ERNEST, FRA VIAGGI, GUERRE E RIVOLUZIONI

12 Set 2019 | 0 commenti

Eternemente sbronzo, esibizionista e trasgressivo, Hemingway col suo linguaggio asciutto, allusivo e contaggioso, seppe decrivere il mondo com’era non come desiderasse che fosse, nevroticamente alla ricerca di un approdo che non gli riuscì mai di trovare.

Qualche anno fa, in un albergo di Siviglia, rilessi all’ anziano matador de toros Jaime Ostos quanto Ernest Hemingway aveva scritto su di lui vedendolo in azione nell’ arena a metà del secolo precedente: «Jaime Ostos mostrò lo stesso coraggio dei cinghiali delle Sierras della sua regione. Come il cinghiale, dava prova di un’ audacia quasi folle e rischiava sempre più grosso fino a sembrare uno che vuole suicidarsi».

Il libro di Michael Katakis su Hemingway

Riascoltando quelle parole, Ostos minimizzava lusingato, col suo ghigno da cinghiale. Commentò: «Hemingway era una cara persona, un sentimentale. Beveva molto. Faceva colazione con una bottiglia di vino e due croissant. Come scrittore non si sentiva capito. Diceva: forse non riesco più a esprimermi, ma io continuo a scrivere le cose come le sento e non posso che andare avanti così».

Incompreso Hemingway? L’ uomo del Nobel e del Pulitzer? Dei bestseller globali? Sì, il vecchio torero ricordava bene. Perché “Ernie” appartiene ormai alla riserva protetta dei classici, ma per tutta la vita venne incornato dalla critica. Nei romanzi e ancora di più nei racconti, aveva scarcerato la prosa inglese dall’ eloquenza, dall’ enfasi, dal fronzolo vittoriano, però – a giudizio dei suoi detrattori – si era lasciato imprigionare troppo presto in uno stile da duro che rasentava l’ autoparodia involontaria.

Mr. Papa incassava quegli attacchi malissimo e già alla fine degli anni Trenta denunciava i sintomi paranoidi della sindrome da accerchiamento: «Mi odiano, vogliono farmi fuori» si legge in una lettera.

Lo scontro più celebre, se non altro perché fisico, con un critico ebbe luogo a New York nell’ agosto ’37. Prima di ripartire come reporter per la guerra di Spagna, Hemingway incrocia negli uffici dell’ editore Scribner un tizio col quale ha un conto in sospeso. Si chiama Max Eastman, è il giornalista che dalle colonne della rivista progressista New Republic ha malmenato il suo “trattato” sulla tauromachia Morte nel pomeriggio sfottendone soprattutto il machismo: la boria, ha scritto, «di chi si appiccica peli finti sul petto». L’ ego virile sanguinante, “Hem” se l’ è legata al dito.

Nei locali della Scribner lo vedono afferrare un libro e scagliarlo in faccia al recensore. I due si avvinghiano, rotolano sul pavimento rovesciando scrivanie. Seppur con gli occhiali rotti, Ernest – che è più grosso e pratica il pugilato – sta per avere la meglio, ma si trattiene. Li separano. I duellanti si ricompongono bofonchiando parole di scusa. Sotto lo sguardo impietrito del grande editor Max Perkins, la bagarre si chiude lì. Ma il livore anti-Hemingway avrà vita lunga, cristallizzandosi in un pregiudizio che, oggi, nell’ impero del politicamente corretto, rischia di trovare nuova linfa.

Hemingway e Scott Fitzgerald

Macho col sorrisetto sghembo alla Clark Gable, robusto amatore e bevitore, fanatico di corride, pescatore nei Caraibi, cacciatore in Africa… A 120 anni dalla nascita – 21 luglio 1899 – è di quell’ Hemingway poseur che tornano a parlarci molte tra le foto, alcune inedite, raccolte nel sontuoso volume mondadoriano Hemingway. L’ uomo e il mito. Ecco, appunto: il mito. «Io non lo sopporto. È semplicistico, limitante, stupido. Il vero Hemingway era una personalità complessa, ricca di sfumature. Era affettuoso, crudele, una brava persona e un bastardo, un tipo insicuro, spaventato dalla vecchiaia e dalla morte. Certo, la responsabilità dell’ aver creato il mito fu in parte anche sua.

Commise l’ errore nel quale incappano spesso i “famosi”: quello di pensare di poter controllare il proprio mito. Ma non funziona così: il mito assume una vita propria». Ed è lui a controllare te.

