RIVOLUZIONE DIGITALE: PARADISO O INFERNET? APPUNTI DELLA LEZIONE DI ROBERTO D’AGOSTINO AGLI STUDENTI DELLA FACOLTA’ DI LETTERE DELLA SAPIENZA IN ROMA
In un mondo di 7 virgola 7 miliardi di esseri umani, per almeno tre Internet è il miglior strumento per cambiare il mondo che sia mai stato inventato. E il segreto del web è semplice. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, il mondo digitale include. Mi attiva perché è condivisibile in tempo reale con il mondo intero.
E malgrado i rischi e i pericoli, quella di internet è la prima rivoluzione globale senza dissenso. Piace a tutti: poveri, ricchi, bianchi e neri, uomini, donne e tipi intermedi. È una rivoluzione facilmente comprensibile: tutti hanno capito che Internet, attraverso computer e smartphone, è una protesi che ci regala dei superpoteri, che ci permettono non di essere se stessi bensì di creare se stessi.
Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. I social ti fanno sentire parte di qualcosa – un evento, una situazione, una storia. E ci forniscono una filosofia di salvezza alla paura di correre verso il nulla: una identità digitale.
Grazie al Web, attraverso i social (Facebook, Youtube, Instagram, Twitter, etc) ci possiamo creare un’altra identità, un avatar, magari photoshoppato, quindi falso, ma appagante, da postare al resto del mondo che risponde con i like, gli emoji e i follower.
A causa di aspettative svalvolate, la vita è sempre stata una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
L’enorme successo di Internet che ritroviamo in qualsiasi classe sociale, ha origine dalla sua capacità, attraverso i social network, di creare un mondo parallelo a quello reale. Tutti amano la Rete perché è diventata un sollievo, anche un placebo, a tale insoddisfazione che nessuna ideologia/religione, nel corso della storia, è riuscita a cancellare.
(Del resto, perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato praticamente tutto, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo affollato di avatar che portano il nome di Marte e Giove, Venere e Mercurio, al fine di quietare la propria insoddisfazione)
I social fanno uscire la tua faccia dall’anonimato (Facebook), ti mettono in pista e ti fanno sentire unico e nello stesso tempo parte di una comunità, protagonista di un evento, di una situazione, di una storia. Il diario della vita in pubblico. Un modo di annotare il passaggio di cose e di emozioni. Mi serve una memoria istantanea, una specie di “pensiero visivo”, una pubblicità immediata di me stesso che spieghi agli altri non ciò che sono ma ciò che vorrei essere. Questo è il titolo perfetto del millennio digitale: Io sono la mia fiction. E Instagram, attraverso il selfie, è oggi la via più semplice per consegnare agli altri una immagine diversa di se stessi.
In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere, gli internauti devono fare affidamento sul proprio “marchio”. La smaterializzazione dell’immagine – la sua trasmigrazione dal reale al digitale, dalla carta al display – diventa l’arte di costruire il proprio Brand, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. Un processo che richiama alla memoria gli anni Ottanta della “Me Generation”, descritta da Tom Wolfe, e “La cultura del narcisismo” di Chris Lash.
La creazione del proprio “brand” ha a che vedere con un’esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso. Da Andy Warhol che nel marzo 1968 dettò la celebre frase “Saremo in futuro tutto famosi per 15 minuti”, siamo passati al ragazzino che vuole essere famoso per 15 amici.
Imploderà l’impero delle app? No, perché la tendenza generale, alla faccia di haters e di trolls, è una spinta piuttosto forte al “pensiero positivo”. C’è una frase di uno youtuber americano con un bottino di 50 milioni di follower che sintetizza questa modalità. Intervistato fa una dichiarazione che sorprende il giornalista: “Io non voglio essere me stesso. Io voglio essere la pizza”. Prego? La pizza? “Sì, perché tutti amano la pizza. Ed io voglio essere amato da tutti’’.
