“Fu fatto estremo schiamazzo”, dai popolani, quando portarono il quadro della Lena dentro alla chiesa. O meglio il dipinto della Madonna, quella dei Pellegrini. Soltanto che gli schiamazzanti, già turbati da quei “piedi fangosi di deretano”, non riuscivano a vedere la Madonna con il Figlio in braccio (non si chiamava Leone, tranquilli) e vedevano solo la scandalosa Lena, la Maddalena Antognetti che nel quartiere faceva quel mestiere là, e del pittore era pure l’amante. Troppo riconoscibile, anche per quelli che ancora non avevano l’Instagram. Gli schiamazzanti del Ventunesimo secolo hanno patito il medesimo scandalo, riconoscendo sotto il velo blu cobalto gli occhi ton sur ton di Chiara Ferragni, che nel quartiere globale fa quel mestiere là: l’influencer. Gli scandali nell’arte accadono sempre due volte.
La prima volta è Caravaggio, la seconda volta i somari sui social media. Dove i popolani bigotti del Codacons vanno a caccia di blasfemie sperando di lucrare qualcosa, almeno uno cencio di visibilità, dalla loro stupidissima caccia alle streghe.
Non è la prima volta, “arte contro influencer” è miscela scatenante di flatulenze. Il popolino dei bigotti, guidato dagli zampognari della Cultura, si scatenò addì 16 luglio 2020, quando al direttore Eike Schmidt che se la trovò di passaggio (non fu ingaggio né mercimonio, come pure si disse) venne l’idea di farsi un selfie, di gomito, con Chiara Ferragni. Davanti alla Primaveradi Botticelli. “Fatela spostare che mi copre la Venere”, “come siete caduti in basso Uffizi” furono i commenti meno indecenti. Poi arrivarono quelli peggio, gli zampognari: “Non ce l’ho con lei, ma con il direttore degli Uffizi che la strumentalizza. Ha notato come non ci sia neanche una foto di lei che guarda la
Primavera, ma che sia sempre ritratta mentre dà le spalle al quadro?” (Tomaso Montanari). Ispirato forse da quei greci che sdegnati rifiutarono i milioni di Gucci che voleva sfilare al Partenone: “Abbiamo il dovere di proteggere l’Acropoli, un simbolo globale di democrazia e libertà”. Poi si poté leggere, sui giornali: “Effetto Ferragnez agli Uffizi. Oltre all’inedito dato degli Uffizi trend topic su Instagram e Twitter, c’è quello dei visitatori accorsi in Galleria tra venerdì è domenica: più 24 per cento”.
Funziona sempre così, e in fondo fa parte del gioco e del fatturato, con Chiara Ferragni: lo maggior corno della fiamma antica a cui gira attorno, fiammella minore ma essenziale come i satelliti attorno al corpo celeste, Federico Leonardo Lucia in arte Fedez, rapper e socio e marito. Insomma il titolare del suffisso “ez” della premiata ditta. Come Maria e Pierre Curie, Eva Kent e Diabolik, Hillary e Bill: le coppie affiatate hanno sempre un business da realizzare insieme, altrimenti si finisce come Briatore e Gregoraci. Loro sono ricchi, giovani ancora, famosi, pieni di idee e persino con l’aria di una bella famiglia. Con dei progetti. Ma non è questo che li rende odiabili, almeno tanto quanto per altri sono invece desiderabili.
Organizzarono un matrimonio trompe-l’oeil a Noto, se lo fecero pagare, torta compresa, dai milioni della pubblicità attratta dai milioni di invitati online alla cerimonia post barocca. Un colpo di genio. Si scatenarono gli hater. Lei organizzò una festa di compleanno per lui al supermercato. Si scatenarono i difensori della lattuga e della fame nel mondo, “un giorno vi impiccheremo”. Lui disse “mi assumo la colpa di aver lanciato qualche foglia di lattuga”, Selvaggia Lucarelli in versione psicoanalista parlò di perdita di contatto con la realtà. Furono smentiti direttamente dal Carrefour: tutto in regola, conto saldato e nessuno spreco, scaffali in ordine. Farsi smentire anche dal supermercato è una brutta cosa, per i leoni da carrello. Loro vivono così, per mestiere sovraesposti (in hashtag diventa #neverstop). Mettono una foto del bambino, mentre ancora è un’ecografia, e li accusano di sfruttamento dei minori. Arimettono la foto di Leone, che intanto è diventato bello quasi come Gesù (cit.) e tiene in mano l’ecografia del fratellino in arrivo, e li riammazzano per doppio sfruttamento dei minori. La regista Elisa Amoruso porta a Venezia il suo documentario Chiara Ferragni – Unposted e il Codacons, sentiti si presume Zdanov e don Bosco, dichiara che è immorale, “non è un modello per i giovani”. Chissà dov’erano quando uscì Il Padrino.