Parola di Michael Katakis. Oltre che curatore dell’ album ora tradotto in italiano, è il signore a cui gli eredi hanno affidato l’ onere gravoso e invidiabile di gestire i diritti mondiali di Hemingway. Buttali via. Katakis vigila e tratta non solo sui libri di Mr. Papa ma pure sulla massa di cimeli oggi custoditi alla John Fitzgerald Kennedy Library di Boston. Lettere, telegrammi (tra i quali uno in cui l’ ancora senatore JFK chiede a Ernest di chiarirgli il concetto di “coraggio”), plichi “top secret” dei servizi militari di intelligence sotto Eisenhower, e poi assegni, scontrini di librerie, biglietti di aerei, treni, navi…

Più una marea di foto: undicimila. Hemingway è stato lo scrittore più fotografato del Novecento. Ma che rapporto aveva con la propria immagine? «La curava molto» risponde Katakis. «Oltretutto aveva la fortuna di essere fotogenico. Ha presente le famose foto realizzate a Sun Valley, Idaho, nelle quali lo vediamo con i figli o con Gary Cooper? Sono sbalorditive, alcune vennero scattate da Robert Capa. Ma Patrick, il secondogenito di Hemingway, mi ha confessato che erano costruite a tavolino per promuovere quella località. Succedeva spesso che al padre offrissero alloggio gratis e altri vantaggi per usare la sua faccia a scopi pubblicitari». Questa di Hemingway cripto-testimonial turistico ci mancava.

Hemingway con Silvia Beach a Parigi

Il narcisismo “mediatico” di Ernest era cominciato molto presto. Prendi quello scatto celeberrimo che a Parigi, da giovane, lo ritrae insieme a Sylvia Beach davanti alla libreria Shakespeare and Company: Hemingway sogghigna spavaldo con la testa fasciata da una benda delle dimensioni di un turbante. Che gli è successo? Niente di speciale. Una notte che era sbronzo si è alzato per andare al gabinetto, ma al buio ha scambiato la catenella dello sciacquone con quella della luce e tirando di strappo s’ è fatto crollare la plafoniera sulla zucca. E il giorno dopo eccolo lì che sfoggia la cicatrice nemmeno fosse una ferita di guerra.

Civetterie di un esibizionista precoce, ma anche di uno che, fondendo esperienze vissute e scrittura, aveva deciso di scaraventare in quell’ impresa tutto se stesso, a cominciare dal proprio corpo. E, dalle 220 schegge di mortaio austriaco che a diciott’ anni s’era beccato nelle gambe mentre faceva l’ ambulanziere sul fronte italiano ai terribili incidenti aerei durante il viaggio africano del ’54 dal quale rientrò mezzo cieco e sordo, con cranio ustionato, fegato e rene stritolati, fratture multiple alla spina dorsale, quello di Hemingway fu – in vita – il corpo più martoriato nella storia della letteratura.

A un secolo di distanza è davvero difficile rendere l’ idea dell’ impatto che una simile figura di scrittore-personaggio produsse sulla scena letteraria dell’ entre-deux-guerres. Per quanto i bollori dei “folli” anni Venti incoraggiassero certe trasgressioni, Ernest Miller Hemingway atterrò in quella temperie come un venusiano. Era un giovanotto della buona borghesia di Chicago che, contro i desiderata di una madre arpia e della propria classe, aveva rinunciato all’ università per mettersi a fare il sordido mestiere di giornalista. Il vero scrittore «è uno zingaro» avrebbe teorizzato più tardi, ma nomade lui lo divenne da subito.

Tra viaggi, guerre e rivoluzioni spesso vissute come vacanze estreme, «Hemingway est tout le temps dehors», è sempre da qualche parte là fuori, chiosava un critico francese. Rompendo con l’ immagine del letterato ottocentesco sigillato in uno studio, Mr. Papa scrive in alberghi, bar, accampamenti nella savana. Perfino quando lavora in casa sembra circondato da una caotica atmosfera di provvisiorietà non sedentaria. Quanti la visitarono prima che venisse plastificata a museo, raccontano la dimora cubana della Finca Vigía come un delirante bric à brac di poltrone sfondate, pendole scariche, teste di bufalo, pelli di antilope, pugnali, cavallucci di Murano, pipistrelli sotto formalina, quadri di Miró, Braque, Masson, cappe da torero, medicinali, e le pareti del bagno cosparse di graffiti perché Hemingway si controllava la pressione ogni giorno annotandone i valori sul muro. Ernest gira in bermuda sorretti da uno spago o da una cintura con su inciso Gott mit uns sottratta al cadavere di un tedesco durante l’ ultima guerra. Un filo balbuziente, in Europa e a Cuba parla un esperanto di sua invenzione nel quale mescola spagnolo, francese e italiano. Negli States ha invece il vezzo di esprimersi come i pellerossa nei vecchi western o nelle barzellette: «Io scrivere libri.

Io pensare mai» ridacchia, contro gli intellettuali.

