I geni sono partiti e sono rimasti i ladri. Sono totalmente pessimista, pensavo che per rinascere bisognasse toccare il fondo, ma ‘sto fondo non arriva mai-Eravamo come all’asilo, ma Berlinguer era amabile, tenero, meraviglioso. Magari oggi ci fosse uno come lui-La recitazione è un gesto creativo. Devi avere la testa, metterci la testa. Inventare. Dimenticare tutto il resto. Un inferno, diciamolo-Mi han sempre sgridata e io non sono una da sgridare.
Ai più non dirà molto il nome di Carla Gravina, attrice nota fra gli anni ’50 e ’60. Efebica, gracile, acqua e sapone, così appariva nel bianco e nero delle prime commmedie all’italiana. Una Giulietta Masina un poco più bella. Molti si innamorarono di lei; stanchi di sognare,inutilmente, le supermaggiorate americane si accontentarono della ragazza della porta accanto. Un grande amore: Gian Maria Volontè, allora attore squattrinato, che poi presterà il suo ghigno ai westerns di Sergio Leone. Una apparizione parlamentare, grazie ad un furbata dei compagni, perchè allora il PCI ci teneva ad essere ecumenico e ad allargare la “Sinistra”. In questa bella intervista a due mani, l’attrice oramai 74 enne, parla di sè e della sua vita, senza grandi rimpianti, con grande sincerità, ammirevole dignità e un poco di autoironia.
In marziale silenzio, la figlia del generale Gravina ha dismesso la divisa: “Per educazione ricevuta, carattere e senso del dovere mi chiamavano l’alpin. Sul palco ho dato tutto. Vivevo per lo spettacolo, non pensavo ad altro, recitavo anche con la febbre a 40 perché a teatro può anche essere morta tua madre un minuto prima, ma in scena devi andare comunque. Poi un giorno, alla fine di una faticosa tournée con un malatissimo Giancarlo Sbragia divorato dal cancro, visto che io non riuscivo a farlo, a reagire e a dire basta fu il mio corpo.
Sentivo il cuore dappertutto. Nella pancia, nelle gambe, nelle caviglie. Il medico spiegò che si trattava di stress post traumatico, che avrei dovuto fare la cura del sonno, che senza medicine non ce l’avrei fatta. Io buttai pasticche, bambino e acqua sporca e mi allontanai dal mio mondo. Prima per un anno, poi per sempre.
Senza annunci pubblici e senza mai avere la tentazione di tornare indietro. Avevo finalmente scoperto che la vita era altro e che avevo bisogno di viaggiare, scoprire culture diverse o godere della libertà di stare sul divano alle sei del pomeriggio leggendo, fumando uno spinello e ignorando il telefono. Ogni tanto mi chiedono un’intervista: rifiuto. Ogni tanto mi invitano a cena: non vado mai”.
Con L’arte di scomparire sul tavolo: “L’ha scritto un filosofo, Pierre Zaoui, sostiene che sparire sia un atto rivoluzionario”, rigore e accenti friulani imbastarditi dai decenni romani: “Ho 74 anni, anche se non si vede sò vecchia e decrepita, c’è poco da fa”, dimenticanze rimediabili: “Stavo bruciando la pizza, meno male che ho ancora l’olfatto” e idee chiare sul futuro: “Non voglio interpretare un cavolo di niente, non ho ansie, non chiedo nulla” Carla Gravina ride spesso e non si annoia mai: “Da sola sto benissimo”. Non rimpiange l’epoca in cui lavorava con Germi, Monicelli, Comencini e Lelouch, vinceva premi e Festival con Blasetti e Scola o imparava copioni sotto lo sguardo di Strehler, Cobelli o Ronconi. “È passata”-dice-“con la stessa casuale rapidità con cui arrivò”.
Il primo a sceglierla, per Guendalina, fu Lattuada nel ’57 .
Venivo dal paesello ed ero appena arrivata a Roma: una timidissima capra che non aveva mai visto un ascensore in vita sua e quando era costretta a prenderlo, urlava. Finiti gli esami di scuola media, mi ero fermata con un’amica a parlare in via D’Azeglio: “Dai Carla, aspettami, fammi compagnia, devo conoscere un ragazzino che mi piace”, “Non posso, fammi correre a casa altrimenti mio padre mi rimprovera”. Passò un minuto e ci venne incontro una macchina.
