Vent’anni dopo l’11 settembre. Al posto della rabbia e dell’orgoglio abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle
Pubblico questo articolo apparso sul Foglio Quotidiano a firma di Giuliano Ferrara. I toni sono pessimistici, ma forse è solamente il realismo politico di una mente lucida ma inquieta, come spesso sono quelle dei vecchi. Il taglio del pezzo è insolitamente scabro, il linguaggio essenziale, i toni bruschi e sentenziosi, l’analisi su avvenimenti e anni fin troppo ampia per essere un ordinato mosaico. Cosa intenda Ferrara per ordine imperiale fondato sulla tecnologia non si sa. Ma il quadro che ne esce è suggestivo e inquietante. Quando Ferrara parla del mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza sembra di sentire la voce di Galimberti e il suo mantra circa il tramonto dell’Occidente. Comunque sia, nessuno dei due avrà il tempo per vederlo, ma conviene riflettere sulle convulse vicende aperte dopo quel tragico settembre del 2001.
Questi vent’anni dall’ 11 settembre sono tra i peggiori vissuti dall’occidente, un viatico disperante al XXI secolo. Il Novecento fu tremendo, ma procedette infine e si concluse con la liberazione dai totalitarismi tutti in una gigantesca ondata di speranza. Ora il panorama è livido.
Le bande jihadiste passano da Guantánamo al governo di Kabul dopo un’epopea vittoriosa, nel disdoro senza onore dei vinti. Le donne sono escluse dallo sport e segregate nell’istruzione, sepolte nella sharia. Se manifestano, sono frustate da teologi barbuti. I giornalisti d’opposizione battuti e torturati. Centoventimila persone in fretta e furia sono state sottratte alla vendetta dei virtuisti coranici, ma ce ne sono molte di più destinate a subirla. La ripresa del terrorismo internazionale è nell’incubatrice, dopo lo spettacolo di apertura all’aeroporto della capitale afghana. Negoziare con la barbarie è la nuova necessità per chi le ha aperto le porte abbandonando il campo e una generazione di amici.
La Cina in questi vent’anni ha fatto passi da gigante sulla strada del comunismo capitalista autoritario ed espansionista. A Hong Kong vanno in pezzi anche le reliquie di una lunga storia di democrazia postcoloniale, un paese due sistemi. Taiwan, e sono quasi cento milioni di abitanti, è sotto pressante minaccia. L’africa è largamente penetrata e irretita in un circuito cinese. L’intero arco del medio oriente allargato è in sfacelo, restano in piedi Israele e i suoi nemici giurati nucleari, oltre che le rovine della Siria, del Libano dei curdi mollati dopo la effimera campagna contro lo Stato islamico. Nel Mediterraneo fu breve e stolta guerra, quella sì, niente illusione di nation building, ora la Libia è mezza occupata da turchi e russi che si dividono le alleanze tribali del dopo Gheddafi. L’iran prenucleare alimenta le divisioni dell’occidente e intimidisce con il suo modello di Repubblica islamica matrice di terrore. Sauditi ed Emirati sono quello che sono sempre stati, alleati opportunisti di necessità e d’affari che covano in seno la serpe wahabita.
La Nato è diventata un’organizzazione buona per il coordinamento umanitario della fuga, e la Francia dichiara l’encefalogramma piatto di un pilastro dell’occidente alla mercé delle ambizioni di Erdogan e delle manipolazioni russe, tra veleni e ideologie neoautoritarie. La Crimea è di Putin. L’ucraina geme divisa e contesa, sbeffeggiata dal capo dei nuovi oligarchi e virtualmente abbandonata a sé stessa. Un pezzo d’europa è nelle mani di ideologie e pratiche dette democrature o democrazie illiberali. L’ubriacatura populista e il suo miglior amico, il mondo politicamente corretto, hanno fatto dell’america una esausta vittima illustre, passata da un demente golpista a un bravo tipo che si specializza nella rinuncia e nel piede di casa, con una torsione di sistema che ha annullato le grandi tradizioni dei repubblicani alla Reagan e dei democratici alla Truman, pezzi di una storia mai così lontana, dileguatasi negli ultimi due decenni.
Dopo il più grande attentato della storia dell’umanità, dopo la sfida orante e crudele contro il cuore dell’occidente e del suo modo di vita, al posto della rabbia e dell’orgoglio, al posto della costruzione di un nuovo ordine imperiale e di un primato democratico fondato su tecnologia, armi e denaro, abbiamo scelto di avvilupparci in cumuli di retorica imbelle sui diritti umani, litigando su qualche decina di migliaia di straccioni in viaggio verso il miraggio e facendo funerali ideali ai morti in mare. Pare che la democrazia non si possa esportare, ma tutto il resto è aperto all’importazione. Intanto smantelliamo le statue di Colombo e facciamo editing grottesco alla cultura di secoli, in nome del senso di colpa dell’occidente, e celebriamo, è la parola giusta, il processo agli assassini di Parigi e del Bataclan, aspettando il momento in cui avremo vergogna anche dello stato di diritto, eredità della filosofia bianca dei Lumi. Questo è lo stato delle cose nel mondo libero prosciugato dalla sua abbondanza. Chi vede altro, lo mostri.