Nella periferia orientale di Napoli c’è un luogo dedicato alla cura, alla bellezza e al sogno. Una scuola abbandonata fatta rivivere da chi non si arrende alla criminalità e alla miseria. I Maestri di strada, la pandemia e il nostro futuro
Il Cubo, acronimo un po’ sbilenco di Cura Bellezza Sogno, è a pochi chilometri da San Giorgio a Cremano, il paese di Massimo Troisi. E’ una struttura aperta dai Maestri di strada e intitolata a Ciro Colonna, il ragazzo freddato per sbaglio nel circolo ricreativo di Ponticelli dove Anna De Luca Bossa, regina di un clan di camorra condannata quest’anno all’ergastolo, aveva spedito i suoi sicari a sparare a un rivale. Siamo nella periferia est di Napoli, dove quasi tutto è fuori legge: l’edificio scolastico c’è ma non ci sono i documenti su come è stato costruito, la discarica è illegale, la cabina dell’energia elettrica ha la porta sfondata e i fili scoperti e sono abusivi parecchi inquilini.
Al Cubo si arriva in venti minuti dal centro con la famigerata ferrovia Vesuviana. A pensarci il Nulla o il Buco, come lo chiamano i ragazzi, è quasi dietro l’angolo: chi, come me, viene da Roma sa bene che in un giorno di pioggia la distanza temporale di Tor Bella Monaca diventa infinita. Nella galleria umida della stazione Bartolo Longo, a dare il benvenuto, spunta una creatura affabile e sarcastica: è il graffito di un topo gigante non so decidere se seduto su un libro o su una fetta di formaggio. Fuori, sotto un cielo bianco di foschia, ho attraversato un crocevia deserto bordato di sterpi e sacchi d’immondizia gettati dalle auto. Poco più in là, c’è un grande caseggiato recintato e sorvegliato come una fortezza.
Il Cubo è dietro la fortezza: era una scuola abbandonata, quattromila metri quadrati fatiscenti svuotati dall’inverno demografico, ma ci sono un giardino, un anfiteatro, un portico. Il comune ha affittato l’intera struttura a basso costo ai Maestri di strada e loro hanno aperto un cantiere per ristrutturarla e rimetterla a posto ( servono lavori per quasi un milione di euro). L’andirivieni di imbianchini, fabbri, piastrellisti, muratori volontari e no, non è un gioco ma può anche sembrarlo. Fa parte del processo educativo, prima lezione: recuperare quello che c’è e, se vuoi stare in uno spazio, devi prendertene cura. Così cantiere edile e centro per l’innovazione sociale convivono, sono compagni di strada a volte affiatati e a volte litigiosi.
Il Cubo è rimasto sempre aperto. Lo è stato durante il lockdown e lo sarà anche in questa lunga estate afosa di Caporetto dell’istruzione. Con le scuole chiuse i Maestri di strada hanno seguito i ragazzi di 220 famiglie, il triplo di quello che facevano prima. Fuori ci sono i pulmini che hanno funzionato come ambulanze per “il pronto soccorso pedagogico” in zona rossa, talvolta scortati dalle forze dell’ordine. Il progetto detto i Coronauti è stato finanziato con 200 mila euro di soldi pubblici per distribuire libri, quaderni, tablet e interventi a domicilio sotto casa: una Dad fatta di incontri distanziati del primo (via cellulare), del secondo (via zoom) e del terzo tipo (per strada). Ma il problema più consistente non sono stati la mancanza di tablet e di connessione quanto le case: ragazzi in pigiama da mattina a sera, chiusi in stanze affollate a contendersi nel marasma lo strumento per la Dad.
Il cantiere del Cubo, con le sue 25 aule vuote, è servito anche come appoggio scolastico con rispetto di distanze per chi a casa non poteva proprio stare. Nell’emergenza, la Dad avrebbe potuto produrre innovazione didattica, capacità di sperimentare altri linguaggi e di comunicare con strumenti nuovi. In qualche caso lo ha anche fatto, la rete è piena di manufatti della Dad. Ma perlopiù ha distribuito alla meglio quello che c’era prima: lezioni frontali sconnesse svuotate della sostanza umana di qualsiasi apprendimento, la relazione.