Ecco. Noi vogliamo solo essere amati, pensiamo che ce lo meritiamo perché ci consideriamo unici. In questa frase, allo stesso tempo geniale e cinica, c’è l’essenza della ‘’filosofia’’, se così possiamo dire, digitale. Far parte di comunità in cui gli sms hanno preso il posto delle molotov e twitter al posto delle pietre. Non è un caso che Facebook ha sempre rifiutato di introdurre accanto a “like” il segno del “non mi piace”.
Ed è anche per questo che i giornali non vendono più. I quotidiani appartengono filosoficamente al secolo ideologico, quindi devono imporre una linea al lettore, hanno la “verità” in tasca, salgono in cattedra e sparano opinioni che mi dicono che sono un incivile perché seguo il Grande Fratello Vip, un ignorante perché non mi sintonizzo sui talk politici, che sto sbagliando tutto della mia vita perché mi diverto con Malgioglio… Bene: ho speso un euro e mezzo, perché mi devi trattare a pesci in faccia?
Nella stagione del trasferimento della vita reale nel mondo digitale, i social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione, anche in politica. Barack Obama nel 2008 per sua stessa ammissione non avrebbe vinto la sfida elettorale se non avesse avuto un formidabile team di gestione dei social network, lui riuscì a mobilitare 18 milioni di giovani per fare la differenza contro lo sfidante McCain, grazie all’uso di Facebook, aggregando le persone su Facebook.
Il social inventato da Zuckeberg sta per toccare i due miliardi di adesioni sull’intero pianeta e dunque abbiamo una collettività transnazionale che risponde ad un proprio linguaggio. La prima cosa che si fa appena si entra in un social è quella di rovesciare in pubblico la nostra vita privata. E lo si fa con piacere. Perché noi siamo ciò che raccontiamo agli altri, dall’’’Odissea’’ di Omero a “Mille e una notte” passando per il “Decamerone” di Boccaccio, ognuno di noi è una costruzione letteraria. Io sono la mia fiction. Per questo diffondiamo sui social la nostra autobiografia, testo e foto e video, edulcorata e corretta, ovviamente. Vogliamo i like, vogliamo i followers, i cuoricini: sono loro che ci danno un’identità sociale.
Per gran parte degli intellettuali del ‘900, invece, orfani del loro ruolo di leader, Internet è piuttosto un “infernet”, un inferno, come tuonò Umberto Eco, che dà “diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano al bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”.
E scatta l’allarme rosso: Internet è un paradiso o un inferno? Se deleghiamo i pensieri alle app o a un software diventiamo stupidi come criceti sulla ruota? Ci aspetta un “nuovo mondo”, terra promessa di pace e speranza, oppure siamo destinati ad essere travolti da un gigantesco esaurimento nervoso? Ciò che la Silicon Valley vuole costruire è un paradiso per i robot?
Davvero con Internet, la Storia, con la esse maiuscola, è finita tra le fiamme dell’inferno?
L’anno che cambiò la faccia del mondo e il percorso della storia fu il 1989. Viene giù il Muro di Berlino, da una parte. Dall’altra, Tim Berners-Lee inventa la Rete, il Web, Internet. Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante, tempestata di clic, di siti, di immagini. E nulla fu come prima. In tutti i campi, dal lavoro all’amore, dalla cultura alla politica.
Siamo entrati in un nuovo rinascimento che sta cambiando tutto, a partire dal nostro modo di essere. Come fu l’arrivo dei caratteri stampa mobile di Gutenberg che mise fine al Medioevo e apri’ le porte a Leonardo e Michelangelo. In questo passaggio tra due epoche, dall’analogico al digitale, viviamo un senso di caos per la decadenza del nostro vecchio sistema.
E se proviamo a puntare il nostro sguardo verso il futuro, vediamo questo orizzonte di polvere, è la polvere che si alza quando crolla tutto e finisce un’epoca. Questa polvere poi lentamente si deporrà e si vedrà qualche cosa di nuovo. Il passaggio dal Medioevo al Rinascimento, del resto, durò un secolo.
