Succulenti con salsicce, cotiche e costolette, i cavoli ben si sposano anche con eriche, ciclamini e viole del pensiero. No, non vi sto proponendo per il cenone di Capodanno una rivisitazione con fiori eduli della cassoeula milanese. Ma è innegabile la fortuna del momento di questo ortaggio, povero quanto gustoso, versatile quanto vituperato, che dal piatto s’è allargato al centrotavola, dopo aver conquistato giardini e aiuole cittadine.
Vuoi mettere come è più fine, nonché specialistico, dire brassica invece che cavolo! Visto poi che il termine non gode di buon uso: sia come eufemismo di un più triviale e assonante intercalare («son cavoli amari», «cavoli miei», ecc.) sia come allusione allo scarso valore o alla nessuna importanza («non capisci, non vali un cavolo»). Per non parlare di proverbi e modi di dire, dove per lo più compare in situazioni non lusinghiere: si dice infatti «salvare capra e cavoli» per barcamenarsi, «starci come i cavoli a merenda» per inadeguato, inopportuno, «portare il cavolo in mano e il cappone sotto» per mostrarsi diversi da quel che si è e, con un che di spregio, «andare ad ingrassar cavoli» per morire.
Forse, solo il detto secondo cui «i bambini nascono sotto i cavoli» rivendica loro un ruolo felicitante. L’origine sembra risalire alle contadine dell’Europa centro-orientale, chiamate levatrici perché ruotando con entrambe le mani la “testa” la staccavano dal fusto (lat. caulis, da cui cavolo), come se con quel gesto recidessero il cordone ombelicale che li teneva legati alla terra. Per altro, circa nove sono i mesi del ciclo dalla semina alla raccolta, e note sono le loro proprietà salutifere: sono ricchi di vitamina C (più degli agrumi) oltre che di potassio calcio e ferro, perciò alimento eccellente per affrontare i malanni invernali e, come si sa, sono persino efficaci nella prevenzione di alcuni tipi di tumore.
Cattiva fama vien loro anche dallo sgradevole odore che emanano in cottura dovuto allo zolfo contenuto nelle fibre. Cibo umile, il cavolo: costa poco e sazia, come le patate ha sfamato generazioni di diseredati. Non c’è scrittore che per rendere al meglio quartieri popolari o degradati non ci metta anche un cavolo o ne evochi il sentore. E non parlo solo dei romanzi russi dove si incontrano minestre di rape e cavoli ad ogni passo. Questo è l’esordio di 1984 in cui George Orwell descrive il condominio londinese in cui, al settimo piano, abita il protagonista:
Era una luminosa e fredda giornata d’aprile e gli orologi battevano tredici colpi. Winston Smith, tentando di evitare le terribili raffiche di vento col mento affondato nel petto, scivolò in fretta dietro le porte di vetro degli Appartamenti della Vittoria: non così in fretta, tuttavia, da impedire che una folata di polvere sabbiosa entrasse con lui. L’ingresso emanava un lezzo di cavolo bollito e di vecchi e logori stoini.
E va da sé che l’ascensore non funzioni e in cucina non ci sia altro che un pezzo di pane nero. Dal futuro orwelliano per certi versi realizzato, veniamo alla Roma ottocentesca di Stendhal, che eterna, almeno quanto a immondizia, si direbbe per davvero:
Regna per le strade di Roma un tanfo di cavoli marci. Attraverso le belle finestre dei palazzi del Corso si scorge la povertà degli interni. Roma è in realtà un agglomerato di sublimi rovine e case moderne, sarebbe stato meglio se non fosse sopravvissuta alla fine dell’età antica. (Roma, Napoli e Firenze, 1817)
Ma ecco che i cavoli tanto bistrattati si pigliano la rivincita, e da New York a Pechino spopolano – è il caso di dire – nelle aiuole e nei parchi urbani. Rustici, non temono temperature rigide, durano a lungo, hanno colori e venature attraenti – glauchi viola crema – foglie ricce o bullate, tonde o frastagliate. Benché somiglino a fiori, sono infatti le foglie a formare la rosetta decorativa. Quelli, giallini e raccolti in racemi, sorgono poi dal centro del cuore delle foglie ormai esausto: allora potreste lasciarli andare a frutto per raccogliere dalle sottili silique i semi, da interrare a primavera, e con le nuove piantine rinnovare le aiuole o i vasi dell’anno successivo. Rispetto ai cavoli coltivati a scopi alimentari i decorativi sono varietà acefale perché non formano la “testa” tipica dei cavoli cappucci o delle verza ma, come per quelli, troverete molte varietà di forme e colori diversi. Chi non ama l’eccesso di rigore geometrico di aiuole monotematiche, si affidi a mix varietali con individui dalle foglie profondamente incise o dal ciuffo slanciato come quello del cavolo nero, oppure scelga abbinamenti con più scompigliate eriche e callune.