“Anche una classe gonfia di conflitti è un luogo di relazione, nutre l’apprendimento”, dice Cesare Moreno, il presidente dei Maestri di strada. “Le buone relazioni a scuola sono il fondamento della buona istruzione. Le nozioni mancanti, la privazione cognitiva, si possono recuperare, il vuoto relazionale no. Ora che se ne sono accorti tutti speriamo che serva a rientrare in classe in modo consapevole”. E, mentre si litiga sull’obbligo vaccinale per tornare a scuola, viene spontaneo chiedere: ma ce la faremo a recuperare con i 30 alunni per classe di prima, ragazzi di cui a malapena l’insegnante riesce a imparare i nomi prima della fine dell’anno? Moreno rovescia provocatoriamente la domanda: “Gli insegnanti non mancano, sono utilizzati male. Conosco una scuola con 180 docenti e 240 insegnanti di sostegno: una frammentazione balcanica, praticamente ogni ragazzo ha il suo ‘ sindacalista’. Come può funzionare una classe in un contesto simile? Non sono quelle le condizioni per creare una comunità educativa dove si cresce insieme e non contro gli altri”.
La classe come configurazione sociale dell’apprendimento è il pallino di Cesare Moreno: “L’attività didattica è basata sulla relazione, se non c’è quella, con i suoi momenti di osservazione e di ascolto, nulla può funzionare. Una volta avevo in classe due ragazzini sordomuti che picchiavano tutti. Li ho inseriti in una terza elementare e con gli altri ragazzi abbiamo cominciato a inventare storie raccontate a gesti per coinvolgere anche loro. Dopo un po’ hanno smesso di essere violenti, quello era l’unico modo con cui sapevano comunicare; gli altri ragazzi l’hanno capito e hanno concluso: ora non picchiano perché parlano a gesti”.
Al Cubo sono capitata alla vigilia della parata estiva per le vie di Ponticelli e ho conosciuto una mamma sociale impegnata a fare la sarta. Cuciva l’abito della Grande Madre, costruita come altre fantasiose macchine con materiali di recupero. La figura da vestire era appoggiata a una parete: alta e snella, con la vita di vespa, i seni ben disegnati e i capelli di trucioli di legno biondo. Non la solita signora chiatta, primitiva e generosa dell’immaginario mediterraneo. “La vogliamo bellissima, una madre giovane”, stava dicendo Maria mentre tagliava striscioline di organza. Senza staccare gli occhi dal lavoro, si è messa a raccontare del suo bambino, promosso in seconda elementare con 35 giorni di scuola in presenza. In Campania anche i bambini piccoli si sono beccati la Dad e le elementari sono rimaste più a lungo chiuse. Maria si è accorta presto che suo figlio non aveva imparato a distinguere consonanti e vocali, che nessuno controllava i compiti, che non poteva farcela a imparare a leggere. Al Cubo ha trovato un metodo per aiutarlo, è venuta a imparare lei e a giugno il bambino sapeva scrivere sotto dettatura e in matematica “era diventato un genietto”.
Il Cubo non è assistenza creativa, ha un’ambizione smisurata: riparare il tessuto sociale e produrre eccellenza dove tutti vedono solo abbandono, criminalità, miseria. I ragazzi lo hanno detto componendo il e facendo così lezioni di metrica, di matematica e di musica. E poi hanno prodotto un documentario, nato da un’idea di Filomena Carrillo e con la regia di Flavio Ricci, presentato in giugno all’Ischia film festival. E’ intitolato questo è, così vanno le cose. Voi vedete tutto brutto e cattivo, noi no. Se qui sei nato qui devi trovare energia, forza e bellezza per uscire dal Buco. Come dice Woody Allen, puoi portare il ragazzo fuori dal ghetto, ma non puoi portare il ghetto fuori dal ragazzo. Loro lo sanno e imparano a utilizzare quello che c’è, a tradurre l’esperienza in linguaggio, forme, musica, immagini. E’ uno dei risultati del progetto educativo dei Coronauti, la ciurma salpata come Giasone e gli Argonauti alla ricerca di un rimedio per fronteggiare la peste.