La tecnologia ha cambiato la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’800 e nel 900. L’arrivo del treno fu una grande rivoluzione, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione e adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quella che la nostra immaginazione può tentare di descrivere.
Stiamo andando verso un mondo completamente nuovo dove i protagonisti saranno i robot. Grazie all’intelligenza artificiale, i computer ci battono a scacchi, guidano le macchine, fanno la pizza e nella prossima società cibernetica, preparatevi: avremo computer nel cervello e le macchine saranno più intelligenti degli esseri umani.
Un chip, impiantato sotto la pelle, funzionerà per timbrare il cartellino, aprire porte, azionare il pc, fare la spesa. Entro il 2029 sarà realtà, la cosiddetta ‘singolarità tecnologica’, cioè quando i computer, tramite software e robot, avranno un livello umano di intelligenza, potranno evolversi e migliorarsi da soli.
Siamo prigionieri di un algoritmo, ostaggi di un software, sempre a caccia di una connessione wi-fi. Una sfida che molti considerano un incubo.
Non c’è dubbio che ogni svolta tecnologica comporta dei grandi pericoli, dei grandi rischi.
La tecnologia può falcidiare e distruggere il mercato del lavoro, produrre milioni di disoccupati e quindi fomentare scontento malumori, rivoluzioni proteste, violenze, un vero e proprio terremoto sociale.
Non c’è nessun dubbio che questo è il rischio che noi abbiamo davanti, la società dei robot che è alle nostre porte e che sta già arrivando annienta e distrugge progressivamente il ruolo degli esseri umani nel mondo del lavoro, quindi la sfida è rispondere a questo rischio, tentando di ripensare il lavoro, il tempo libero, l’equilibrio fra macchine ed esseri umani. È uno dei passaggi più difficili, ma non abbiamo alternativa, che passarci attraverso e inventare una nuova forma di convivenza.
Il vero punto debole è che le tecnologie creano una fascia di esseri umani che non è in grado di adoperarle, e che viene quindi emarginata, spazzata via, distrutta, lacerata, trasformata in prodotto di scarto.
Sul piano dei rischi c’è il trasferimento della socializzazione dalla realtà reale a quella virtuale. Noi lo vediamo tutti i giorni, noi viviamo in una grande stagione di proteste e appena può la gente va a votare e vota contro, chiunque sia e chiunque rappresenti l’establishment, ma nelle università non ci sono più movimenti di protesta, i sindacati si sono indeboliti, ogni tipo di associazionismo è in calo.
Come è possibile che non ci siano cortei di protesta nelle grandi città dell’occidente se viviamo la stagione della protesta? Perché la protesta si è trasferita da forma aggregata associata nella realtà reale, in forme di amici o gruppi sui social network. Questo porta ad una desocializzazione degli individui che secondo alcuni studiosi del comportamento comporta molti rischi.
Soprattutto sul piano dello sviluppo delle identità. Completamente scollegate dalla realtà. Ovvero uno pensa di essere qualcosa solo e solamente perché il social network ci rappresenta in quella maniera. Questo è il rischio. Qual è invece l’opportunità? L’opportunità è che grazie al social network uno riesce ad entrare in contatto con persone che possono avere simpatie ed interessi comuni anche se vive in un’altra latitudine.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini, nei villaggi africani, nei villaggi del Bangladesh, in un’isola sperduta, chiunque può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. Basta connettersi con la rete e c’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre qualcosa che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
L’uomo è la misura di tutte le cose, queste erano le parole d’ordine, le leggiamo nei libri di testo, nei libri di lettura. E che cos’altro è internet, la rete, se non questo? L’affrancamento del singolo dalla dittatura o comunque dai condizionamenti di una lettura imposta, di una lettura a priori, di una lettura che viene fornita da altri anche semplicemente dal punto di vista delle notizie.