Era Lattuada?
Scese dall’auto, si presentò, dava del lei: “cerco una ragazzina per un film, mi piacerebbe sottoporla a un provino”. Arrossii, balbettai, al cinema ero stata forse due volte in tutto: “Non lo so, non so, se vuole parli con mio padre”. Scrissi un numero di telefono su un foglio e me ne andai. A casa non dissi niente, ma Lattuada chiamò. Ascoltai la telefonata. Lo stupore del mio vecchio, un militare rigidissimo: “Un provino a mia figlia?”.
Disse di no?
Sapeva chi fosse Lattuada e incredibilmente, disse di sì. Il provino andò bene. Fui convincente, ma per il ruolo che immaginava Alberto ero inadatta. Dovevo essere maliziosa, ma seduzione e sessualità non sapevo neanche cosa fossero. Presi l’esperienza come un gioco, tornai a scuola, poi mi chiamò Blasetti, il mio vero maestro, il regista a cui devo tutto. Aveva visto il film di Lattuada. Mi scelse per Amore e chiacchiere dandomi il ruolo della figlia di uno spazzino che si innamora di un ragazzo ricco.
I soldi a casa erano un problema?
Che guadagnassi con il cinema, non indignava. Ero stata iscritta a Economia domestica, perché questo dovevo diventare, una maestrina. Con mio padre il rapporto era tosto. La proposta di Blasetti lo mandò in crisi. Dovette consigliarsi, arrovellarsi, convincersi che la figlia che svalutava quotidianamente a colpi di “non sai fare niente” senza insegnarle nulla, qualcosa per magia, con una disinvoltura incredibile, davanti alla cinepresa o sul palco sapesse fare.
Suo padre non aveva fiducia in lei?
La sfiducia è pesata. Con la timidezza patologica che vi raccontavo, avrei avuto bisogno di qualcuno che mi sostenesse e invece, anni dopo mi accorgo di aver fatto tutto da sola. Se parlandone mi devo aiutare con un goccetto di vino, significa che le tante mazzate metaforiche che ho preso da mio padre qualcosa hanno significato.
Con Blasetti vinse come miglior attrice a Locarno nel ’58 e poco dopo arrivò nella sua vita Gian Maria Volonté.
Se mi guardo indietro, mi accorgo che il periodo dai 14 ai 18 è stato il più felice della mia vita. Poi è arrivato il ‘mostro’. Mortacci sua.
Il mostro è Volonté?
Siamo stati insieme per 8 anni. Abbiamo messo al mondo Giovanna, nostra figlia. L’ho amato e lo amo ancora. Ogni tanto lo sogno. Lo amavo pazzamente anche quando l’ho mandato affanculo, perché sia chiaro, a mandarlo affanculo sono stata io. Non ce la facevo più. Pensavo di salvarmi. Gian Maria raccontava un sacco di balle. Anche se l’ho scoperto tardi, mi tradiva fin da quando ero incinta. Si riempiva la bocca con la necessaria verità della coppia libera. “Dobbiamo dirci tutto” gridava, però al dunque, quando gli parlavo delle sue amanti, negava. Per anni ho cercato di non vedere. Di non sapere. Intuivo, ma stavo troppo male. Ho dovuto allontanarmi dal rumore per capire. Star ferma per leggere quel che mi era successo. C’è voluto tempo.
Come vi eravate conosciuti?
Ci fece incontrare un altro ‘mostro, Franco Enriquez, all’epoca in cui Gian Maria era quasi sconosciuto. Enriquez voleva convincermi a interpretare Giulietta e Romeo in teatro. Io avevo un contratto settennale con De Laurentiis. Ero sua. Dino voleva che diventassi un’attrice internazionale. Mi aveva mandato a studiare inglese a Londra. Senza consultarmi con lui non avrei potuto muovere un passo. Sapevo che Shakespeare era un affare complicato e così gli chiesi un parere. De Laurentiis mi sconsigliò di accettare: “Il teatro sminuisce il tuo valore”. Non gli diedi retta e la mia vita si ribaltò per sempre.
Di Volonté si innamorò subito?
