ALZIAMO LIETI I CALICI, MA FRA UNA BEVUTA E L’ALTRA (SEMPRE MODERATAMENTE) ASSAPORIAMO IL PREZIOSO LIQUIDO, SCOPRENDO COME ESSO SI INTRECCIA CON LA STORIA E L’ARTE.
Le allegorie e le leggende legate al bere (vino) e alla sua ritualità sono antiche a numerose.
Il gesto del bere ha in origine valenza sacrale, come testimoniano fonti archivistiche e letterarie, produzione fittile e reperti archeologici, corredi e arredi sacri e profani.
Nelle rappresentazioni murali e fittili il tema del vino, dalla coltivazione alla vendemmia, al consumo nei baccanali o nei simposi, è ricorrente: in skyphos, pelike, crateri, olle, ricorrono frequentemente pampini, tralci di vite, Dioniso ebro, inseguito da baccanti e menadi.
Un piccolo vaso conservato al museo archeologico nazionale di Napoli, risalente alla seconda metà del IV sec. a.c. ha la forma di un vecchio satiro che
disteso su un fianco regge una coppa sopra la testa, che reca una cavità: gingillo grazioso, di fattura un poco dozzinale, ma tale da dimostrare la diffusione dell’immagine di Dioniso fra i romani antichi.
Di ben altra fattura è il cratere a calice e a figura rosse oggi a Matera, la cui scena principale mostra l’epifania di Dioniso, che imbraccia una lyra. Di fronte a lui una figura femminile panneggiata, alle spalle la stessa statua del dio, vestito con un lungo chitone, in alto a destra un satiro con due flauti.
La scena ci introduce in una dimensione escatologica del simposio dionisiaco, quella che evocando il canto estatico di Orfeo avvicina i convitati a quella soglia oltre la vita che pare essere lo scopo finale dei simposi.
IL BRONZO E’ LO SPECCHIO DEL VOLTO, IL VINO QUELLO DELLA MENTE (ESCHILO)
Crateri, stamnos, pelike prendono forme diverse, non sempre confacenti alla stretta funzione di contenere o raccogliere vino, ma concedendo agli artisti superfici adeguate all’apparato iconografico che si fa sempre più complesso di significati e di evocazioni culturali, sia dei miti greci, sia romani.
Nel 1835 in una cassa recuperata a Pompei in quella che passerà poi per la Casa dell’argenteria, insieme ad un cospicuo gruzzolo di monete, vengono restituiti dodici vasi di argento, finemente cesellati. Il tema decorativo è chiaramente di derivazione dionisiaca, segno che anche nelle case più ricche, nel I secolo d.c. perseguiva il mito…..
L’iconografia antica ci riserva rappresentazioni di ben altra quotidiana abitudine: si veda l’insegna in tufo dei saccarii (fabbricanti di sacci vinarii) ritrovata a Pompei murata in un pilastro angolare di una casa.
Oppure la scena di cantina, in questo caso si tratta di un calco di gesso alabastrino, conservato al museo della Civiltà Romana, in cui un personaggio si rivolge ad un altro che trasporta sulle spalle un’anfora di vino, da accatastare ad altre sei già ordinatamente sistemate. Operosità e fatica……
Nello stesso museo possiamo vedere un altro calco che rappresenta una banco per la mescita del vino, con la brocche di diverse misure appese, un acquirente che raccoglie il vino richiesto sotto il bancone da una sorta di imbuto.
Un posto singolare, in questa rapida carrellata di curiosità iconografiche, è occupato dal rhyton del I sec. d.c. in argilla color crema, vernice rossastra, rinvenuto a Pompei. E’ una ceramica dalla curiosa forma di gallo, usata per contenere e versare liquidi, probabilmente vino. La fattura è accurata, sapientemente stilizzata.
Ma la rappresentazione artistica giustamente famosa, capolavoro dell’arte greca, di cui è giunta a noi la copia romana, oggi conservata ai musei Capitolini, è una statua della vecchia ubriaca
Opera di grande realismo rappresenta una vecchia che stringe un otre di vino, la testa rovesciata all’indietro, lo sguardo perso nel vuoto, la bocca aperta, è la esatta rappresentazione degli effetti negativi dell’eccesso di vino e della proibizioni romana di concedere vino alle donne.