Tirando le somme. Quelli che passano tre quarti del loro tempo a criticare, insultare, denunciare, blastare i Ferragnez sono, in elenco: il Codacons, i critico-rosiconi culturali, gli hater da tastiera, i giornalisti che, senza nemmeno la scusa di essere âgée, fanno gli scandalizzati per quello che vedono (sentono dire) accada sull’Instagram e poi usano il sentito dire per scrivere sui giornali.
E tutti quelli, di cui fanno parte anche le categorie precedenti, che li odiano à la Piketty perché fanno i soldi, perché fanno commercio delle loro stesse vite partecipando allo sviluppo del Mercato, perché producono ricchezza avendo inventato un nuovo lavoro e un nuovo prodotto e si prendono la loro quota parte. Fatto l’elenco e tirata la somma: gli anti Ferragnez sono i nostri stessi noiosi nemici, quelli che ci vorrebbero più scemi, più brutti e più poveri. Dunque stiamo coi Ferragnez tutta la vita. Uno di noi (o due).
Ci sarebbe poi da chiedersi, già che ci siamo avventurati in argomento, il perché di tanto ostile rancore. Jacques Séguéla è stato uno dei grandi rivoluzionari del linguaggio della pubblicità, negli anni in cui si avviava la rivoluzione delle merci e della società e l’advertising divenne il motore di una rivoluzione culturale. Non disdegnava nessun tipo di prodotto, neppure la politica. Fu lui a ideare il claim della campagna elettorale che portò trionfalmente Mitterrand all’Eliseo, “La force tranquille”, il miglior slogan politico dai tempi del “Labour isn’t working” con cui Saatchi & Saatchi spinsero Thatcher a Downing Street. Séguéla era un uomo brillante, il contrario dell’intellettuale da salotto (“il mio mestiere non è di avere opinioni, ma di avere delle idee”). Scrisse un libro, era all’apice della carriera, con un titolo straordinario e programmatico: Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei mi crede pianista in un bordello. Il mondo era cambiato e stava cambiando grazie a gente come lui o Charles e Maurice Saatchi, ma gli intellò, la classe politica e una società poco disponibile alle trasformazioni consideravano il mercato un male, e la pubblicità un lavoro disdicevole per un colletto bianco intelligente. Invece i pubblicitari furono, per lungo tempo, i più aggiornati intellettuali – occhi per vedere e orecchie per ascoltare – di un mondo che non andava necessariamente verso il peggio. Il flusso delle merci nell’èra del digitale è cambiato.
E così è cambiata la pubblicità nell’epoca del social media e dell’immediata desiderabilità di tutto. Chiara Ferragni, con il suo suffisso satellite in “ez”, è una pubblicitaria, anzi è proprio un veicolo pubblicitario, del nuovo mondo. Si è inventata, la prima in Italia e tra le più brave nel mondo, roba che la studiano all’università in America, un lavoro che non c’era per un’economia che non c’era. Ma che serviva, come negli anni della tivù commerciale servivano i pubblicitari. Per qualche anno si è detto che è una influencer, prossimamente chissà. Ha fatto quel che voleva e lo ha fatto bene. Chi ce l’ha con il suo lavoro? Gli stessi a cui Séguéla dedicava il titolo del suo libro: i malmostosi, gli incapaci di intendere la modernità, per i quali la ricchezza era la grande meretrice e la pubblicità l’anticamera del bordello. L’accusa è sempre quella, per il vecchio Jacques e per i giovani Ferragnez, essere dei cattivi maestri. Diceva il vecchio: “La pubblicità non sceglie per nessuno. Permette di scegliere meglio. E basta”. Quelli che odiano per isteria da tastiera, per invidia, per pauperismo, perché hanno trent’anni ma hanno nostalgia degli anni Cinquanta che non hanno mai visto (ne è pieno il web, strana pandemia dei figli della vecchia piccola borghesia) lo fanno, in fondo, perché non hanno mai capito niente della pubblicità. E dei desideri.
Ho fatto una rapida ricerca nella mia bolla professionale, settore donne moderne e brave: nessuna si fa particolarmente influenzare da come si veste Ferragni. Ho alcune stupendissime nipoti liceali, stanno benissimo anche senza comprare le ciabatte di plastica messe in bella mostra nelle foto. Insomma si può vivere tranquillamente anche senza i Ferragnez, ma sarebbe un mondo meno divertente. O almeno colorato.