Perdutamente. Venti giorni di camminate notturne per Verona e finalmente, una sera, il bacio. Molto tempo dopo, Gian Maria mi rinfacciò la mia reazione: “Sai cosa mi hai detto subito dopo avermi baciato?” mi rimproverava. “Allora è tutto qui?” così mi hai detto.
C’è stata passione?
Per la passione vomitavo. È stata una passione straordinaria.
Volonté era sposato. Vostra figlia Giovanna, avuta fuori dal matrimonio, creò scandalo.
Sono stata condannata senza processo. Un ostracismo allucinante senza neanche la scappatoia di una Mina che- beata lei-almeno un disco poteva inciderlo. De Laurentiis, senza preavviso, mi stracciò unilateralmente il contratto. La tv mi bandì per anni. I ‘compagni’ del cinema evaporarono. C’erano la chiesa, la Democrazia Cristiana, l’Italia bigotta di 50 anni fa. Ed erano realtà severe.
Non le piacevano?
Perdere la verginità con un uomo sposato, a quei tempi, equivaleva a un lutto. Io cantai per la felicità. Ho sempre pensato con la mia testa. L’ora di religione la marinavo regolarmente. I preti mi stavano antipatici, per me raccontavano delle balle.
Com’era il Volonté non ancora noto?
Un nullatenente di talento che di certo non poteva mantenere la famiglia. Lo portavo al ristorante con gli amici, pesava tutto sulle mie spalle. Ero felice, ma del maschio non sapevo niente. Nessuno mi aveva avvertito. Nessuno mi aveva detto niente in proposito. Ero stata mollata lì, come una cogliona, a 18 anni, nelle mani di un uomo complesso.
Insieme avete lavorato spesso.
Un aiuto vero non me l’ha mai dato. Volevo togliermi di dosso l’aura di attrice seria e politicamente impegnata e cercavo disperatamente alternative ai soliti ruoli, così una volta-era diventato più celebre di me- gli chiesi supporto per poter cambiare personaggio su un set: “Parla con il regista, convincilo”. Nicchiava. Svicolava. Poi scoprii che aveva già fatto avere la parte alla sua amante. Gian Maria me ne ha fatte di tutti i colori.
È stato un grande attore.
Enorme. Sere fa ho rivisto Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e mi sono ritrovata da sola in casa ad applaudire. Però la donna devi rispettarla e non sempre Gian Maria ha saputo farlo. Dopo la separazione, come molti altri uomini, me l’ha fatta pagare: “Mi lasci? E allora tua figlia te la mantieni da sola”. Avevo 500.000 mila lire ed ero senza casa, ma non sono mai andata da un avvocato perché non volevo mettere in mezzo Giovanna. Per 10 anni non ci siamo parlati. Poi è andata progressivamente meglio. Quando ho compiuto 40 anni mi ha fatto questo regalo. Falce, martello e Volontè.
Profetico. Lei con Il Pci, all’inizio degli anni ’80, è stata anche in Parlamento.
Fu un incidente. Stavo recitando ne La locandiera a Venezia e vennero a chiedermi di candidarmi alcuni compagni in delegazione: “Che c’entro io? Non ce la potrò mai fare”. Insistettero. Mi presentai in un precario collegio milanese e presi,
nell’incredulità generale, una barca di voti. Mi ritrovai a Montecitorio. Una brava scolaretta nella squadra dei peones. Di parlare in pubblico ho sempre avuto il terrore, così osservavo. Antropologicamente, il mio preferito era Craxi. I gesti lenti. La camminata del padrone. La stessa di Renzi. Mi diverto a dare i soprannomi. Renzi mi stimola. “Palloncino rosa”, “tanto rumore per nulla” e un altro paio che non mi ricordo.
Del rumore di Montecitorio che memorie ha?
Il suono della cazziata di un capogruppo romano, simpaticissimo, ma furibondo perché sulla caccia avevo votato in difformità alle indicazioni del partito: “Se stai qui con noi, fai come diciamo noi”. Eravamo come all’asilo, ma Berlinguer era amabile, tenero, meraviglioso. Magari oggi ci fosse uno come lui.
Lavorò con Pietro Germi, regista non sospettabile di simpatie comuniste.