Altra possente opera in marmo bianco, attualmente a Firenze, museo archeologico nazionale, che riprende un originale greco in bronzo del periodo tardo ellenistico, è Satiro con Dioniso bambino..
Non poteva mancare la rappresentazione dell’uva in quella che possiamo definire una delle prime nature morte dipinte. E’ quella che appare sull’ intonaco di una casa di Ercolano, con uva, fichi, pesche, melograni.
Nonostante il tempo trascorso e lo stingersi delle tinte, ancora si indovina che l’uva è quella con gli acini rosa, mentre un grappolo è indiscutibilmente di uva regina.
Si doveva aspettare il Caravaggio con la sua cesta di frutta, ora alla Pinacoteca Ambrosiana, perché il tema ritorni nelle abitudini pittoriche.
Come Caravaggio, ai suoi tempi tristo personaggio per gli sbirri a varie latitudini, tutti i grandi pittori sono frequentatori di bettole, ubriaconi essi stessi, quindi in grado di rappresentare gli effetti del bere in maniera realistica e … pittoresca, come si dice.
C’è disprezzo sociale nella rappresentazione dell’ubriachezza contadina, il vino è un male oscuro che si confonde con la povertà e l’ignoranza. L’alcool non è più simbolo di status sociale, ma di depravazione.
Lo scopo edificante, l’intento moralistico, i soggetti immutati della tradizione, fanno a volte di queste tele opere spente e opache.
Simbolo del male oscuro è ancora una volta Dioniso, che rimane per lunghi secoli il soggetto preferito anche per i pittori.
Come non ricordare I satiri di Pieter Paul Rubens, una tela del 1616 in cui in primo piano, recando in mano un grappolo d’uva, un satiro ci guarda inquietante, quasi minaccioso. Oppure il Baccanale di Tiziano, un dipinto del 1518 che descrive la festa per l’arrivo di Dioniso sull’isola di Andros. All’interno del paesaggio classicheggiante spiccano donne nude, discinte, abbandonate all’ebrezza del vino, prive di freni inibitori, forse un ricordo delle remore antiche circa gli effetti del vino sulle donne.
Le tentazioni del gusto che fanno perdere la testa, di Brueghel; le basse e contorte scene di ubriachezza, di Scheyndel; l’ebrezza e lo smarrimento della mezzana nella taverna nel quadro di Jan Vermeer van Delft, descrivono tutte lo stesso equivoco rapporto fra virtù e vino, fra misura ed eccesso, fra ritegno misurato e abbandono senza freni.
Ma non è sempre così, scoperte le nuove terre americane e allentato il morso della controriforma, il clima cambia, nuovi cibi vengono a tavola, sapori sconosciuti.
Se il buon vino rende l’uomo migliore, la sua rappresentazione iconografica ne conferma il valore come volontà di affermare, fissare una volta per tutte nell’immortalità dell’arte, l’entropia naturale contro i disordine dionisiaco. Dioniso è infatti ambivalente, perché è il dio dell’ebrezza e della follia, oltraggio alla regola e alla ragione e nello stesso tempo dio della terra, del lavoro, dell’ordine.
Questo spiega perché Dioniso venne considerato nell’antichità anche il protettore dell’arte e il dio dell’ispirazione.
Ma, al di là delle attribuzioni di questo dio passe-partout, una certa affinità fra vino o liquore e pittura la troviamo agevolmente, tanto numerosi sono i punti di incontro.
Come il pittore anche il vignaiolo ha la sua tavolozza: mescola, dosa e trasforma una materia prima, osservando le leggi naturali che presiedono alla fermentazione. Allo stesso modo fa il pittore, parte dalla materia prima dei colori fondamentali, li mescola ottenendone altri, li accosta sulla tela ottenendo un altro effetto ancora, rispettando le leggi della rifrazione, del chiaro scuro, della.luminosità.
Così come la pittura coinvolge tutti i sensi, lo stesso succede per il vino e il liquore: la mano che afferra il bicchiere, i riflessi luminosi trasparenti o ambrati, il sottile perlage, i sentori inebrianti, in un gioco che come una metamorfosi tutto trasforma.
