In questi giorni Venezia è tornata al centro dell’attenzione per l’acqua alta che l’ha invasa. Ma questa città “immersa in quella sua atmosfera eternamente assorta” è sempre nel cuore di tutti, meno di chi dovrebbe preservarne la bellezza.
Come si salverà Venezia? E’ questa la domanda che si fa Francesco Cataluccio in un bel articolo apparso sul Foglio domenicale di ieri. In parte autobiografico, essendo egli nato nella città lagunare, Cataluccio segue le calli e le fondamenta, percorse con Mauro Martini, un russista amico e Iosif Aleksandrovi Brodskij, (qui) avendo ancora vive le immagini dipinte da Guardi, Bellini, Carpaccio, Tintoretto, Tiepolo, e ammirate da giovane, svelando aspetti della città inconsueti.
“Venezia, anche in mezzo alla nebbia, la fredda pioggia o l’acqua alta, non cessa di comunicare vitalità. E’come se le acqua della laguna (che sono dolci e salate insieme) confondessero e nascondessero le differenze, ma facessero alla fine emergere sempre il suo aspetto più bello (che ben rappresentarono Canaletto e il nipote Bernardo Bellotto, prima che arrivassero il Guardi a riequilibrare quei panorami un co un po’ di malinconia e Turner con gli abbagli della luce). Si capisce cosa intendesse il poeta che scrisse che Venezia era costruita dalle visioni dei sogni e lo scrittore polacco-napoletano Gustaw Herling (1919-2000), autore del misterioso racconto Ritratto veneziano (1994), che l’ammirava “per il particolare legame, verrebbe da dire per il connubio, fra sonno e veglia.” … Venezia è ritenuta una città romantica. Per questo convergono su di lei milioni di innamorati. Le sue calli, i suoi campi pullulano di persone che si guardano teneramente negli occhi, che si abbracciano e scambiano carezze. E più in basso, sul limitare dei canali, in precario equilibrio su seggiolini pieghevoli, decine di pittori e acquerelliste fissano, come membri di un comitato celebrativo, i contorcimenti luminosi delle nuvole e le luci sbieche sulle antiche pietre.
Certo, per chi è solo e triste, non è un bello spettacolo tutta quella felicità ostentata. Ma tutta quell’allegra esuberanza amorosa fa dimenticare a volte che Venezia stia morendo. Non soltanto perché ogni giorno viene corrosa ed erosa, schiacciata e calpestata: soffocata dal Falso e dalla paccottiglia. Ma anche dalla provincialissima convinzione di molti suoi abitanti che tutto sia già stato e che non ci sia futuro. Una ben strana, e non sempre coerente, concezione della preservazione che cerca di tenere lontana dalla città la modernità e, in fin dei conti, l’evoluzione della vita…. fu respinto a furor di popolo (capeggiato da Antonio Cederna) il bel palazzo progettato da Frank Lloyd Wright per l’amico Angelo Masieri, che avrebbe arricchito finalmente il Canal Grande con un segno moderno. Però quasi nessuno ha fatto una piega quando è stato devastato il Fondaco dei tedeschi, accanto al Ponte di Rialto, trasformandolo in un brutto grande magazzino di lusso… Venezia non può finire coll’assomigliare a un piatto e triste fondale di teatro che tenta di coprire l’inzuppamento progressivo, che accade sempre più di frequente, come in questi drammatici giorni.
Come si salverà Venezia? Simone Weil, nel 1940, lo scrisse, con un briciolo di speranza e fede, nel suo testo teatrale incompiuto Venezia salva…..Secondo una leggenda, Venezia nel 1618 stava per essere distrutta da una congiura spagnola. Venne salvata dai rimorsi di un certo Jaffier che tradì e denuncio i suoi compagni: “Dio non permetterà che una cosa tanto bella venga distrutta. E chi vorrebbe fare male a Venezia? Il nemico più implacabile non ne avrebbe cuore (…) Una cosa come Venezia nessun uomo può farla. Dio solo. Ciò che l’uomo può fare di più grande, che lo avvicini a Dio, poiché non gli è dato creare simili meraviglie, è preservare quelle che già esistono”
L’autore: Francesco Matteo Cataluccio (Firenze, 23 dicembre 1955), laureato in filosofia, è uno scrittore e saggista. E’ stato caporedattore e responsabile dei tascabili e dei classici alla Feltrinelli, direttore editoriale alla Bruno Mondadori e della Bollati Boringhieri.
(La frase virgolettata nel titolo è di Pavel Muratov, grande storico russo)