo tutto e dove la guerra stava per tutto distruggere.
Basquiat prosegue per il resto dei quattro piani, su pareti immense e bianche: le sue proporzioni, quelle delle strade di Brooklyn e del Lower East Side. I due ragazzi si parlano e parlano a distanza. Quando si arriva al secondo piano davanti alle famose teste di Basquiat, (per la prima volta riunite), tre teschi di paradossale vitalità, si torna allo sguardo dell’ autoritratto di Schiele, nella sala là sotto, (davanti al quadro, del 1910, i visitatori non riescono a staccarsi) uno sguardo nero, di angoscia, rabbia, sensualità.
La stessa, lancinante, irriverenza del genio e della giovinezza, la stessa nella sala al piano terra, e nella sala al secondo, la stessa nel 1914 e nel 1981. Le due mostre si parlano, ma parlano anche da sole, presentando una serie di opere che sono diventate quasi tutte altrettanti classici. Un centinaio di disegni e acquerelli per Schiele, circa 120 opere di Basquiat.
Nessuna sovversione nell’ allestimento (c’ è chi lo ha rimproverato): si rispetta la cronologia. Per Schiele, si segue l’ evoluzione del tratto, prima ornamentale (non ha ancora sedici anni), secondo i canoni dello Jugendstil e sotto l’ influenza di Klimt, che rifiuterà presto, ma che risplende nella bellissima Danae, l’ opera che apre la mostra. Poi il tratto si fa più angoloso e tortuoso, sempre più espressionista. Si segue l’ arte e la vita di Schiele, il suo erotismo rivendicato, la prigione per 24 giorni con l’ accusa di molestie a un minore (sarà scagionato) l’ ostracismo sociale, l’ angoscia della guerra, la ricerca dell’ amore come unione di corpi. Bellissimo il Nudo femminile in piedi con tessuto blu del 1914.
La maggior parte dei contemporanei non videro altro che «gli eccessi di un cervello in perdizione». Dagli elogi dei suoi contemporanei cercò invece sempre di scappare Basquiat, così com’ era scappato di casa, dalla scuola, dalle convenzioni anticonformiste della New York Underground e della finanza yuppie.
Uscendo dall’ ultima sala in penombra di Schiele, si entra nell’ universo bianco abbagliante di Basquiat, che si apre con Car Crash del 1980, evocazione dell’ incidente che a otto anni gli portò via la milza ma gli permise, durate il ricovero in ospedale, di scoprire sui manuali di medicina l’ anatomia dei corpi, i nervi, il sangue, le ossa che stavano dietro la pelle. Basquiat ha appena vent’ anni quando realizza Per capita o Obnoxious Liberals, nascono i suoi eroi, guerrieri neri, coi sorrisi che sono cicatrici, ribelli e burloni.
La poesia si fa hip hop scritta sulla tela, lista ripetuta di nomi, cultura pop su sfondo di eroi biblici, pugili (Cassius Clay è dell’ 82) e autoritratti col segno distintivo: la corona. Dal sodalizio con Andy Warhol (gli chiesero di non presentarsi al funerale, la dipendenza dall’ eroina lo rendeva incontrollabile) nascono oltre 150 opere.
Parigi ripropone un ritratto che strappa un sorriso a tutti: una banana con un ciuffo di capelli d’ argento (Brown Spot del 1984). Si arriva all’ ultima sala, in cima, inondata dalla luce naturale delle terrazze, con l’ ultima opera, terminata qualche giorno prima della morte nel 1988 riverso nel suo appartamento di New York: è Riding with Death, cavalcando con la morte, dell’ 88. Una silhouette marrone su sfondo dorato cavalca uno scheletro bianco. «Comincio un quadro e lo finisco diceva. Non penso all’ arte mentre lavoro, cerco di pensare alla vita».
Articolo di Francesca Pierantozzi per “il Messaggero”