Nel 1935 un militare, di origini bresciane, specialista nella contraerea, fu spedito in Sardegna. Sposò una donna del luogo. Poco prima che scoppiasse la guerra, nel 1938, nacque Remo Bodei. Nel 1943 i feroci bombardamenti colpirono Cagliari, la città dove vivevano. Furono giorni di angoscia e terrore.
In particolare uno: il 13 maggio 196 bombardieri e 187 caccia delle forze alleate vomitarono una quantità impressionante di bombe. Di Cagliari restò solo un cumulo di macerie. Si calcola che in settantamila sfollarono.
Mentre Bodei ricorda ho come l’ impressione che quel teatro della crudeltà insensata abbia segnato un discrimine nel suo lavoro intellettuale. Un’ impronta che richiama il difficile rapporto dell’uomo con i propri simili, mitigato dal fatto che non bisogna rinunciare a cercare quel lumicino che chiamiamo ragione o quanto di essa oggi resta.
Bodei non è facilmente catalogabile: più che i sistemi o le scuole si interessa ai problemi che la filosofia può sollevare. E le situazioni che questo sapere si trova a fronteggiare. Bodei è un uomo mite che ha scritto un libro sull’ira. È un ateo che ha scritto un libro su Dio. Ed è anche un uomo tutto di un pezzo che ha recentemente pubblicato Scomposizioni.
Come affronti le ragioni dell’avversario?
Tentando di comprenderle. Il miglior modo per dialogare è cercare punti di contatto e dove non ci sono argomentare il dissenso. Poi, sai, le prospettive possono cambiare e con esse le nostre convinzioni. Scrissi Scomposizioni trent’ anni fa. Ho aggiunto parti nuove. In misura del fatto che da allora la realtà è profondamente mutata.
Verso che direzione?
La prima cosa che mi viene in mente è che l’ epos di una società liquida sia tramontato. Stiamo riscoprendo la durezza della crisi e la spigolosità della realtà. Come si fa a non tenerne conto?
E di che altro devi tener conto?
Pensa all’ espressione “Dio è morto”, tra i primi a pronunciarla fu Nietzsche. Per lungo tempo è stata il passaporto del nichilismo, del tutto è permesso. La verità è che se Dio è morto tutto il peso della responsabilità passa sulle spalle dell’uomo. Potrei continuare.
Fallo.
Ti ricordo quello che diceva Francis Fukuyama una decina di anni fa: la storia è finita. La democrazia e il liberalismo hanno vinto.
Fu un grande abbaglio.
Niente è più sotto controllo. Le guerre si moltiplicano. La politica è un cumulo di macerie. La finanza spadroneggia. E noi ci siamo consolati, tra ironia e desiderio, dicendo che il mondo era liquido, la società liquida, le parole liquide. Ti pare che viviamo immersi in un bagno di acqua calda? L’ unica cosa che si è davvero dissolta è il modello di organizzazione sociale che aveva al centro la politica.
Cosa l’ ha sostituita?
Il mercato che, come si può vedere, è da tempo diventato una potenza autonoma. Mentre sul piano della democrazia si assiste al tramonto della rappresentanza.
C’ è il capo e ci sono le folle.
Il fenomeno è tutt’altro che nuovo. E ha permesso la nascita dei totalitarismi. I quali hanno inventato la categoria del sublime politico: un capo che la folla sente contemporaneamente molto lontano e molto vicino. A me ha sempre colpito che un tipetto come Goebbels alla fin fine riuscisse a parafrasare in qualche modo Kant.
Agisci in modo che se il Führer ti vedesse approverebbe. In fondo alla strada del populismo c’ è questo rischio. È bene esserne coscienti.
Se la situazione è come la descrivi, che cosa proponi?
Non mi chiedere ricette: la figura dell’intellettuale critico, incisivo sul terreno civile e della politica ha perso importanza.
Vale anche per il filosofo?
Non fa eccezione. Nel momento in cui uscivano dalla loro stanza e si chinavano ad analizzare la società e la politica – come fecero Locke, gli illuministi, Kant, Hegel, Marx e nel Novecento Gramsci, Russell, Hannah Arendt – svolgevano una funzione di riflessione e di critica intellettuale.
Perché questa funzione è venuta meno?
Si è chiusa un’era, cominciata con la Rivoluzione francese: gli intellettuali non costituiscono più il polo di un’alleanza con le masse per rovesciare insieme lo stato delle cose.
È una crisi che fa parte del generale tramonto delle élite?
Si sta andando verso un “mondo nuovo” più inquietante di quello che i nostri padri spirituali pensavano. Mi viene in mente una frase di Keynes: ” L’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”. Siamo davanti a qualcosa che non ci aspettavamo che accadesse.
Perché hai scelto di occuparti di filosofia?
Non fu una scelta immediata. Dopo il liceo, fatto a Cagliari, pensai di iscrivermi a fisica e venni a Roma. Tieni conto che, in parallelo, studiavo flauto traverso al conservatorio.