Comunque, gastronomici o non, i cavoli come tutte le verdure hanno pregi estetici che vanno promossi. Come non condividere l’entusiasmo di Claude Lantier, il pittore incontrato per caso da Florent, il protagonista del Ventre di Parigi (1873), terzo libro del ciclo dei Rougon-Maquart di Émile Zola. Siamo all’inizio della vicenda, l’alba si alza sui mercati generali delle Halles, il ventre di Parigi appunto, co-protagonista d’eccezione:
Claude, in un impeto d’entusiasmo, era salito sulla panchina, costringendo il compagno ad ammirare il sole che sorgeva sulle verdure. Era un mare. Un mare che si stendeva dalla pointe Saint-Eustache a rue des Halles, tra due gruppi di padiglioni. E alle estremità, oltre i due incroci, il flusso aumentava ancora, gli ortaggi sommergevano il selciato. Il sole si levava lentamente, con una luce grigia dolcissima, stemperando ogni cosa in una tinta chiara d’acquarello. Quei cumuli spumeggianti come cavalloni, un fiume verdeggiante che pareva scorrere nel fondo della strada, simile al disgelo delle piogge d’autunno, assumevano sfumature lievi e perlate, morbidi violetti, rosa tinteggiati di latte, verdi affogati nel giallo, quei pallori che trasformano il cielo, al levare del sole, in seta cangiante; e man mano che l’incendio del mattino infuriava con vampate di fuoco, in fondo a rue Rambuteau, la verdura si ravvivava sempre più, affiorando dal lividume che lambiva ancora la terra. Le insalate, le lattughe, le scarole, le cicorie, schiuse e grasse di terriccio, esibivano il loro cuore sgargiante; i fasci di spinaci, di acetosella, di carciofi, i gran mucchi di fagioli e piselli, le pile di lattughe romane legate con un filo di paglia, intonavano tutta una gamma di verdi, dallo smalto dei baccelli, al verdone delle foglie; una gamma vivace che poi andava smorzandosi fino alle screziature dei gambi di sedano e dei mazzi di porri. Ma le note più acute, quelle che si innalzavano più in alto, erano pur sempre le macchie intense delle carote o quelle diafane delle rape, disseminate in quantità strabiliante lungo il mercato, colorandolo con quel miscuglio. All’incrocio di rue des Halles, i cavoli formavano delle montagne; gli enormi cavoli bianchi, chiusi e duri come palle di metallo; le verza, le cui grandi foglie somigliavano a coppe di bronzo; i cavoli rossi, che l’alba cangiava in splendidi fiori d’un viola profondo con venature di carminio e vermiglio. All’altra estremità, all’incrocio con la pointe Saint-Eustache, l’inizio di rue Rambuteau era sbarrato da una barricata di zucche arancioni che serrate in due ranghi sporgevano le pance. E la patina bruno-dorata d’un paniere di cipolle, il rosso sanguigno di un mucchio di pomodori, il giallo sbiadito d’un sacco di cetrioli, il viola scuro di un grappolo di melanzane, s’accendevano qua e là; mentre grossi rafani neri, sistemati come losanghe luttuose, sprigionavano ancora qualche squarcio di tenebra in mezzo all’allegria vibrante del risveglio. Claude batteva le mani di fronte a quello spettacolo. Quelle «dannate verdure» gli sembravano stravaganti, folli, sublimi. E sosteneva che non fossero affatto morte, ma che, strappate alla terra il giorno prima, aspettassero il sole dell’indomani per dirgli addio sul selciato delle Halles. Le vedeva vivere, come se avessero ancora le radici ben salde e riscaldate dal concime. Diceva di udirci il rantolo di tutti gli orti della campagna circostante.
D’altronde, chi non si ferma ammirato davanti ai banchi degli ortolani? Qui la bellezza, la varietà di colori, forme e profumi non patisce confronto con le vetrine dei fiorai. Tant’è che frutta e verdura figurano con i fiori di serra nei bouquet natalizi: piccoli ananas e kumquat con orchidee; protee con carciofi e zucche mignon, non senza qualche sbuffo di erbe aromatiche.
Complice il trend ambientalista, da tempo anche il mercato florovivaistico ha scoperto quest’ambito d’espansione; le più rinomate fiere del settore e i garden centers propongono nuove sementi e piantine dal doppio impiego, ornamentale e gastronomico. Nulla di nuovo: si torna a un’idea di orto-giardino com’era d’uso ai tempi dei nostri nonni e bisnonni, quando vigeva un’economia integrata. Ma il fenomeno ora prevede applicazioni à la page: gli architetti del verde progettano parterres di siepi di bosso bordeggianti commestibili consociazioni di fiori e verdure, con rotazione stagionale di varietà e colori per una gioia multisensoriale. Il modello è il Castello di Villandry, nella valle della Loira, dove il potager non è meno d’effetto degli altri settori dei vasti giardini, e tra gli ortaggi coltivati con raffinato gusto estetico spiccano le geometriche file di glauche brassicacee.
E non avete negli occhi la meraviglia primaverile dei campi giallo limone coltivati a colza? La si usa come foraggio, come combustibile e come olio alimentare. Ebbene, sempre di cavolo si tratta (Brassica napus). Così, giusto per tornare alla tavola del capodanno, anche la senape con cui accompagniamo crauti e lessi è una brassica (Brassica nigra o alba).
Insomma, i cavoli sono preziosi cotti e crudi – lo sapeva bene Catone il Censore che ne tesseva l’elogio – e riempiono i vuoti: degli stomaci e dei giardini d’inverno.
Articolo di Angela Borghesi per Doppiozero http://www.doppiozero.com
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