BEATLES

20 Dic 2020 | 0 commenti

A ottant’anni dalla sua nascita, Paul McCartney celebra John Lennon. Amici e rivali per sempre.

Forse davvero tutte le storie sono storie d’amore, come recita il celebre incipit di Robert McLiam Wilson. Certo lo è questa. La storia della coppia che segnò la più epocale svolta nella storia della musica popolare del Novecento. E chissà come sarebbe arrivata la coppia più bella del mondo a questo compleanno tondo, ottanta candeline sarebbero state il 9 ottobre per il signor John Winston, divenuto John Winston Ono per amore, nato nel 1940 quando i tedeschi cercavano di piegare l’Inghilterra a colpi di bombe. Chissà se lui e la sua “vecchia fidanzata” Paul sarebbero stati in una fase di down, magari condita da insulti cantati urbi et orbi, o piuttosto in un periodo di ritorno di fiamma, fatto di incontri privati e chiacchierate. Ne ebbero più d’uno, tra alti e bassi, incomprensioni e riavvicinamenti, come si conviene alle grandi passioni.

Per la ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della nascita di John Lennon, Paul McCartney ha annunciato al mondo che pubblicherà un brano composto dai due vecchi soci, “Just fun”, per omaggiare il partner, ucciso quarant’anni fa a New York dallo squilibrato Mark David Chapman. Una notizia che ha scaldato i cuori dei beatlesiani doc quella dell’uscita di un pezzo Lennon-McCartney originale e inedito (l’ultima volta era successo nel 1995, col contributo di George Harrison e Ringo Starr). Un’ultima, ennesima puntata, di una lunga storia d’amore e di amicizia cominciata a Liverpool, nel Merseyside, nel 1957. All’epoca John Lennon aveva sedici anni, andava per i diciassette, suonava la chitarra da leader di una piccola band skiffle (il genere che andava per la maggiore nella Liverpool portuale dell’epoca), i Quarryman. Un amico comune, Ivan Vaughan, gli presentò il moretto mancino con gli occhi grandi, James Paul McCartney, classe 1942, due anni più giovane di John. Due anni, un nulla che nell’adolescenza però significa tanto per stabilire le gerarchie.

McCartney, innamorato della musica americana proprio come Lennon, aveva visto John e i suoi esibirsi in pubblico. Si propose per un “provino” voce e chitarra, eseguendo tra l’altro “Twenty flight rock”. John ne fu impressionato. E fu quel 6 luglio che tra i due ragazzini liverpudlians si accese una scintilla fatta di stima reciproca e senso di competizione, l’incontro di due mondi diversi, quasi perfettamente complementari, che fondendosi in uno generarono il songwriter perfetto, la formula più esplosiva nella storia della scrittura delle canzoni.

La morte delle rispettive madri nell’adolescenza fu un’esperienza comune che unì i due ragazzi. Julia, la madre di Lennon riapparsa dopo un periodo di allontanamento, fu investita da un ubriaco. Lennon nel 1968 le dedicò una struggente ballata. Mary, la madre di Paul, fu uccisa dal cancro. McCartney la ritrasse in “Let it be”, apparirgli come in sogno a invitarlo a non farsi abbattere dalle difficoltà.