Ti piaceva la musica?
Sì, e il suo approfondimento mi ha permesso di unire il rigore più severo con il pathos più profondo.
Cosa c’ entrava la fisica?
Non la considero una scienza arida o astratta. Ma a Roma percepii un ambiente poco favorevole. Negli anni Cinquanta la destra guidava la politica tra gli studenti. Un giorno mi imbattei in un gruppetto di fascisti. Portavo sotto braccio dei libri di musica. Mi fermarono e mi dissero: facci sentire come canti. Rifiutai. Cominciarono a spintonarmi. Mi strapparono dalle mani i libri e infine mi picchiarono.
Era questo il clima politico?
Per uno studente di sinistra quegli anni non furono facili. Perciò, di fronte alle tante complicazioni, non ultime le aule affollatissime, decisi di fare il concorso alla Normale di Pisa e lo vinsi.
Non era semplice accedervi.
Ho sempre avuto una certa facilità negli studi. Avevo letto tanti libri di fisica, ma anche i Dialoghi di Platone, Aristotele, Kierkegaard e Schopenhauer. Filosofia mi parve una buona alternativa.
Chi sono stati i tuoi maestri?
Quando arrivai, nel 1957, seguii le lezioni di storia tenute da Delio Cantimori.
Un personaggio complesso.
Oltremodo. Nella mia timidezza cercavo di stare il più lontano possibile dal suo raggio d’ azione. Tendeva a interrogare coloro che gli erano più vicini. E il fatto di stargli distante rendeva difficile capire cosa dicesse, anche perché più che parlare borbottava. Era un uomo rude, che incuteva paura. Ma le sue lezioni – seguii quelle dedicate agli eretici del Cinquecento – erano magistrali. Poi c’ era Arsenio Frugoni i cui corsi di storia medievale erano notevoli per erudizione e chiarezza. Vorrei aggiungere la fondamentale presenza di Arturo Massolo e Giorgio Colli.
Due figure molto diverse.
Massolo veniva dall’ università di Urbino, l’ho molto amato come insegnante. Era un irregolare che scrisse pochissimo. Da lui appresi l’importanza che un filosofo come Hegel riveste ancora oggi.
E Colli?
Era notevole il suo sguardo sul mondo antico, su quella che chiamava la sapienza greca, e su quello moderno. Altri due grandi maestri furono Eric Weil, del quale divenni amico. E Arnaldo Momigliano che mi aprì la conoscenza al fenomeno religioso.
Credi in Dio?
Sono tranquillamente ateo. Ma capisco che in un mondo nel quale molte cose sfuggono la religione può essere una forma di consolazione. Con Franco Fortini frequentammo per anni l’arcivescovado di Milano. Spesso si discuteva con il Cardinal Martini e un giovane Ravasi, biblista agguerrito. Detto ciò sento molto il senso del sacro.
Che definizione ne daresti?
Per me il sacro è lo stupore e l’ inquietudine di essere in un mondo senza volerlo. Ho un corpo e contemporaneamente vivo qualcosa che non mi appartiene del tutto. Mi sento ospite della vita e il sacro ne manifesta il rispetto e il timore.
E la filosofia cos’ è per te?
Per le cose che stiamo dicendo è una forma di igiene mentale; un aiuto a orientarsi nel mondo. È un insegnamento che ho appreso da Gadamer quando studiai con lui a Heidelberg.
Sei il filosofo italiano che più ha insegnato all’ estero.
È vero. Sommando le varie esperienze sono stato almeno quindici anni fuori.
Dove?
Negli anni Sessanta e Settanta a Tubinga, Friburgo, Heidelberg, Bochum, Berlino. Negli anni Ottanta in Canada e a Parigi. Quattro anni alla New York University; in Messico, Argentina, Brasile. E infine a Los Angeles, dove sono ” Full Professor”. Richard Rorthy diceva che ero il meno peninsulare tra i filosofi italiani. Per uno che ha vissuto il trauma del distacco dalla Sardegna, è stato tutto molto sorprendente .
Ti sorprende il tempo che passa?
Se alludi alla vecchiaia, non lo considero un problema. E non sento l’angoscia del tempo né mitizzo l’infanzia. Ricordo che con Bobbio si condivideva l’idea che si vive per perdere e che bisogna accettare questa perdita progressiva di sé.
Lui era molto amareggiato negli ultimi anni.
È vero. Una delle ragioni, diceva, era di aver vissuto più di concetti che di affetti. Poi ha scritto quel libro bellissimo, De Senectute, dove si intravedeva la convinzione di un’esistenza piena, lunga e, infine, malinconica. La sua fu una storia bella, importante ma parziale.
Come tutte le nostre storie. Intrecciarle e farle rivivere è il vero compito che ci spetta: scomporle e ricomporle.
Antonio Gnoli per “la Repubblica”, 15 gennaio 2017