I DATI RACCOLTI DA MILENA PARLANO CHIARO: 9 MILIARDI FRA 30 ANNI SARANNO TROPPI, GIA’ ADESSO UN SOLO PIANETA NON CI BASTA- BISOGNA VIVERE E CRESCERE CON ALTRI MODELLI, PRODURRE E CONSUMARE CON I MODI ALTERNATIVI DELL’ECONOMIA CIRCOLARE.
Ogni anno l’ economia mondiale consuma quasi 93 miliardi di tonnellate di materie prime tra minerali, combustibili fossili, metalli e biomassa. Di queste, solo il 9% sono riutilizzate. Il consumo di risorse è triplicato dal 1970 e potrebbe raddoppiare entro il 2050. Secondo il Global Footprint Network, per mantenere l’ attuale stile di produzione e di vita, un solo Pianeta non ci basta, ne servirebbe 1,7, ovvero un’ altra Terra.
Nel 2018, il giorno in cui abbiamo consumato tutte le risorse naturali che il Pianeta è in grado di rigenerare in un anno, è caduto il primo agosto: mai così presto. È come finire lo stipendio al 20 del mese, ma nessuno ti fa credito per gli altri 10 giorni. E i mutamenti climatici sono legati anche all’ utilizzo di materie prime.
Il 62% delle emissioni di gas serra (escluse quelle provocate dal consumo del suolo) avviene durante il processo di estrazione e lavorazione delle materie prime, mentre solo il 38% in fase di consegna o utilizzo dei prodotti.
Che succederà fra 30 anni, quando saremo 9 miliardi di persone e il riscaldamento globale più su di un altro grado e mezzo? Onu, Ocse e governi sono d’ accordo: l’ unica alternativa per salvare il pianeta è l’ economia circolare. A Davos, a gennaio, ne è stato stimato il valore potenziale: 3.000 miliardi di dollari nel mondo; 88 miliardi solo in Italia, con un bacino di 575 mila occupati, secondo l’ ultimo bilancio del Conai, il consorzio nazionale degli imballaggi.
Vuol dire che si può crescere cambiando modello di sviluppo. L’ economia circolare in concreto «chiude il cerchio» del ciclo di vita dei prodotti, incrementando il loro riutilizzo, favorendo i risparmi energetici, e diminuendo gli sprechi in ogni settore.
Qualche esempio: oggi in Europa un’ auto rimane parcheggiata in media per il 92% della sua «esistenza»; il 31% del cibo viene sprecato lungo la catena del valore, gli uffici in una giornata sono mediamente utilizzati per il 35%-40%, mentre la durata dei manufatti delle nostre industrie non supera i 9 anni.
Uno dei più autorevoli studi del settore, il rapporto «Growth Within» stilato da McKinsey e Fondazione MacArthur, ha calcolato quanto costa al Vecchio Continente la somma di questi sprechi: 7,2 trilioni di euro. Quanto potenziale ci sia nell’ economia circolare lo dimostra il mondo sempre più numeroso delle startup e delle aziende che innovano sui prodotti esistenti e sulla loro modalità di produzione.
Solo rimanendo in Italia, c’ è per esempio il filo in nylon riciclato prodotto da Aquafil e usato anche da Adidas per i suoi costumi. Le traverse ferroviarie realizzate con pneumatici dismessi e plastica da rifiuto urbano di GreenRail. Il lanificio Bellucci di Prato utilizza lana 100% rigenerata, e proprio a Prato, dove si lavorano stoffe da oltre mille anni, già nel secolo scorso era stato lanciato il primo (e inconsapevole) modello di produzione sostenibile con la lana rigenerata: materia prima che scarseggiava e che quindi veniva «stracciata» per poi essere recuperata nella produzione di nuovi abiti.