La tecnologia è una nuova ideologia che, a differenza del capitalismo o del socialismo, non ha niente a che vedere con un ideale o con un programma di governo. Ecco uno strumento, un software, un algoritmo velocissimo che deride la lentezza dei nostri pensieri. Nell’Impero Digitale, la storia non è più “orientata” verso un “pensiero unico” ma è multimediale, ipermediale, transmediale.
Il nostro è un mondo di modernità ad alta velocità, nel quale il fatto che le cose cambino non ha più bisogno di essere spiegato dal Censis o dall’Istat. Piuttosto sarebbe meglio riprendere in mano il “Pensiero debole” del filosofo Gianni Vattimo, saggio fondamentale del postmoderno, pubblicato da Feltrinelli nel 1983, un saggio che si inalbera sulle macerie ideologiche degli anni ’70, in contrapposizione alle varie forme di pensiero forte dell’Otto-Novecento – in primis il marxismo,.
Con Internet il pensiero debole diventa fortissimo. Il Web, come il Pensiero Debole, si presenta in maniera esplicita come una forma di nichilismo, vocabolo che Vattimo considera “una parola chiave della nostra cultura”. Con questo termine, che Vattimo usa in maniera positiva e propositiva, egli intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche per indicare l’inevitabile decadenza della cultura occidentale e dei suoi valori, “l’uomo rotola via dal centro verso la X”, ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l’uomo postmoderno in seguito alla caduta delle ideologie e delle verità stabili.
E il tempo impiegato a scavare per trovare la “verità” è tempo perso perchè il mattino dopo un nuovo futuro è già qui, e quella “verità” non serve a nulla. E’ la tecnologia stessa a includere il cambiamento che per decenni è stato sinonimo di progresso. Le cose via via miglioravano. La storia aveva una direzione. Oggi il discorso è più complesso. La linearità delle cose – l’esistenza cioè di un inizio e di una fine – è un’invenzione occidentale.
La Rete permette a tutti noi di navigare come su una tavola da surf, cavalcando le onde ed evitando i venti contrari, e permettendo di restare attaccati alle correnti dell’attualità. Con un colpo di mouse, abbiamo a disposizione un’enorme fonte di informazione, un’infinita memoria generale. Nell’era dei big data, le risposte dipendono unicamente dalle domande.
E le famigerate fake news dove le mettiamo? Le mettiamo in quel posto perchè i grandi mezzi di comunicazione sono le vere, grandi fucine di balle spaziali. Da sempre. È li che vendono preparate, cucinate, diffuse o nascoste, a seconda degli interessi dei proprietari dei giornali. L’informazione in Rete può essere vera o falsa, o entrambe le cose, ma in Rete è impossibile sostenere una menzogna per lungo tempo.
Osserviamo il caso Weinstein: Il New York Times aveva tutti i documenti necessari a pubblicare l’inchiesta dieci anni fa. Non è finita in pagina a suo tempo perché Weinstein investiva in pubblicità e finanziava la politica. Convenienza e pressioni hanno nascosto il segreto di pulcinella.
In un saggio del filosofo Zizek si racconta di una maledizione cinese. Se si odia veramente qualcuno, lo si maledice così: “Che tu possa vivere in tempi interessanti!”. Storicamente i “tempi interessanti” sono stati periodi di mutamenti, di guerre e lotte per il potere. Oggi, con la rivoluzione innescata dalla tecnologia e da internet stiamo chiaramente dentro a una nuova epoca di tempi interessanti. Quindi inquietanti, conflittuali, difficili. Ma eccitanti. Perché la nuova fonte di potere non è il denaro nelle mani di pochi, ma l’informazione nelle mani di molti.
Quello che è certo è che l’uomo, così come lo conosciamo, prossimamente non esisterà più. E non c’è dubbio che il sentimento di gran lunga più diffuso oggi sulla terra non è la paura del futuro. E’ il timore di quello che avverrà domani mattina.