McCartney si unì alla band, portò in dote qualche tempo dopo uno sbarbatello ancora più piccolo di lui, ma tanto bravo con la chitarra da sapere eseguire un assolo. Si chiamava George Harrison. Nel frattempo, però, qualcosa di grosso stava accadendo. John e Paul si erano messi a scrivere canzoni. A Lennon, che aveva una lieve dislessia, veniva quasi naturale inventare parole tutte sue per rimpiazzare i testi che faticava a memorizzare. Dapprima i ragazzi scribacchiarono qualche canzoncina ognuno per conto proprio. Poi, la leggenda vuole che un giorno, a casa di Paul, McCartney fece ascoltare a Lennon un rock and roll di sua creazione, con un testo super-adolescenziale: era “I saw her standing there”. E sempre la leggenda vuole che il primo verso cantato dal ragazzo mancino fosse “She was just seventeen, never been a beauty queen” (aveva solo diciassette anni, non era mai stata una reginetta di bellezza). E che a quel punto Lennon, con la sua faccia un po’ così e l’autorità del socio più vecchio, abbia storto il naso proponendo all’amico di cambiarla: “She was just seventeen, you know what I mean” (aveva solo diciassette anni, sai cosa intendo). Quel verso ammiccante convinse Paul. E nacque così il particolare metodo di collaborazione targato Lennon-McCartney. Non un paroliere e un musicista, ma due autori a tutto tondo che per lo più lavoravano così: uno dei due proponeva l’impianto del brano, l’altro lo aiutava a completarlo e migliorarlo portando il suo contributo. Spesso, componendo “eyeball in the eyeball”, palle degli occhi nelle palle degli occhi, avrebbero raccontato anni dopo i due, ricordando i pomeriggi a casa di Paul, non lontano da Penny Lane, come quello in cui vide la luce “She loves you”, che i due giovanotti fecero ascoltare eccitatissimi al padre di McCartney. “Bella, ma perché quello ‘yeah yeah’ così americano? Non potreste dire ‘yes’?”, obiettò McCartney senior.

Fu più o meno così che John e Paul divennero Lennon-McCartney. Firmarono tutte le loro canzoni con i Beatles, anche quelle che erano tutta farina del sacco di uno dei due e su cui l’altro socio non aveva messo mano. Come “Yesterday”, che solo anni e anni dopo Paul ottenne di vedere firmata almeno ”McCartney Lennon”. Amici, soci e genitori di una infinita serie di capolavori, John e Paul cementarono nei primi anni dei Beatles quell’amore fraterno che era fatto però anche di spirito competitivo. Se all’inizio la leadership di Lennon appariva più o meno evidente, bastò pochissimo al più giovane cigno per affiancarsi all’amico in una posizione paritaria, salvo divenire negli ultimi anni della band il motore principale del quartetto. Diversi, diversissimi, i due si completavano alla perfezione. Ironico, tagliente, istrionico ma pigro e un po’ indolente Lennon. Perfezionista e pignolo McCartney, con quell’innata vocazione alla melodia e al romanticismo ma capace anche di scatenarsi (con risultati eccelsi) sul rock, terreno più congeniale al socio. Si ammiravano a vicenda, pur dicendoselo il meno possibile. Racconta McCartney che solo una volta Lennon gli fece un complimento per una sua canzone, “Here there and everywhere”, la delicata ballata inserita nell’album del quartetto “Revolver”, anno 1966.

La collaborazione in certi casi lascia perfettamente riconoscibile il contributo dell’uno e dell’altro. Come in “We can work it out”, dove alle strofe ottimiste e propositive di Paul (“possiamo risolvere la situazione”, ripete a oltranza), fanno da controcanto (e in controtempo) gli incisi di Lennon: “La vita è molto breve e non c’è tempo per litigare”. O in “Michelle”, che a tutti pareva farina del sacco di Paul ma il cui celeberrimo inciso “I love you I love you I love you” fu composto da Lennon per completare la canzone “francese” incompiuta dell’amico, che a John piaceva tanto.

Amici e rivali, Lennon e McCartney arrivarono alla fine dell’avventura dei Beatles in un clima di liti e incomprensioni, che sfociò negli anni successivi allo scioglimento della band in clamorosi screzi pubblici. Paul inserì dei versi in una sua canzone da solista che Lennon comprese essere rivolti a lui e alla moglie Yoko Ono. John non gradì e reagì a modo suo, inserendo nell’album “Imagine” la spietata “How do you sleep”, in cui senza giri di parole attaccava durissimamente l’ex socio, dicendogli tra l’altro che l’unica cosa che aveva fatto era “Yesterday” e che la sua musica post Beatles alle orecchie di Lennon suonava come robaccia da filodiffusione nei supermercati. Cose da Lennon (ma Harrison suonò la chitarra nel brano, lo strascico delle liti da scioglimento era notevole).