L’ azienda bergamasca Grifal produce il cartone ondulato, totalmente riciclabile e così resistente da poter sostituire il polistirolo o altri materiali chimici da imballaggio. Lo scorso giugno l’ azienda si è quotata all’ Aim, e dopo un solo mese il valore delle sue azioni ha registrato un più 160%. C’ è la Novamont, l’ azienda italiana che ha creato la plastica biodegradabile, utilizzata sia per le buste della spesa che in agricoltura: i teli per la pacciamatura si «compostano» nel terreno senza lasciare residui nocivi.
Contro l’ obsolescenza programmata, un’ azienda olandese ha progettato lo smartphone Fairphone, costruito per essere riparato: è modulare e ogni pezzo può essere sostituito facilmente. Costa 399 euro e le materie prime non provengono da zone di conflitto. È chiaro che per invertire direzione, l’ industria globale dovrebbe riconvertirsi. Ma quanto costa? Gli studi non lo dicono. Alcuni Stati hanno provato a calcolarlo: il Regno Unito stima un costo pari al 3% del suo Pil.
Eppure i cittadini apprezzano e sostengono le produzioni sostenibili. Secondo l’ analisi realizzata da PwC con Centromarca e Ibc, nel 2019 i consumatori di tutto il mondo cercheranno sempre più alternative salutari e naturali e i valori etici influenzeranno le decisioni d’ acquisto. I numeri: il 37% del campione vuole prodotti con packaging eco-friendly, il 41% dichiara di evitare il più possibile l’ uso di contenitori di plastica, più di due terzi dei consumatori è disponibile a pagare un prezzo più alto per prodotti a km zero; il 42% pagherebbe di più per prodotti ecosostenibili; il 44% è attento all’ origine e vuole sapere se il bene è stato prodotto eticamente.
E allora perché, oggi, solo il 9% della produzione è «circolare?» Cosa resta, a conti fatti, degli studi e delle proiezioni economiche? Ci sono le certificazioni e i premi per i prodotti più «virtuosi» come quella Cradle to Cradle , «dalla culla alla culla» per prodotti progettati in alternativa al modello «dalla culla alla tomba», che identifica prodotti ad alto spreco e zero riutilizzo. C’ è una direttiva europea, la 2014/95/UE, in Italia recepita a fine 2016, che ha introdotto per gli enti di interesse pubblico (società quotate, banche, assicurazioni e altri intermediari finanziari) con più di 500 dipendenti l’ obbligo di rendere note le loro politiche di sostenibilità ambientale, sociale, catena di fornitura, gestione delle diversità e dei rischi. Il tutto secondo il principio del Comply or explain : chi non fa nulla deve spiegare il perché. Esistono poi dei programmi come il CE100 della Ellen MacArthur Foundation, che riuniscono le aziende più impegnate sul fronte degli obiettivi ambientali e le promuovono. Ma alla fine una normativa di sistema non c’ è, e la maggior parte dei prodotti sono progettati per durare il meno possibile.
Nel campo delle energie rinnovabili il motore trainante è l’ Europa, la nostra Enel è leader nel mondo, e nel mercato sono entrati i pannelli riutilizzabili, ma oggi pesano solo per un quinto della produzione globale di energia. Un esempio su tutti racconta come continua a girare il mondo: l’ Arabia Saudita aveva annunciato il più grande impianto di energia solare del pianeta. L’ obiettivo del programma da 109 miliardi di dollari era quello di generare – da solare – un terzo del fabbisogno energetico del Paese entro il 2032. Erano sei anni fa, nulla è stato fatto.
Perché? Quando nel 2016 il barile era sceso a 27 dollari, per il regno saudita la transizione alle rinnovabili sembrava ormai imprescindibile, ma appena il prezzo del petrolio è salito, l’ urgenza è svanita. L’ unica vera pressione, oggi, arriva dalla consapevolezza degli adolescenti di tutto il mondo, che chiedono di avere un futuro abitabile… mentre i loro padri glielo stanno cucinando a fuoco lento.
Milena Gabanelli e Francesca Gambarini per il “Corriere della Sera – Dataroom”