Come per la pittura, in cui il quadro non è la semplice sommatoria di tela, disegno e pigmenti colorati, anche per il vino, la somma dei componenti chimici non fanno il liquido che beviamo: in entrambi c’è qualche cosa in più. Prova ne sia che dalla stessa uva si possono ottenere vini assai differenti fra di loro.
Quel qualcosa in più è la maestria, l’arte inimitabile e personale, di combinare tutti gli elementi a disposizione con perizia, originalità, passione.
Come la pittura anche il vino è un dosaggio equilibrato, la ricerca di una perfezione e di una misura di svariati fattori, che quando si trasformano in capolavori, trascendono della loro natura materiale per assumere un significato più profondo, spirituale, che attraverso i sensi, parlano all’anima.
Ecco perché nell’arte è così frequente il riferimento al vino, alla birra e ai liquori, in ogni latitudine e in ogni tempo.
L’ambivalenza del rapporto arte-vino, e più in generale bevanda alcoolica, permette agli artisti di fissare scene della storia del vino dalla vendemmia alla mescita in osteria, scene di festa, nozze, giuochi, narrandone i personaggi, i miti e la magia, il ruolo sociale, a volte con intenti moralistici o edificanti.
Abbiamo già visto come i pampini e i grappoli d’uva ben presto diventano simboli religiosi. Fin nei mosaici cristiani del IV sec. il vino ha un chiaro significato mistico: riferito al Vecchio Testamento esso è prevalentemente simbolo di lussuria, dissolutezza, impudicizia. L ‘episodio di Lot e le figlie ha continuato a ispirare gli artisti per secoli, fino a tutto l’800.
Un artista, come il manierista francese Jat Massys a metà del ‘500 ci regala un quadro a metà fra il naturalismo fiammingo e aderenza iconografica, sgravato da eccessivi sensi di colpa, incentrato sulla luminosa carnagione delle figlie e i loro gesti lievi e scherzosi.
Nel Nuovo Testamento, il vino assume un significato simbolico positivo, tanto che possiamo dire che accompagna Cristo nel suo cammino, dalle Nozze di Cana all’Ultima Cena.
Il vino occupa la scena storica, comparendo nei banchetti e nelle feste allestiti dai re per festeggiare guerre vinte o matrimoni dinastici. Oppure ai tempi degli eroici empiti rivoluzionari francesi, serve magari per scogliere la paura di parecchi coscritti, come ci documenta il quadro di Louis-Leopold Boylle (1808)-
L’arte del vinificare ha trovato devoti illustratori, come l’anonimo artista che nel 1618 assiste e rappresenta l’arte dei bottai veneziani, riproducendone le botti, ancora con i cerchi in legno.
Né poteva mancare il pittore della vita contadina per antonomasia: qual Jean-Francois Millet che, oltre alle scene agresti, ha ben rappresentato il lavoro del bottaio, intento a assestare qualche buon colpo per sigillare le doghe.
Così non mancano le nozze contadine, congiunte alle piccole opere campestri, come nel quadro Nozze al villaggio di Francois-Louis Watteau.
Le botti stesse diventano il soggetto del quadro, come nel caso di Hans Weiditz, che nel 1530 rappresenta la verifica ufficiale delle botti, che le autorità facevano per evitare, ahimè, un vizio antico: le frodi sul vino.
La rinascita della natura morta, specie nella pittura nordica del ‘700’800, non poteva trascurare l’uva e il vino. Qui il vino è un punto fermo, un mezzo di meditazione, il simbolo di una vita lenta, di una vecchiaia tranquilla.
La borghesia non esita a farsi riprendere con il vino, in presa diretta e senza effetti speciali, diremmo noi oggi.
Non serve più essere rappresentati nel quadro travestiti, con qualche chilo o ruga in meno, in ritratti mitologici che testimoniano scarsa aderenza psicologica e culturale fra la persona ritratta e quel mondo lontano, come aveva fatto (un secolo prima?) una certa signorina Prevost, in un quadro del francese Jean Raoux, trasformandosi da oscura ballerina quale era a baccante leggiadra.
Il borghese, commerciante agiato e cittadino autorevole, appare col bicchiere in mano, quasi che il vino buono testimoniasse esso stesso delle bontà del lavoro e il valore delle opere morali del bevitore, necessariamente sobrio, come sobria e misurata è la pittura.
