Disoccupatezza

1 Mag 2015 | 0 commenti

Disoccupati-a-Napoli

Disoccupati-a-Napoli

 

Questo neologismo è stato inventato da un napoletano, intervistato per strada dalla troupe di Milena Gabanelli, l’ottima giornalista di Report.

L’arguto signore, con inconsapevole schiettezza, ha definito meglio di tanti dotti articoli di giornale, la nuova natura della disoccupazione in Italia.

Non siamo di fronte al disoccupato occasionale in cerca di lavoro, che vive cioè in uno stato di fatto doloroso ma transitorio, ma a una mutazione della natura stessa del fenomeno che agisce negativamente non solo nella sfera economica, ma esistenziale, come dato permanente e caratterizzante un nuovo status, una condizione socio-economica di precarietà che diventa precarietà dell’esistere, una diversa percezione psicologica di sé e degli altri. Il disoccupato, che non trova o non cerca più lavoro, entra in uno stato che non è più solo di disoccupazione, ma appunto di disoccupatezza,  contrae cioè una sindrome permanente che ne fa un individuo diverso e inedito, come succede per una malattia divenuta cronica e invalidante, che ci cambia dentro, muta la percezione del mondo, il nostro vissuto, la nostra stessa immaginazione del futuro.

In una parola, in Italia, non abbiamo più solo gli anziani non autosufficienti, gli invalidi, i diabetici, i cardiopatici, gli emofiliaci, ecc. ecc., abbiamo oggi anche gli affetti da una nuova malattia sociale: la disoccupatezza.  Si apre per medici e ricercatori, sociologi  psicologi un nuovo campo di applicazione, irto di spinose domande.

Chi sono i soggetti a rischio? Il cassaintegrato, chi si avvicina alla fine della c.i. speciale o lunga, chi è nelle liste di mobilità, o magari anche l’esodato? Oppure, chi ha un contratto di precariato, un lavoro a termine, una collaborazione fasulla, una partita IVA imposta o estorta?

E la fascia di età più a rischio qual è: il cinquantenne che perde il lavoro, oppure il trentenne che non lo trova? Il livello di istruzione incide oppure no: il laureato che fa il commesso o il centralinista contrae la disoccupatezza  più precocemente di un gommista o di un cameriere con la scuola dell’obbligo?

Ma quali possono essere i sintomi più eclatanti di questa nuova malattia?

Qualcosa che sta fra la ipocondria e la malinconia cronica?  Può precedere l’esordio della depressione o di sindromi psichiche, o di disturbi della personalità?  Può ingenerare atti violenti o autolesionistici, azioni  antisociali, degradazione morale?

Domande difficili,  inquietanti che già oggi ci dovrebbero indurre a guardare l’antico fenomeno del lavoro negato con occhi nuovi: da diritto costituzionalmente garantito esso si è trasformato in malattia sociale endemica, sul cui impatto per l’individuo e la società non esiste negli operatori, nella sfera politica e imprenditoriale e nel movimento sindacale la corretta consapevolezza.

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