E la peste, nelle aree di maggior disagio, ha cacciato da scuola un adolescente su tre. Anni e anni di lavoro per recuperare la dispersione scolastica nella media dell’obbligo e ora si precipita indietro. Ma qualcuno crede ancora nell’istruzione come possibilità per cambiare la propria condizione? “L’ascensore sociale è scassato da tempo. Del resto è un’ immagine obsoleta, che parla di una società rigida dove pochi possono salire da un piano all’altro, ma l’edificio resta immutabile. I bravi studenti cresciuti in ambienti deprivati, quelli a cui la scuola può ancora cambiare copione di vita, invece ci sono – risponde Cesare Moreno – e sono molto consapevoli. Quelli, in una situazione come questa, restano fregati. I ragazzi che hanno interiorizzato di non valere niente, quelli che sanno già dalle famiglie che non ce la faranno mai, odiano la scuola perché peggiora la loro vita, gliela rende più difficile. Ma per quelli che ancora ci credono, per quel tre per cento che pensa di uscire dal Buco con l’istruzione, per loro, quello che è successo è una vera tragedia”. Dove la scuola è l’ultimo argine, la crepa che si è aperta è una ferita infetta da curare subito, comporta un rischio sociale elevato.
Il Cubo ha i suoi campioni, io ho conosciuto Arianna, una ragazza vivace, morbida e riccia, che sta concludendo il triennio all’università con la laurea in Psicologia. Arianna a scuola era bravissima già da piccola, una capacità di apprendimento e una passione per gli studi fuori dal comune. Ma affermarla, puntare caparbiamente sull’istruzione, è stato tutt’altro che facile, certo non quello che potrebbe essere: un percorso protetto. Il bravo studente che viene da un ambiente deprivato porta la corona di spine, deve combattere per mantenere l’autostima: “Mai dite a un ragazzino: sei figlio di un criminale e qui devi restare perché questo è il tuo posto. Qui nella stessa classe si trovano il figlio dello spacciatore e del carabiniere”, racconta Arianna. “La scuola dovrebbe promuovere pacificazione, non odio. A me, che avevo un fratello in carcere, dicevano che mai ce l’avrei fatta, che tutt’al più dovevo andare a studiare all’alberghiero”.
E qui spunta il profilo dell’insegnante che ti condanna a restare nel Buco. Ma non è anche questa un’immagine obsoleta? Leggiamo di docenti aggrediti dai genitori o disprezzati dai ragazzi, spogliati di qualunque autorità… “A San Giovanni a Teduccio ho avuto alunni figli di criminali in servizio effettivo”, racconta Cesare Moreno. “La madre di uno di loro , un ragazzino di 11 anni che disertava la scuola, si mordeva il dito e faceva ancora pipì a letto, diceva in giro che io picchiavo i ragazzi. Andai dal giudice a denunciami perché si aprisse un’inchiesta e, davanti al magistrato, la signora non confermò le accuse. Quindi conosco il problema e so che docenti e genitori hanno punti di vista diversi. Ma so anche di studenti dotati che non ce la fanno a sopportare il disprezzo dei loro insegnanti perché sono brutti sporchi e cattivi. Ho in mente una ragazza che si sentiva dallo sguardo della sua prof… L’insegnante che qui infligge il suo disprezzo è lo stesso che al Vomero lo subisce da genitori più titolati di lui. O le dai o le prendi: è il modello che è sbagliato, una relazione patogena”.
La scuola è un avamposto e gli insegnanti sopportano tensioni enormi, soprattutto dove il tessuto sociale è lacerato. Sono figure di cerniera: attraverso i ragazzi entrano in contatto con mondi carichi di aggressività. Sono capaci di governarla? “In classe si gioca una partita doppia: una riguarda i contenuti, l’altra le regole”, aggiunge Cesare Moreno. “La tendenza è considerare separatamente le due partite: al docente la comunicazione dei contenuti, allo studente il compito di presentarsi preparato e rispettare le regole. Ma poi succede che i ragazzi, per segnalare le loro difficoltà, rompono le regole e mettono a nudo le emozioni del momento, lasciando il docente in seria difficoltà. Gli insegnanti non sono preparati a comprendere e a fronteggiare questo scenario: per farlo, ci vuole formazione, una formazione permanente”.
Sic est. Buon nuovo inizio, sarà durissimo far ripartire la scuola, però è il campionato da vincere. Da queste parti, per ricominciare in sicurezza e con una didattica efficace, una delle scommesse è mettere in rete tutto quello che c’è: allargare spazi e collaborazioni. I Maestri di strada offrono alle diciotto scuole della periferia orientale di Napoli venticinque nuove aule e le competenze di 50 educatori. Riusciranno a condividerle? Il paradosso, a volte, è che accettare doni è più difficile che farli.
Annamaria Guadagni, il Foglio Quotidiano
In copertina: murale di Jorit a Scampia raffigurante P.P. Pasolini