Poi gli anni passano, le mamme anche dei Ferragnez invecchiano, il piccolo Leone cresce bene nonostante le macumbe degli hater. E si cambia. Per non morire. Per esempio, arriva il coronavirus. Tappati in casa, Instagram non è più il mondo fatato dove vivono e fanno la grana i ricchi e stronzi, diventa un posto assembrato da tutte le pizze e le torte cucinate nei bilocali senza boschi verticali, da tutte le canzoni stonate dal balcone, da tutte le librerie allestite dietro al tavolo sparecchiato per lavorare. Non ci sono nemmeno più le sfilate, gli eventi, gli aperitivi in terrazza da seguire per vedere chissà come si sono vestiti i Ferragnez. Non ci vuole molto a capire che non c’è più neanche il lavoro degli influencer. E allora loro (o allora lei) che sono intelligenti, magari più istruiti dei loro follower o imitatori professionali, o semplicemente hanno visto più mondo, lo hanno capito per primi. Mentre su tutti i giornali e i talk tutti i pensosi del pianeta si chiedevano “come sarà il domani?”, loro hanno deciso che era ora di fare una cosa diversa. Persino adulta. Si sono messi a ristrutturare l’azienda e il concept.
A marzo, mentre nella loro Milano si moriva a grappoli e tutto sembrava perduto, hanno lanciano un fundraising per donare soldi al San Raffaele (orrore, i privati!) per costruire un reparto di terapia intensiva. In qualche giorno sono arrivati oltre quattro milioni. Fatto. “Questo è il potere dei social network quando sono usati nel modo giusto”, hanno detto. Ma c’è anche chi li ha coperti di sospetti: lo faranno per guadagnarci qualcosa? Poi si sono messi la pettorina e la mascherina e, mentre i loro hater se ne stavano sul divano sfondato a maledire le donne il virus e il governo, sono andati in giro coi volontari a distribuire la spesa e le medicine ai vecchietti che non potevano uscire. Li hanno coperti di contumelie perché lo facevano, ovvio, soltanto per farsi la pubblicità. Invece hanno creato una cosa nuova. O magari hanno capito che nel mestiere dell’apparire, e dunque dell’essere, bisogna dare anche un esempio. Hanno trasformato l’attività di agenti di commercio ispirazionale in quella di economisti circolari delle idee utili. La documentarista Amoruso ha detto: “Penso che la gente sia molto sola, che abbia bisogno di partecipare anche virtualmente a vite altrui per sentirle amiche. Per sognare, per imparare. In questo senso credo che la vita e il lavoro di Chiara diano anche una immagine di educazione, gentilezza, serenità, impegno. Dove non esistono rabbia, insulti, razzismi, crudeltà, maledizioni, che quotidianamente ci sommergono”.
Poi la gente è tornata per strada, compresi i fascistoidi palestrati in vena di massacrare la gente. Lei fa un post da qualche parte per denunciare il fascismo eterno (no, ovvio che non ha usato la citazione cult del ceto medio riflessivo), ma insomma quella roba lì. Apriti cielo. Lui ha replicato che sembrava un libro stampato, seppure di sociologia anni Settanta: “Il problema di questa società saremmo noi? Dicono che i criminali si ispirerebbero a noi perché porteremmo avanti un modello vuoto e narcisista. Diamo per assodato che Chiara Ferragni e Fedez siano il problema di questa società”. Il punto non è se è abbiano ragione, è che ora che sono diventati parte attiva della scena pubblica, al pari dei politici dei calciatori e dei virologi, hanno il diritto dovere di posizionarsi persino nel dibattito delle idee. (Magari senza esagerare, eh). Finora lo hanno fatto dalla parte giusta: due di noi.
L’intuizione genialoide di Francesco Vezzoli che ha dipinto Chiara Ferragni come una Madonna del Sassoferrato parla di tutto questo. Da essere soggetto e corpo della pubblicità, e oggetto del “dibattito” sulla pubblicità – in fondo lo fu anche Calimero, il pulcino nero: che era solo un cartone animato ma divenne un simbolo dei dibattiti sul razzismo – è salita in un cielo più alto, quello delle icone. Delle immagini-concetto che racchiudono un pezzetto di senso di un’epoca. A 33 anni (63 in due) non è male come risultato. Due di noi, o almeno i nostri nuovi modelli ispirazionali.
Congedo con dedica d’autore: “La ragazza dietro al banco mescolava / birra chiara e Seven Up / E il sorriso da fossette e denti / era da pubblicità”.
Articolo di Maurizio Crippa per il Foglio Quotidiano