Anche grazie a stravaganze del genere, Hemingway divenne «un trendsetter, un creatore di tendenze», ricorda Katakis. I giovani, ragazze comprese, iniziarono a radunarsi nei posti da lui celebrati, a scimmiottare il linguaggio prosciugato, allusivo e così contagioso dei suoi libri. Che all’ occasione non disdegnavano il turpiloquio. Defense of Dirty Words si intitolava un articolo del ’34 nel quale “Ernie” giustificava quel vocabolario per amore di realismo.

Osserva Katakis: «Oggi viviamo in un’ epoca politicamente corretta. Per certi aspetti va benissimo, mentre su altri è repressiva e stupida. Penso che Hemingway comprenderebbe il fastidio odierno, che so, verso la caccia, ma credo che non accetterebbe limitazioni alla libertà di dire o scrivere. Lui non aveva paura delle parole. Cercava sempre di scrivere com’ era realmente il mondo, non come desiderava che fosse. A me pare che in quest’ epoca teoricamente illuminata continuiamo a incontrare la stessa quantità di stronzi di sempre. Oggi però non si può chiamare figlio di puttana un figlio di puttana. Bisogna chiamarlo uomo d’ affari o banchiere».

Tra pochi giorni si aprirà a Key West, Florida, il tradizionale concorso per il miglior sosia di Hemingway, arrivato quest’ anno alla 39° edizione. Per quale altro scrittore si organizzano gare tra imitatori? Non me ne viene in mente nessuno, ma posso sbagliare. La kermesse si svolge allo Sloppy Joe’ s, uno di quei bar dove Hemingway, trincando, raccoglieva materiale per le sue storie, ma nei quali vide pure il proprio mito impazzire come la maionese. Nel ’50 scriveva a un amico: «Entri in un locale notturno e subito ti si avvicina uno che ti fa: “Lei è Hemingway, vero?” e ti molla un cazzotto senza dare spiegazioni, oppure comincia a strofinarsi contro tua moglie… Henry James non aveva di questi problemi».

Non era più vita. La leggenda cominciava a fare a pugni col suo campione, ma adesso lo trovava stanco, imbolsito, amaro. Forse le foto più belle sono quelle in cui il vecchio Ernest dorme, spesso visibilmente ciucco. Aveva vissuto tanto, troppo per infilare tutte le cose viste e provate in quel piccolo imbuto che è la letteratura. Si aggrappava ai ricordi e quando, per sottrarlo agli abissi maniaco-depressivi, gli svuotarono la memoria con una quindicina di elettroshock, disse: «Mi hanno rubato il mio capitale». Ma ricordava ancora come si carica un fucile dal caccia, e all’ alba del 2 luglio 1961 lo usò contro di sé.

Mosso da un’ ambizione senza scrupoli, era stato irriconoscente fino alla perfidia con gli amici, da Sherwood Anderson a Scott Fitzgerald, che lo avevano aiutato a diventare chi diventò. Però poteva essere anche d’ una generosità sfrenata e quelli che gli volevano bene assicurano che sotto il carapace era «fragile come una meringa».

Tutti gli eroi dei suoi libri sono degli sconfitti. Non dei falliti in senso borghese, ma degli uomini che scommettono, si buttano nella lotta vitale e falliscono. Speculare all’ ossessione americana del successo, il fallimento è il tema chiave dell’ arte di Hemingway. E forse quello che più irrita un’ epoca anti-tragica e idiotizzata dal progresso come la nostra.

Una volta Fernanda Pivano mi disse che Hemingway considerava Morte nel pomeriggio il suo libro migliore. Perché? «Per via del capitolo 16» rispose “la Nanda”. Sono le pagine in cui “Ernie” spiega la propria poetica del personaggio, dell’ emozione, dell’ omissione deliberata. A me però il capitolo più importante è sempre sembrato il 20°, l’ ultimo. Mr. Papa – che aveva un talento speciale per i finali struggenti – lo scrisse nel dicembre ’31 ed è un elenco di tutte le toccanti cose spagnole che lui non è stato in grado di mettere nel libro: “Se fossi riuscito a fare un vero libro, ci sarebbe stato dentro tutto… le giornate di treno in agosto con le tende abbassate dalla parte del sole e il vento che le gonfia… l’ odore del grano e i mulini a vento di pietra… le strade innaffiate nel sole e le gocce ghiacciate sui boccali di birra… le cicogne sulle case e volteggianti nel cielo… un caldo che nessuno sa che cosa sia il caldo finché non c’ è stato…”».

Stilista supremo (riscrisse la fine di Addio alle armi 47 volte), venuto su nella palestra del Modernismo con Joyce, Pound e Gertrude Stein per trimurti, Hemingway non è riuscito a fare un “vero libro con dentro tutto” non per imperizia, ma perché nel Novecento la letteratura ha divorziato dalla totalità, dall’ idea dell’ autore onnisciente. Death in the Afternoon è perciò un frammentone di 300 pagine.

Marco Cicala per il Venerdì- la Repubblica

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