Approvate dal Governo le linee guida ora tocca alle Regioni dare attuazione a questo approccio terapeutico.
Sono state presentate dal Governo all’Expo di Milano le linee guida che definiscono le caratteristiche delle strutture in cui potranno avvenire interventi assistiti con gli animali, la c.d. Pet Therapy. Saranno ora le Regioni a dovere legiferare nel merito e in dettaglio. Come ricorda un articolo di Michele Bocci su Repubblica, la pratica è vecchia e diffusa in Italia da almeno 15 anni. Ha iniziato nel 2000 l’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, imitato poi da Ferrara, Mestre, Genova e da altre numerose strutture, difficile da censire in quanto il fenomeno è nato e si è esteso su iniziativa spontanea dei pazienti, poi accolta dei curanti che ne hanno constatata l’utilità. Fido entra in corsia, scrive ispirato Bocci: “ entra in pediatria a strappare sorrisi, nelle medicine ad alleviare il dolore o nelle geriatrie a farsi accarezzare” E non si tratta solo di cani, perché il permesso è stato concesso anche ai gatti, ai conigli e, magari, perché no, prossimamente avranno il lasciapassare altri animali domestici e di compagnia. Secondo il sottosegretario alla Salute Vito De Filippo “gli animali domestici possono svolgere un importante ruolo di mediatori nei processi terapeutico-riabilitativi ed educativi e il loro coinvolgimento, in ambito terapeutico, avrà sempre una maggiore diffusione, uscendo dall’empirismo iniziale e seguendo sempre più un approccio scientifico”. Non esiste ancora una consolidata e irrefutabile casistica di validità del metodo, ma i pareri clinici sulla Pet Therapy sono generalmente favorevoli. Massimo Andreoni, della SIMIT ( società malattie infettive) giustamente raccomanda prudenza per alcuni reparti come la terapia intensiva, l’unità coronarica, la chirurgia, che è bene restino chiusi agli animali, dato l’alto rischio che, alle infezioni ospedaliere già elevate, portate dai bipedi, si aggiungano anche quelle portate dagli amici a quattro zampe.
La Pet Therapy si inserisce nel filone della medical humanities in quanto dà il giusto peso all’apporto emotivo del malato nel percorso terapeutico, rende più familiare il contesto(specie nei casi di lungodegenza), riporta infine un po’ di serenità nell’ammalato che può trovare una tregua al dolore, stimolando la sua volontà per un sollecito rientro guarito a casa. La Pet Therapy può avere anche un valore prevenzionale? L’esperienza, il buon senso e l’osservazione ci porterebbero a rispondere con un SI’ sonoro, anche sulla scia della letteratura e dell’arte, in cui il rapporto con gli animali si intreccia con la vita se non, addirittura, con la storia dell’uomo. Ma questo non può bastare alla fredda analisi clinica e agli statistici. Un assessore alla sanità o un direttore di dipartimento potrebbero farsi venire l’idea di promuove una ricerca sulla Pet therapy come metodo di prevenzione?