Mi scelse per Alfredo Alfredo, permettendomi di accendere l’interesse del cinema francese. È stato importante, Germi. Ci amavamo. Pensate che all’inizio, ai tempi del nostro primo incontro, ci eravamo insultati. All’epoca Germi era anche produttore e con altri attori avevamo indetto uno sciopero proprio sotto le finestre del suo ufficio. Quando impedimmo a un’attrice di salire da lui, Germi iniziò a urlare dalla finestra: “Vi denuncio, chiamo la polizia”. Quando ci rivedemmo me lo ricordò: “Organizzi sempre sovversioni con i tuoi amici?”.
Si è mai pentita di qualche rinuncia?
Mi ha fregato la paura. Ho rinunciato a due film enormi. Louis Malle mi voleva ad ogni costo per Soffio al cuore. Mi avrebbe voluto consegnare la parte toccata a Lea Massari. Venne a parlarmi, sperò e poi rinunciò. L’ho incontrai tempo dopo a Berlino, non mi salutò neanche.
Il secondo film?
Mi superai con Buñuel. Recitare per lui era il sogno della mia vita. Non lo sapevo, ma dopo aver cercato invano Monica Vitti per interpretare madame Foucauld ne Il fantasma della libertà, il maestro aveva rinunciato a Mariangela Melato pochi giorni dopo il suo arrivo sul set. Mi presentai alla prova con i capelli corti e dal fondo della sala, il primo giorno, si sentì la voce del regista: “Ma è un ragazzino?”. Tornai in albergo, il giorno dopo avrei dovuto girare. Venni presa da un’angoscia profondissima e scappai. Con il mio agente Buñuel fu serafico: “Se riesce a convincere Monica Vitti a fare il film, dimentico questo episodio. Altrimenti la rovino”. Andai a Roma, mi gettai ai piedi di Monica e lei, ancora non smetto di ringraziarla, accettò. Furono due rifiuti complicati i miei. Visti oggi, anni dopo l’addio alle scene, li guardo in altro modo e li metto in relazione con le nevrosi accumulate e la necessità di cercare la vita oltre il palco. Se non ce la fai ad affrontare una cosa, violentarti è dannoso. La recitazione è un gesto creativo. Devi avere la testa, metterci la testa. Inventare. Dimenticare tutto il resto. Un inferno, diciamolo.
La molla dell’addio definitivo alle scene, ci ha detto, scattò dopo lo spettacolo con Sbragia.
Giancarlo era malato. Lo sapevano tutti. Voleva fare il suo ultimo spettacolo, ma non gli dava retta nessuno. Nel mio vecchio microcosmo dominava il cinismo. “Se muore durante la tournée” pensavano gli attori “perdiamo mesi di lavoro”. Sbragia era legato alla mia storia, alla mia etica e così dissi di sì. Fu straziante. Sbragia aveva spesso un sostituto. Scontai duramente il debito affettivo e decisi di dire basta per sempre.
Non recita da molti anni.
Potrei tornare al cinema solo se mi offrissero il ruolo di una magnifica, perfida vecchia. E poi diciamolo, andarsene di propria sponte è stato liberatorio. Mi han sempre cacciato gli altri, a me. Fin dal Musichiere di Mario Riva, dove ero arrivata in ritardo. Mi han sempre sgridata e io non sono una da sgridare.
Adesso non può sgridarla più nessuno.
È meraviglioso. Un lusso che non avete idea.
Viaggia molto.
Mi dispero perché in luoghi come Yemen e Siria, posti in cui sono stata, avanza la distruzione e non si può più andare. Non sono mai partita con la pretesa di capire un popolo in un mese, ma con la voglia di annusare, la curiosità, il divertimento di capire chi c’era oltre la siepe.
In Italia chi c’è?
I geni sono partiti e sono rimasti i ladri. Sono totalmente pessimista, pensavo che per rinascere bisognasse toccare il fondo, ma ‘sto fondo non arriva mai. C’è rassegnazione e tanta brutta gente che qualcuno, votando male, nei decenni ha messo al comando di una barca alla deriva. Ogni tanto vedo un lampetto di intelligenza, ma il lampetto poi si spegne. Che delusione, gli italiani, porca puttana.
Malcom Pagani e Fabrizio Corallo per Il Fatto