AVEVO VENT’ANNI– NELLA STORIA DI UN COLLETTIVO STUDENTESCO LE ASPETTATIVE E I SOGNI DELLA GENERAZIONE CHE HA VISTO LA FINE DEL COMUNISMO E COLTIVATA L’UTOPIA DEI FIORI AL POSTO DEI CANNONI.
Mi è capitato fra le mani un libretto edito nel 2007 da Feltrinelli. E’ intitolato Avevo vent’anni e raccoglie le testimonianze di un collettivo studentesco dell’università di Bologna, facoltà di giurisprudenza, cui lo stesso autore Enrico Franceschini ha fatto parte nel 1977.
Come si legge nella copertina è “un viaggio a ritroso nel passato che va dalle Alpi alla Sicilia, per ritrovare i vecchi compagni degli anni della università, per confrontarsi sulle passioni, i sogni, le speranze della giovinezza, per scoprire cosa ne è rimasto, trent’anni dopo.”
Fra tutte le testimonianze mi ha colpito quella di Paola, figlia unica di un avvocato catanzarese, “tirata su come un uomo”, sposata due volte e due volte separata, senza figli. Ne riporto le parti salienti.
Perché Bologna?
“Scelsi Bologna perché aveva fama di buona facoltà, e di città per bene, civile, tranquilla, la sentivo più adeguata a me. E non rimasi delusa, perché Bologna è innanzitutto una città medioevale, forse bisogna venirci a stare da fuori per accorgersene, ha delle mura, delle porte, dei colori, che a Miano (dove aveva frequentato filosofia, ndr) non esistono e che nell’edilizia selvaggia della mia Calabria non si possono nemmeno lontanamente immaginare.
Il senso di armonia che provavo camminando per Bologna era di per sé una sensazione meravigliosa. E dire che oggi la trovo infrequentabile, sono tornata una volta in piazza Verdi e istintivamente mi sono stretta la borsa al petto, e dire che io sono una che non ha paura del diverso, ma avverto l’impossibilità di comunicare con quella gente lì. Bologna è una città normalizzata, mi è totalmente estranea. Sarò cambiata io, o è cambiata lei? O lo siamo entrambe?”
Fra femminismo e lotta armata
“Nel mio gruppo di donne, a Bologna, a nessuna veniva in mente di passare all’Autonomia operaia, o tanto meno alla lotta armata, perché ci divertivamo troppo a fare i girotondi ai cortei o in piazza Verdi, fra un’assemblea, una riunione del collettivo femminista e una lezione. Non c’erano limiti alle nostre possibilità-ecco perché quegli anni mi piacquero così tanto. Era la fine della speranza nel futuro, perché noi vivevamo la speranza nel presente, non dovevi più dire <domani, domani, domani>, potevi finalmente dire <oggi>.
Dici che era un’illusione, che poi tutte le speranze le abbiamo perdute? Non lo so. Le donne, per dirne una, non hanno perso…. Penso che il femminismo abbia vinta la sua battaglia, perché quando incontro ex ventenni come me, donne che oggi hanno cinquant’anni, e le trovo belle, rispettose, giuste, e mi sento orgogliosa di loro.” … Ma poi non penso che solo le femministe fossero immuni dall’estremismo dell’Autonomia operaia o della Brigate rosse.
Qualcuno di noi che finì nella lotta armata ovviamente c’era, e c’era pure chi spaccava vetrine e aveva il mito della P38… ma quanti erano rispetto al tutto, alla massa di compagni e studenti?… non dico pochissimi ma pur sempre una esigua minoranza rispetto a centinaia di migliaia, forse a un milione, di giovani che in quegli anni scendevano in piazza e facevano politica.”
I rapporti col PCI
“Vuoi sapere se mi sentivo comunista o cosa? Guarda, per me il comunismo era la leggerezza del pensiero, la rappresentazione di una profonda umanità, dietro alla quale si intravvedeva forse anche la nostra matrice cattolica di bravi italiani. Nel ’68 c’era stata l’invasione sovietica della Cecoslovacchi per mettere fine alla primavera di Praga, io uscii per protesta dalla Fgci e da allora mi sentii al di fuori della merda comunista.
Quanto a Mao, degli orrori delle Cima maoista sfortunatamente ne sapevamo poco o niente, ma non eravamo i soli. Oggi? Oggi sono una che non ha il coraggio di votare a destra e dunque continuo a dare il mio voto a un’area di sinistra… la mia appartenenza politica è con il passato, non con il presente, anche se, sia ben chiaro, odio i reduci e il reducismo”
Le priorità d’oggi e i rimpianti
“Le mie priorità? Il lavoro, le relazioni corrette con il prossimo, gli slanci, la tenerezza, l’essere ancora capace di sentire i bisogni altrui e tentare di fare qualcosa per soddisfarli, il senso di appartenere a una famiglia allargata…Be’, se morissi stanotte andrebbe bene lo stesso: ho vissuto con pienezza, non voglio morire arrabbiata. Non mi hai preso in un buon momento, mi interessa ancora fare delle cose ma vorrei fosse più semplice, invece è diventato tutto troppo complicato, nelle relazioni, e nel lavoro mi pare di fare troppa fatica. Sai qual è il problema? Non mi diverto più. E invece noi, quando avevamo vent’anni, minchia come ci siano divertite”