Un mistero buffo circonda l’avventura popolare di Ennio Morricone, un complesso del talento che ha fatto strada al suo successo da rockstar. Ennio, lo splendido film di Giuseppe Tornatore, omaggio postumo, è un capolavoro per stile, profondità, larghezza delle testimonianze, durata (due ore e mezzo che scivolano senza pesantezza).
Racconta tutto il possibile e offre gli elementi per provare a svelare quel mistero buffo: spiega perché Morricone è diventato Morricone nonostante il suo carattere schivo, sornione e ironico. Nonostante il suo distacco apparente, quel senso quasi di inadeguatezza che ha provato per molto tempo, come se comporre musiche da film non fosse onorevole, soprattutto per non aver perseguito quello che il suo maestro Petrassi e i suoi colleghi dell’avanguardia musicale si sarebbero aspettati da lui. Alla fine, pur avendolo conosciuto abbastanza bene da almeno quarant’anni, ho capito che il segreto della sua musica nasce proprio da lì, da quel complesso.
Dal fatto di essere dotato di un talento smisurato per l’invenzione melodica, pur negandone l’importanza e il valore, dal grumo di sentimenti antagonisti, dal contrasto fra l’importanza assoluta, quasi religiosa, che ha avuto la musica nella sua vita e il realismo della vita professionale, abituata a affrontare i problemi quotidiani da quando, dopo la guerra, ha dovuto fare la gavetta per mangiare, suonando a 15 anni nei night come le Grotte del Piccione o nell’orchestra del Sistina. Il fare musica per vivere si è trasformato in bulimia professionale.
Morricone è stato capace di fare 26 colonne sonore in un anno (1972). E ha scritto arrangiamenti a getto continuo: «Prendevo 20 mila lire a canzone più le royalties sulle vendite. Ero contento. La mia vita è stata segnata dalla paura di restare senza lavoro». Faceva tutto Ennio: per Vianello ha scritto e arrangiato anche un pezzo (non passato alla storia) che si intitolava Cicciona cha cha cha (ha preferito non firmarlo usando lo psedonimo Dan Savio).
Ma in tutti i lavori, anche quelli meno onorevoli e quelli che forse lo disturbavano di più, ricorreva alla sua arte nascosta, alla sua preparazione. Non tanto tempo fa mi aveva confessato: «Scrivevo arrangiamenti che potessero nascondere la mediocrità di certe melodie e rivelare le mie conoscenze tecniche».
Ecco, così, la contaminazione, il ricorso al bagaglio di esperienze e conoscenze creative, in particolare quelle fatte con il gruppo sperimentale Nuova consonanza. Ecco l’uso di idee, di insegnamenti e studi profondi (da Stravinsky a Stockhausen) per salvare le banalità di canzoni semplici e popolari, idee che poi sono diventate il marchio Morricone: il barattolo che rotola nella canzone di Gianni Meccia, la macchina da scrivere e la bacinella d’acqua in Pinne fucile ed occhiali, il fischio che annuncia Pel di carota di Rita Pavone («un pezzo semplice e scemo» ce lo ha bollato un giorno), le discese e le risalite ardite dei fiati mescolati alle voci del coro che canta A-A-Abbronzatissima, le trombe che annunciano la magnifica cavalcata di Se telefonando, l’intro sinfonico che fa da apripista a «gira, il mondo gira» di Jimmy Fontana, quei clarinetti che mimano l’insistenza di un clacson in Go kart twist. Il giro di basso spezzato da tocchi dissonanti di pianoforte che introducono Sapore di sale.
Ed ecco il magic touch di tante colonne sonore diventate il monumento della sua carriera, spesso più importanti dei film stessi: l’urlo del coyote di Il buono, il brutto e il cattivo, lo schioccare della frusta dei film western, il piano stonato di Indagine su un cittadino. In ogni cosa che faceva delle tante che faceva c’era il segno di un genio popolare naturale, origine del suo successo e del suo cruccio esistenziale. La rappresentazione piena l’ho avuta una quindicina di anni fa, quando Morricone venne invitato all’Onu per eseguire una sua composizione, Voci dal silenzio, in ricordo dell’11 settembre. Un’occasione retorica, di cui andava orgoglioso. Il giorno dopo Ennio era atteso al Radio City Music hall per un programma tutto chiamato a soddisfare le richieste del pubblico, ascoltare le musiche famose dei suoi film.
E fu una serata grandiosa, di grandioso successo. Non solo, anche la prova a distanza ravvicinata di quanto il vero, autentico miglior Morricone fosse quello popolare, geniale, personale di C’era una volta in America o di Il brutto, il buono e il cattivo. Il Morricone amato, usato dalle rockstar come gli U2 e Springsteen che apriva i suoi concerti con la musica di C’era una volta in America, adulato dalle folle indistinte, anche quelle a distanza siderali dal suo mondo. Il Maestro che, proprio da quel giorno al Radio City, si è scoperto anche uomo di scena, iniziando un’avventura in crescendo, andando a dirigere e suonare le sue musiche sempre più richiesto, sempre più pagato, sempre più ammirato.
Quando ha compiuto 90 anni, tre anni e mezzo fa, mi raccontò: «Ora basta, continuerò a fare concerti e, anche se sono pieno di copioni, lavorerò solo con Tornatore». L’ultimo lavoro è il suo monumento, il film Ennio che, per confermare la sua storia, pur essendo un documentario, sta riscuotendo un successo fuori misura.
Marco Molendini per Dagospia