Il vino borghese, quello della ville lumiere, dell’Expo diventa il simbolo dello scambio commerciale se proprio della comunione.
Ora i pittori mettono il vino al centro del quadro. Ben illuminato in brocche o bottiglie, emana un riflesso che induce al buon umore, alla cordialità, alla conversazione brillante, se non raffinata.
E’ il tempo oramai dei bistrot, dei caffe chantant, Van Gogh ha pronto il suo Caffè Alcatraz, il suo biliardo dai colori violenti, il sinistro bagliore della lampada, mentre Paul Cézanne nella partita a carte fra due avventori pone la bottiglia al centro, quasi fosse un arbitro. Le cave fumose da dove inizia la sua strada artistica (Mistinguet) sono oasi di pace nel vorticare metropolitano, hanno il richiamo discreto di ripari dalla vita più che di luoghi da scoprire.
Il cubismo non sconvolge più di tanto i bevitori, che il senso di plasticità delle forme è un pezzo che l’avevano perso. Né sdoppiare i piani, i punti di vista, alterare le via di fuga, mettere sotto quello che è sopra, scambiare la destra con la sinistra, poteva costituire un problema per persone la cui sobrietà era messa a dura prova ogni giorno.
Forse la sfida più insidiosa ad un solido appoggio concettuale della bottiglia esistenziale è portata dal Futurismo, unico movimento artistico italiano di respiro europeo di inizio ‘900.
Un invito vorticoso, irresistibile, quello di Marinetti, Balla e soci, quasi una incitazione all’uso smodato e senza freni dell’alcool, con in più la giustificazione ideologica e un apparato concettuale rivoluzionario in grado di giustificare, che dico sbandierare, ogni colossale sbornia.
Non è un caso che in Francia, sodale entusiasta del movimento fu subito Apollinaire, letterato, critico, giornalista, donnaiolo e gran bevitore.
Il regime fascista, che era dittatoriale ma non era scemo, capì subito che il vino era la bevanda italica per eccellenza ( Enotria= terra del vino).
Le radici latine eroico romane, il fascio littorio avvolto nei tralci, gli “allegri calici” verdiani, il detto latino in vino veritas (e Lui diceva sempre la Verità, ecc. ecc.) spingono la magniloquente grancassa del regime a fare del vino italico e fascista un vero fatto di costume, come la Balilla e le vacanze a Riccione.
Due sono i mezzi espressivi usati dal regime: la grafica pubblicitaria e la pittura vera e propria.
La grafica produce alcuni pezzi che sono ancora oggi fra i più belli di tutti i tempi: Dudovich e Metlicovitz e altri producono per Martini, Campari, Cora, Ruffino. Vengono ideati packaging e design per Cinzano, Isolabella, Gancia.
Fra i pittori Severini, Mafai, Oriani, Rizzo, Cagnaccio di San Pietro, Muggiani, Franzoni, ognuno col il suo stile, trattano il tema con inventiva e grande resa artistica, nobilitando il soggetto, che per loro rappresenta passione, sensualità, calore, fratellanza.
Ma è Depero il più ispirato: al punto da scrivere un libro intitolato Fisiologia del gusto, nel quale assegna al vino un solo compito: “eccitare la fantasia prima che tentare le labbra”.
In Quattro bocche assetate, da Liriche radiofoniche del 1934, Depero scrive un vero e proprio inno al vino, con una così intensa vena di lirismo che qualcuno ha parlato di lirismo enologico: “ .. io voglio del vino asciutto … rosso chiaro … con trasparenza di rubino. Accostando il bicchiere alle labbra, un tepore profumato mi deve leggermente inebriare. Al palato deve apparire quieto, scorrevole, dissetante. Nella gola deve scivolare come una cascatella cristallina di pace raccolta e di poesia silenziosa.
Attraverso i suoi riflessi devo vedere le linea flessuosa del suo profilo sottile di vespa chiaro, sanguinello di fragola filtrata con vene azzurrine di aria purissima prealpina. Vino preparatorio … adolescente .. primaverile che mi dia un senso di bagno interiore, di sana strigliatura ai muscoli e di leggero calore ottimista” (pardon, stavo per scrivere futurista !).