Vorrei scriverne come di un decentrato, di un eccentrico, di un maestro della dissidenza e della dissolvenza, militante nell’anticonformismo. Una specie di Emilio Villa, che all’opera pubblica ha preferito quella esoterica, priva dell’esotismo del ‘pubblico’, mediata da plaquette introvabili, da geniale autodidatta che ha sondato ogni aspetto inquieto dell’arte. Nato a Fiorenzuola d’Arda, avido lettore di Leopardi e di Foscolo, ha fatto la Resistenza e fu arrestato un paio di volte dai fascisti, nel 1943 (con lui, una di quelle volte, Ugo La Malfa). Visse in una torre, a Castell’Arquato, finché glielo permisero, fu del PCI, finché scelse la poesia e l’anarchia, lo disturbavano certi reflui stalinisti. “Fu un genio straordinario, c’intendemmo subito”, ricorda di lui Carmelo Bene. S’erano incontrati nel 1962, lui, oltre alla poesia, studiava, con meticolosità nabokoviana, le formiche. “Aveva un formicaio che curava maniacalmente. Sapeva tutto delle formiche e di molte altre cose… Mi sentì un giorno che leggevo Dino Campana. ‘Il più grande poeta italiano’, disse. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco”. Insomma, vorrei limitarmi a un lavoro di recupero bibliografico, per parlare di Aldo Braibanti, recuperando, chessò, Il circo e altri scritti, pubblicato per le fatidiche edizioni Atta nel 1960. Ma non è possibile il gioco culturale sul corpo martoriato di Braibanti. Genio eccentrico, solitario – pure in un tempo in cui gli anticonformisti venivano reclutati, per uffici necessari, nelle aule della cultura che conta – Braibanti subì uno dei processi più infami della storia dello Stato Italiano contro un uomo libero. Unito, a Roma, dal 1962, con Giovanni Sanfratello, un ragazzo di 23 anni, Braibanti fu accusato dal padre di costui di plagio.
Il processo partì nel 1964; nel fatale ’68 a Braibanti vengono dati nove anni, ridotti a sei in appello. Infine, s’è fatto due anni di carcere, vessato da tutti, capro espiatorio buono per ogni parte politica. Sul suo caso scrisse Pier Paolo Pasolini: “La presenza di Braibanti nella letteratura è sempre stata intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze. Ciò che produce Braibanti si «propone», come ogni vera ricerca, non si impone. Non sa proprio cosa vuol dire imporsi. Se c’è un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità”.
Il 17 luglio del 1968, su “Paese Sera”, Elsa Morante scrisse una “Lettera aperta ai giudici di Braibanti”. “Mi rivolgo alle Signorie Vostre dopo aver assistito ad alcune udienze del processo Braibanti, ora concluso. E in proposito scusate se approfitto subito dell’occasione per pregare, di qui, tutti gli Italiani di buona volontà – a esempio quelli che tante volte sono accorsi a manifestare contro la guerra in Vietnam – di recarsi talvolta anche nei nostri tribunali. Conosceranno così quanti Vietnam, nel nostro stesso territorio italiano, aspettano ancora una liberazione”. Nel 1969 Braibanti, per sempre incardinato (incarcerato) in quella condanna, pubblica per Feltrinelli Le prigioni di Stato. Dieci anni prima, per Schwarz, aveva tradotto Il giornale di bordo di Cristoforo Colombo. Tra gabbia e oceano, forse, a partire dalla loro azzurra differenza, possiamo descrivere la vita di Braibanti. Non volle incontrare gli intellettuali ‘di peso’ che lo avevano sostenuto: era stato utile pure a loro. Ora Il caso Braibanti rivive in un docufilm pensato da Massimiliano Palmese, poeta, drammaturgo, scrittore (pure finalista a uno Strega), e realizzato da Palmese con Carmen Giardina.
Qui qualche domanda a Palmese.
Braibanti pare inafferrabile. Quale dei suoi mille aspetti, delle sue molte attese, vi ha colpito di più? Insomma, dove partiamo per capirlo?
Da dove partire è esattamente quello che mi sono chiesto in questi miei dieci anni di studio sulla figura e le vicende di Aldo Braibanti. Ho cominciato con il leggere le sue poesie, le sue interviste, poi i terrificanti atti del processo. Quegli interrogatori sono talmente grotteschi che mi è venuto naturale costruirci su una drammaturgia. Ricordo che il pubblico a teatro, ascoltando quegli scambi surreali, certe testimonianze che sprizzavano un terribile bigottismo, e le feroci e ignobili arringhe dell’accusa, non sapeva se ridere o incazzarsi. Poi per me “il caso Braibanti” ha iniziato a divenire qualcos’altro che un caso giudiziario. Ho cercato più a fondo l’uomo, il poeta, il filosofo, l’academico di nulla academia, e oggi per me il caso Braibanti è un caso politico e poetico. Per conoscere Aldo Braibanti, si può magari partire anche dal nostro documentario. Per il quale Carmen e io abbiamo voluto guardare alla sua infanzia nelle campagne del piacentino assieme al padre medico condotto – un’infanzia tutta improntata alla laicità e all’innamoramento per la natura; alla sua adolescenza già antifascista; e in seguito agli anni della Resistenza a Firenze, della prigionia e delle torture fasciste; poi a quella sofferta e sfortunata relazione con Giovanni Sanfratello, che scatena le ire della famiglia del giovane. Non ammettendo la sua omosessualità, i familiari – in combutta con avvocati, preti e psichiatri – s’inventano l’accusa di plagio. Un reato che più tardi è stato dichiarato anticostituzionale e stralciato dal Codice Penale. Reato che, secondo la comunità scientifica, è del tutto indimostrabile. “Il plagio non esiste”, diceva Braibanti. O è dovunque. In ogni educazione, in ogni rapporto con l’altro. “L’amore stesso è un plagio”.
