La mia lunga residenza sul Pianeta Terra mi regala continue sorprese. Una di queste, accaduta alla Fondazione Prada di Milano, carezza la forma di una veggenza (ovvero, l’intuizione larga sul nostro presente) attraverso un artista che raccontava quanto di più normale ci fosse nella giornata di una famiglia borghese negli anni Sessanta.
Domenico Gnoli (Roma , 1933 – New York, 1970) era un pittore con uno spiccato feticismo per il dettaglio dentro lo sguardo, artefice quasi algebrico di un close-up metafisico che lo avvicinava ai pezzi facili, ma mai scontati, di una tipica abitazione italiana. L’artista, con modi da biologo cellulare, dipingeva l’identikit poetico dei corpi: uomini e donne, giovani o adulti, osservati con la chirurgica visuale di una lente che ingrandiva al parossismo i dettagli di abiti sartoriali, camicie e colletti, scarpe in cuoio, cravatte, soprabiti, asole e risvolti ma anche pettinature di foggia scolaresca e ben modellata.
La mostra (dal 27 ottobre 2021 al 27 febbraio 2022) si presenta come una retrospettiva che riunisce più di 100 opere realizzate da Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970) dal 1949 al 1969 e altrettanti disegni. Una sezione cronologica e documentaria con materiali storici, fotografie e altre testimonianze contribuisce a ricostruire il percorso biografico e artistico di Gnoli a più di cinquant’anni dalla sua scomparsa. La ricerca alla base del progetto concepito da Germano Celant è stata sviluppata in collaborazione con gli archivi dell’artista a Roma e Maiorca, custodi della storia personale e professionale di Gnoli. “Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento.” Domenico Gnoli
Poi, come un biologo appassionato di interior design, faceva il detective discreto sui complementi d’arredo: letti, divani, poltrone e tavoli, tovaglie, pavimenti e carte da parati, mantenendo il profilo lenticolare di una retina selettiva e gulliveriana, pronta ad ingrandire la natura domestica, creando l’idea fiabesca di un luogo dominato da oggetti incombenti e virali, come se la mela gigante di Magritte fosse uscita dalla camera per invadere le abitudini ritmiche di una società consumistica.
Durante gli anni Cinquanta il giovane Gnoli frequentò Parigi, Londra e New York, sperimentando la pittura tra contesti diversi, agganciandosi al teatro (costumi, scenografie, locandine, manifesti), giocando con gli esiti grafici dell’illustrazione, inventando storie oniriche e mondi con tracce fantasy. Fino al 1963 le pitture risentivano della cultura informale su cui si stava formando la generazione del Dopoguerra. Negli anni Cinquanta i soggetti erano aridi come deserti, sabbiosi e arcaici come archeologie del presente, giotteschi nella radice, drammaturgici nei colori di una terra che grondava il sangue dei morti. Poi arrivò il 1964, l’anno della Pop Art alla Biennale di Venezia, il momento in cui si stava disegnando un nuovo sguardo sul mondo. In quel frangente, mentre il colore ammorbidiva impasti e trame, le tele prendevano la luce calda degli interni domestici, una patina accogliente e familiare che accendeva l’occhio sulle piccole certezze di una borghesia lavoratrice e ottimista, segnata dalla violenza ma cicatrizzata per far crescere la pelle giovane del futuro.
La sua visione era archetipica e straniante, stella solitaria in un firmamento culturale che tendeva verso l’omologazione di generi e temi. Gnoli inventò la prima forma di un POP BORGHESE che mai si era visto finora.
Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia producevano le ragioni di una Pop Art detonante, proiettata verso la socialità del mondo esterno: le vetrine illuminate e le merci sugli scaffali (Andy Warhol e gli altri a New York), i feticci disintegrati della vita urbana (il Nouveau Réalisme in Francia), il feticismo erotico tra merci, corpi e mass media (Londra con la generazione di Richard Hamilton, Allen Jones, Peter Blake…), fino alla memoria artistica nel ciclo del presente (Roma con Mario Schifano, Tano Festa, Franco Angeli…). In questo firmamento di stelle lisergiche spiccava Gnoli con le sue storie da interni familiari, con la sua morbidezza realistica e classicamente silenziosa, contraddizione risolta tra un dipingere nel solco della Storia e un approccio fotografico da outsider laterale.
Domenico Gnoli è vissuto troppo poco ma ha prodotto con un nitore selettivo da maestro di cerimonie estetiche, lasciando un patrimonio che indica molteplici direzioni dell’arte più attuale. Basti pensare al gigantesco serbatoio di opere digitali con tecnologia NFT, un ambito ancora oscillatorio in cui il feticismo ossessivo per i dettagli, sia organici che inorganici, incarna la natura di una generazione geneticamente sintetizzata. Gli autori digitali sembrano il prodotto binario di un genoma culturale che rende Gnoli il più veggente tra i pittori della sua generazione. Un visionario borghese che intuiva gli esiti del consumismo estremo, rifugiandosi nel caldo tepore di una casa accogliente, fuori dal caos militante, oltre le mode istantanee e le ideologie rivoluzionarie, nella morbida protezione di un divano davanti al camino. Possibilmente con un abito sartoriale addosso.
Articolo di Gianluca Marziani per Dagospia