L’amore è amore, però. E tutto perdona. Paul riuscì a superarla. Lennon diede una mano a modo suo, andando in tv a dire, rispondendo a una domanda su “How do you sleep”: “Se non posso fare una litigata col mio migliore amico, con chi posso farlo?”. E così, seppur dopo un po’ di tempo, pace fu. La coppia si ritrovò in California. McCartney e la moglie raggiunsero Lennon che si trovava in studio di registrazione, tra cocaina ed eccessi. Suonarono insieme, come ai bei tempi. Parlarono, si ritrovarono. Riallacciarono un rapporto che proseguì a spizzichi e bocconi: si telefonavano e quando Paul si trovava a New York, dove Lennon si era trasferito, i due trascorrevano

L’incontro di due mondi diversi, perfettamente complementari, che fondendosi in uno generarono il songwriter perfetto

Non un paroliere e un musicista, ma due autori a tutto tondo che per lo più lavoravano aiutandosi l’un l’altro

Arrivarono alla fine dell’avventura dei Beatles in un clima di liti e incomprensioni, che sfociò nello scioglimento della band

E’ una canzone “di una mia vecchia fidanzata di nome Paul”, disse John prima di attaccare il riff di “I saw her standing there”

qualche ora insieme. Una sera, mentre erano con le mogli al Dakota hotel, casa di Lennon, in tv un presentatore disse che offriva qualche migliaio di dollari ai Beatles se si fossero presentati in studio per una reunion. I due pensarono di andare, poi cambiarono idea. Peccato.

Mai e poi mai, anche quando un oceano li separò per anni, per John e Paul fu possibile scindere quell’ideale simbiosi che in qualche modo li rendeva una sola cosa. E sempre, negli anni del loro lavoro da solisti, a entrambi sembrò mancare qualcosa dell’ex alter ego. Quando nel 1974 Lennon salì a sorpresa sul palco del Madison Square Garden dove si stava esibendo Elton John per il giorno del Ringraziamento, la folla esplose in un delirio. Dopo “Lucy in the sky with diamonds” e “Whatever gets you thru the night”, Lennon si avvicinò al microfono e disse che lui ed Elton avrebbero eseguito un ultimo brano. E’ una canzone “di una mia vecchia fidanzata di nome Paul”, disse John prima di attaccare il riff evergreen di “I saw her standing there”, la canzone a cui da ragazzo aveva cambiato quel primo verso.

Paul ricambiò l’omaggio anni dopo, quando Lennon fu ucciso. La “vecchia fidanzata” scrisse una canzone per lui, “Here today”, un immaginario dialogo tra i due vecchi amici. Paul la esegue ancora in tutti i suoi concerti. Qualche volta gli scappa anche una mezza lacrimuccia. Racconta di sognarlo ancora il suo amico John. Chiacchierano come ai vecchi tempi. Continuano a parlarsi, da sessantatré anni. Come quel giorno di luglio del 1957 a Liverpool. La loro Liverpool. Quando McCartney trent’anni fa, nel 1990, suonò con la sua band nella sua città, all’improvviso, un po’ a sorpresa, disse che era il momento per un tributo a qualcuno che “noi amiamo”. Attaccò un medley memorabile, in sequenza “Strawberry fields forever”, “Help” (lenta, come l’aveva composta Lennon prima di accelerarla in studio) e “Give peace a chance”. Lennon, dieci anni dopo la sua morte, sembrò vivere sul palco accanto all’amico-rivale quel giorno nel Merseyside. Perché se tutte le storie sono storie d’amore, ce ne sono alcune che non finiscono mai.

Toscano Di Salvo , Il Foglio Quotidiano

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