LAVORARE CON FELLINI, su un set frastornante e promiscuo, all’insegna della improvvisazione e della mutevolezza. Nei ricordi di Andrea De Carlo, assistente del regista nel 1983, il ritratto di un artista imprevedibile ed estroso fino allo sgomento – oscillante fra sogno, allucinazioni, irreverenti sbeffeggi- dotato dell’incredibile capacità totalizzante di ricostruire un mondo di cartapesta, più avvincente e vitale della realtà.
È interamente dedicato a Federico Fellini, nel centenario della nascita, il numero di novembre di Linus. Nella rivista – oltre a disegni, fumetti e testi inediti del regista (tra cui un progetto sull’Inferno dantesco, reinterpretazione in chiave comica delle proposte che gli arrivavano di continuo da parte dei produttori americani per convincerlo a trasformare la Divina Commedia in un kolossal hollywoodiano), un contributo di Andrea De Carlo, che nel 1983, poco più che trentenne, gli fece da assistente per il film del 1983 E la nave va. Ne anticipiamo un ampio stralcio.
La preparazione di E la nave va si era rivelata un processo lunghissimo, perché mettere insieme un film di Fellini era estremamente complicato, oltre che costoso da far paura. La sua scarna sceneggiatura iniziale di poche decine di pagine si arricchiva giorno dopo giorno di annotazioni, appunti, schizzi a matita e a pennarello, disegni più elaborati, fotografie che si allineavano su un tabellone di sughero appeso a una parete del suo ufficio al primo piano del Teatro Cinque, il più grande di Cinecittà, dove lui aveva girato gran parte dei suoi film. […] Per identificare gli attori del suo film Fellini si basava su sogni, disegni, chiacchierate con collaboratori e amici, convocazioni, segnalazioni di agenzie, consultazioni con maghi, viaggi di ricerca. Lo stesso processo discontinuo ma inarrestabile valeva per le scenografie, i costumi, le musiche. I costi dell’impresa salivano di giorno in giorno con il mutare delle sue idee, i produttori alternavano distacco a fatalismo a pessimismo nero. Le giornate della preparazione si dilatavano tra discussioni convulse, liti, distrazioni, perplessità, telefonate interrotte da escursioni in carovane di macchine verso un ristorante dei Castelli Romani, dove la nostra corte felliniana consumava pasti interminabili.
A un certo punto avevo calcolato con sgomento che tra pranzo e cena passavamo ogni giorno dalle cinque alle sei ore seduti a tavola; d’altra parte la tavola era uno dei luoghi in cui Fellini si dedicava più volentieri all’arte del racconto, rielaborando vecchie storie e creandone di nuove, mescolando verità, immaginazione e bugie con stupefacente, inarrestabile capacità affabulatoria. Ho continuato a fargli da assistente e testimone per mesi e mesi, mentre la sua idea di cosa dovesse essere E la nave va continuava a evolversi e le costruzioni andavano avanti. Il set principale consisteva nel ponte di una nave a grandezza naturale montato su quattro giganteschi pistoni idraulici costruiti in Svezia, che lo facevano rollare e beccheggiare come il ponte di una nave vera. I produttori avevano tentato in tutti i modi di convincere Fellini che sarebbe stato infinitamente più semplice muovere la macchina da presa invece dell’intera scena, ma lui era irremovibile, continuava a ripetere che solo un ponte rollante e beccheggiante avrebbe dato agli attori la sensazione di essere su una nave. Il che era paradossale, considerando quanto poco gli importava delle sensazioni degli attori, e quanto poco realistica fosse la rappresentazione della crociera funebre che aveva in mente, con un cielo finto e un mare di plastiche azzurre smosse dagli attrezzisti per simulare le onde. In realtà lo divertiva avere a disposizione un giocattolo gigantesco, che forse avrebbe potuto suggerirgli idee interessanti e inaspettate.
L’ispirazione dell’ultimo minuto e l’improvvisazione erano fondamentali nel suo modo di fare film: utilizzava attori, comparse, scenografie, luci come un pittore che afferra pennelli e colori a seconda dell’estro del momento. Mi ricordo il suo sguardo trionfante e beffardo quando l’ho visto per la prima volta lassù in alto, appoggiato al parapetto del ponte della finta nave, raggiungibile solo con una lunga scala retrattile su cui dovevano avventurarsi ogni volta tecnici, attori e comparse. Non ho idea di come fosse stato possibile assicurare un set così assurdamente pericoloso, ma quando si trattava di Fellini c’era sempre la possibilità di un’eccezione alle regole. Il cast non avrebbe potuto essere più eterogeneo, una miscela di tipi strani e mezzi matti che si presentavano a ogni convocazione, gente presa dalla strada, professionisti collaudati, attori di nome trovati attraverso le più importanti agenzie europee. I raffinati interpreti inglesi del teatro di Shakespeare oscillavano tra sgomento e incredulità quando si rendevano conto di non avere quasi battute da imparare a memoria, e di dover recitare insieme a personaggi scelti unicamente in base al loro aspetto, a cui Fellini faceva pronunciare numeri perché muovessero le labbra.
Del resto per lui gli attori erano soprattutto facce e corpi, maschere da usare nella sua commedia: la loro abilità era quasi irrilevante, tutti sarebbero stati doppiati a montaggio finito. Bastava che riuscissero a replicare i gesti e le espressioni che lui mimava durante le riprese, mentre gridava «Guarda in su, guarda in là, in là! Gira quella capoccia, sorridi, sorridi!». Una volta mi aveva fatto vedere un disegno in cui si era ritratto come un gigantesco burattinaio che teneva appesi ai fili sua moglie Giulietta e Marcello Mastroianni. Ogni cambio di scena richiedeva laboriosi, lentissimi spostamenti dei riflettori da migliaia di watt attaccati alle impalcature. Attori e comparse scivolavano nel vuoto di attese interminabili, vestiti e truccati in modo da non essere più sé stessi, e restavano in quello stato di sospensione fino al momento in cui Fellini li avrebbe richiamati in vita, mentre meccanici ed elettricisti si indaffaravano e il direttore della fotografia inseguiva la luce giusta.
A seconda dei giorni e dei momenti il set era un circo, un teatro dell’arte, un sogno guidato, un incubo, un luogo di psicodrammi, un contenitore di rivelazioni miracolose. Al centro c’era sempre lui, con il suo cappello, la sua sciarpa, il suo grande cappotto e il megafono in mano, come un domatore che tiene a bada i leoni con la frusta, come un Nerone che suona la lira mentre Roma brucia, come un compagno di viaggio illimitatamente comprensivo, come un dio greco che passa con naturalezza assoluta dalla benevolenza alla crudeltà, stupito lui stesso del suo potere sugli altri e dell’attenzione che suscitano le sue azioni, assorto in quello che fa e distaccato, tremendamente serio e sempre pronto a una battuta smitizzante, pronunciata a bruciapelo con il più straordinario senso del tempo.
Andrea de Carlo La Stampa