Breve parentesi in Basso Polesine, sul mare di laguna su cui si affaccia Boccasette, spiaggia in cui, come un miraggio, in un giorno invernale di parecchi anni fa mi apparve lo spettacolo della neve sulla battigia, galleggiante sulle onde salmastre come una candida spuma di sapone. Me lo ricorda Mario, il mio capitano Achab, che anziché seguitare balene, ama perdersi fra gli scanni, spiaggiare con le maree dimenticate, carezzare con lo sguardo le canne ondeggianti, cogliere il guizzo che apre nell’acqua cupa il dorso di un pesce. Ha i capelli bianchi, ancora folti, che gli spiovono a frangetta su una fronte bassa, due occhi infossati e un viso massiccio, volitivo e spesso, come sagomato dalla mano ruvida del vento. Parla con toni baritonali con calate a falsetto e una vena dolce ed ironica che contrasta col suo aspetto ispido.
Francesca gli sta accanto, piccola, si muove con la cautela dei miopi, esprimendo, piu’ che con le parole col sorriso il suo animo arrendevole e affettuoso. Siamo sotto una grande tenda, il riso con vongole e telline, leggermente aromatico viene accompagnato da uno spumantino fresco del trevigiano. Osservo che profuma di mela verde, cosa che colpisce Mario, quasi a dirmi che lui, di palato grosso, da solo non ci sarebbe mai arrivato. Fra un boccone e l’altro, Mario inizia, con la voce del fine dicitore, il suo repertorio di aneddoti che nel finale si rivelano barzellette, ironie feroci, paradossi morbosi. Luciano, che prende 5 pastiglie al giorno per combattere una sfilza impressionante di malattie, sorride rilassato a fianco della Grazia, forchetta di grande sfoggio, moglie impettita e inflessibile, che nemmeno le carezze riescono ad addolcire, solamente il pensiero delle figlie o di quel marito un po’ matto, instancabile ed irrequieto, ma che a saputo darle tanta semplice felicità, spingendola per scanni e balere, argini e lagune. Dopo pranzo un lenta passeggiata sulla spiaggia, da un lato si scorge l’isola di Albarella, dall’altro l’estrema propaggine del Po di Goro, oramai in terra ferrarese. Qualche giovane ardito fa l’ultimo bagno, gabbiani sfrecciano nel cielo portati dal vento, passano dei cani che si avventano contro le onde, fra nuvole di spruzzi.
Camminiamo fra i resti semi sepolti che la marea o i nubifragi hanno depositato sulla spiaggia: tronchi, corde e grovigli di reti, gusci vuoti di molluschi o di telline, la plastica immarcescibile che non è finita nella pancia di un pesce. Al ritorno, sul molo, la foto di rito. Guardiamo all’orizzonte il lungo fumaiolo della centrale elettrica di Polesine Camerini, oramai dismessa che, dopo avere inquinato il paradiso in cui siamo, sta per essere demolita. Il sole arrossa l’orizzonte e le ombre della sera incupiscono le macchie. Prima della Romea, un salto in un piccola riserva, dove, in mezzo a risorgive e nugoli di zanzare, vive Gianni, il fratello di Mario, in una roulotte mezzo sfasciata, fra galline, qualche coniglio e un po’ di orto stentato. Somiglia a un attore americano oramai imbolsito, con i languori dell’alcolista. Il disordine gli si legge sul viso. Quest’uomo si arreso da un pezzo all’obesità, alla solitudine e mastica amari rimpianti per oscuri fatti lontani mentre cerca febbrile una sigaretta. Cogliendo la direzione del mio sguardo mi dice: “Le galline dormono sugli alberi per via dei topi”, mentre dal camper a tutto volume Eros Ramazzotti ci avvolge in uno stordimento sonoro. Tutti ci chiediamo, a testa in su’, come fanno le galline a stare lassù dormendo. Ma qui siamo nel paese del Bigatto e ci si può aspettare di tutto. Anche topi più grandi di galline, o pesci siluro come balenotteri.