Nel vivere e trasformarsi, Parigi ha avuto in passato, su molti artisti e intellettuali che vi hanno vissuto, il potere magico di trasformarli, restituendo loro gli slanci perduti della giovinezza. Per parecchi si è trattato anche di uscire del gretto provincialismo, dal cerchio di un’aridità morale soffocante, per spingersi verso qualcosa di nobile. E’ il caso di Ernest Hemingway.
Oramai anziano, riordinando alcune carte trovate per caso in un baule dimenticato all’hotel Ritz, Hemingway sente la voglia di raccontare i suoi anni a Parigi all’inizio del ‘900. Ma è oramai fuori tempo massimo. Nonostante il realismo eroico, in Festa mobile, lo scrittore americano scade in alcune sdolcinature romantiche, che trovano la loro sintesi nella rapinosa chiusa del libro: “Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici”.
Il libro è privo di poesia e quando prende ad evocare i sentimenti scade in un ironico, efficace, ma freddo resoconto. Ha scritto Piero Citati:” nei ricordi della sua stagione felice, lo scrittore cercò le ragioni della sua decadenza”.
Al centro di Festa mobile, fra le tante figure di artisti e intellettuali, spicca Gertrude Stein, nume tutelare degli scrittori di lingua inglese (e non solo) del 1902 in poi, anno in cui apre con la sua amante il suo salotto al 27 di rue de Fleures. Su Geltrude e il suo ruolo, Hemingway è oscillante fra l’acritica ricerca di appoggi e un legame di più sincera e solida amicizia.
A proposito di Parigi, Hemingway confessa l’attrazione verso la città: ” Si finiva sempre per tornarci a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata… Però ne valeva sempre la pena e qualunque dono tu le portassi ne ricevevi qualcosa in cambio”.
E’ vero, Parigi riesce sempre in questa corrisposta magia, purché si sia disposti ad una vera e propria caccia al tesoro, dove il tesoro è il tempo e il nascondoglio il passato. Parlare di tempo e di passato ci porta difilato in braccia a Marcel Proust, forse lo scrittore che più ha indagato il rapporto fra bellezza, conoscenza e verità.
Per capire Parigi dobbiamo essere pronti a subire una profonda metamorfosi, che accordi il nostro animo, quale “strumento” percettivo ed emozionale, con la storia, il tempo e la memoria; dobbiamo cioè percepire quelle che Proust chiamava le “intermittenze del cuore”. Per fare questo non è necessario essere personaggi alla maniera della Comédie Humaine di Balzac, come il giovane Eugène de Rastignac, che sfida Parigi dicendo: “Parigi, a noi due!”
E’ sufficiente aprire i sensi alle tante sensazioni che Parigi ci comunica, essere disposti a far parte del mistero che la città conserva. Come un persona, Parigi ha una personalità che appare e dispare, un suo ego sottoposto a infinite e misteriose metamorfosi. Il gioco è quello di montare e smontare la realtà intorno a noi, percependola sempre come provvisoria, molteplice, instabile.
Accettare questa dimensione inconscia e quanto di essa risulta inesplorabile, trasforma Parigi ai nostri occhi nella città dove esercitare una continua Recherche. Il nostro tempo perduto potrà confondersi con quello di Parigi e farne parte, diventando, come per Proust, la via verso la sua conoscenza,la via per trovare noi stessi.
Cartoline da Parigi/1 (qui)