A un certo punto, pare che il vuoto si apra intorno a Braibanti, tanto che diventa un ‘caso’. Cosa accade? Scrivete che il processo a Braibanti “fu il nostro processo a Oscar Wilde, con un secolo di ritardo”: cosa significa?
Significa che in Inghilterra esisteva il reato di sodomia, in Italia no. In Italia, si ricorreva al manganello. Alla galera, alle torture. Braibanti era già stato incarcerato una volta, da partigiano, durante la guerra. “Sono stato imprigionato la prima volta dai fascisti, la seconda volta dai repubblicani. Chi vuole può notare una certa continuità”. Una verità agghiacciante. Ancora oggi si discute se quello a Braibanti sia stato un processo politico o un processo all’omosessualità. È stato entrambe le cose. È stato uno scandalo di cui, a destra e a sinistra, ci si sente ancora in colpa. Altrimenti su di lui non sarebbe calato questo grande silenzio. Altrimenti oggi Aldo Braibanti sarebbe ricordato con pubblicazioni, mostre, film. Invece il nostro documentario, a cinquant’anni da quel processo, è il primo su di lui e la sua storia.
Che rapporto di prossimità lega Braibanti a Carmelo Bene e a Pasolini?
Protagonisti dell’avanguardia teatrale romana dicono “Braibanti viene prima di tutti noi”. Lo stesso Carmelo Bene afferma che Braibanti gli aveva insegnato a leggere in versi. La loro è stata una collaborazione artistica di cui non è facile recuperare le tracce, se non nei ricordi che hanno rilasciato in qualche intervista. Mentre per quanto riguarda Pasolini, all’epoca del processo, cercando di non esporsi troppo – aveva già i propri guai giudiziari –, mise a disposizione di Marco Pannella dei fondi per sostenere la stampa di Agenzia Radicale. Per fare controinformazione. Per denunciare un processo scandaloso che rischiava di passare sotto silenzio. In seguito, Braibanti disse di non aver voluto incontrare tutti coloro che lo aveva sostenuto, tra cui Pasolini, ma di aver preferito ringraziarli con una lettera pubblica.
Era consapevole, dice anni dopo in un’intervista radio, che coloro che si erano battuti per lui in fondo si battevano per se stessi. Nei fatti quel processo era un’intimidazione destrorsa e violenta a tutti gli intellettuali. Agli artisti. Ai non allineati. Agli anarchici come Braibanti. “Per le mie caratteristiche,” ammetteva Braibanti, “sono stato l’utile idiota per le loro battaglie”. Intendeva dire che colpendo lui – l’anello debole della catena, in quanto anarchico, mite, appartato e senza alcun appoggio politico – si voleva intimorire tutti gli altri. Le destre affilavano le unghie in vista delle successive battaglie controriformistiche (no al divorzio, no all’aborto), nelle quali, dice Braibanti, “fortunatamente, non gli è andata bene”.
Oltre al film: cosa fare per recuperare questa figura, forse, volutamente in enigma?
Di certo tra la ricerca poetica e la ricerca di una funzione, un ruolo, un potere, Braibanti ha scelto sempre e solo la poesia. Dopo il processo si è di nuovo ritirato nell’ombra che, evidentemente, gli era congeniale. Eppure quello che ha fatto, o lasciato detto e scritto, non ha ragione di andare sepolto. Rileggerei e rimetterei in circolazione il suo libro di testi poetici edito da Empiria. Riediterei “Emergenze – Conversazioni con Aldo Braibanti”, ottimo libro di Stefano Raffo che è fuori catalogo. E ci aspettiamo che si velocizzi l’opera di archiviazione del Fondo Braibanti, donato dagli eredi al Comune di Fiorenzuola d’Arda, paese natale di Braibanti. Fondo che consta di 15.000 volumi, di opere artistiche come collage e assemblage, e di lettere, forse anche di testi inediti. Ho letto che quest’anno al Festival di Sant’Arcangelo si è condotto un lavoro tra teatro e cinema ispirato a “Transfert per camera verso Virulentia”, film di Alberto Grifi sul teatro di Braibanti. Il suo nome e il suo lascito, per quanto negletti, non vogliono morire. Carmen e io, nel nostro piccolo, ci impegneremo a far girare il documentario il più possibile. Ci sono storie che vanno sempre ancora raccontate, e ancora e ancora, alle nuove generazioni e ad ogni nuova generazione. Non siamo del tutto fuori pericolo, l’Italia è vivace laboratorio di fascismi, e non vorremmo un altro “caso Braibanti”. (d.b)