Parkinson, un pacemaker al cuore, insufficienza respiratoria:< negli ultimi tre anni non ho avuto pace>, racconta il grande genetista 80enne. E ripercorre le tappe del proprio cambiamento radicale. Affrontato con coraggio. E a colpi di aforismi
Leggere comporta sempre, in qualche misura, un’eterogenesi dei fini. Parole scritte da qualcuno che non conosciamo, in un tempo diverso dal nostro, ci giungono qui e ora. Non ha importanza che sia un classico illustre o sia stato scritto ieri. È qui e ora che quelle parole entrano nella nostra vita; una vita che vi scopriamo riflessa più nitida di quanto potremmo – e in qualche caso vorremmo – vederla noi stessi: dal punto cieco nel quale viviamo la nostra condizione.
Da tre anni Edoardo Boncinelli, genetista di fama internazionale con una sessantina di libri all’attivo, è immobilizzato da un complicato cocktail di disfunzioni cardiache e respiratorie, cui al fin della licenza si è aggiunto il Parkinson. Un uomo che, come tutti gli accademici, aveva fatto del movimento in lungo e in largo per il mondo la sua forma di vita; e che un bel giorno, si fa per dire, si trova ridotto nella trincea del suo letto. Un uomo, come lo sono spesso quelli che pensano con la loro testa, dominato da un delirio di indipendenza: che a un tratto si vede costretto a scoprire il senso dell’affidarsi alla «soccorrevolezza» del prossimo.
Già autore di limpide meditazioni sul Male (di recente riedito dal Saggiatore) e sulla morte (Io e lei, pubblicato da Guanda subito prima della crisi), all’improvviso Boncinelli si trova a riflettere, su queste Cose Ultime, dalla prospettiva più scomoda: la propria. «Ora so che morirò presto, anche se non posso dire con precisione quando». Parole che potremmo pronunciare tutti, certo; ma che per lui hanno un senso ben più concreto. Le prime, miracolose trenta pagine di questo aureo libretto, Essere vivi e basta. Cronache dal limite (Guanda, pp. 169, € 15) – che in seguito si diluisce in spigolature, comprensibilmente, per in clausola tornare però al punto –, sono un caso-limite di scrittura «dal limite», come suona il sottotitolo: monologo sull’estrema soglia che deve dismettere le certezze scientifiche, e l’autocorroborata saggezza, delle scritture precedenti. Che si fa forza della propria debolezza: delle esitazioni, dei mancamenti, delle intermittenze. «Come se fossi caduto dentro me stesso»: che è, certo, il panico dell’abisso; ma, anche, un’imprevista quanto lancinante coscienza di sé – della cinestesia di movimenti da calcolare per filo e per segno; della gestione delle secrezioni; della varia fenomenologia del flittering o glittering della vista, della memoria, dell’attenzione –, «un perfezionamento e un completamento della percezione del nostro corpo. Cioè di noi stessi».
Questa «circumnavigazione del nulla» dà un significato inedito ai nonnulla ai bordi del nero conclusivo: i quali acquistano valore per tutti in nome del «come se» di una vita in proroga. È il senso che si può dare, da una prospettiva laica, a quello che Pascal chiamava «il buon uso delle malattie». Ma come si diceva il caso – habent sua fata libelli – vuole che il testo veda la luce in un tempo in cui l’isolamento, l’immobilità e la paura della morte si sono fatti per tutti noi, da eccezione, norma. Il titolo viene da Montale: «Essere vivi e basta / non è impresa da poco». La poesia si trova nel Diario del ’71 e del ’72: occasionata, anche in quel caso, da una sospensione della forma di vita abituale come «lo sciopero dei netturbini», che costringe chi esca di casa a «circumnavigare isole e laghi / di vomiticcio e di materie plastiche». Il paradosso è che una simile condizione, alla città, dà «il volto che le conviene». Cioè la sua sostanza reale, offuscata dall’assuefazione: che all’improvviso ci si manifesta con l’improntitudine che Walter Benjamin definiva, non a caso, facies hippocratica.
Da Marco Aurelio a Leopardi (al quale Boncinelli ha dedicato, a quattro mani con Giulio Giorello, un intero libro) c’è una lignée in cui è il corpo, soprattutto il corpo che soffre, a conseguire una cognizione del dolore (il Gadda qui evocato): dove il genitivo è tanto soggettivo che oggettivo. Si conosce per mezzo del dolore, cioè, quando di quel dolore si cerca di farsi una ragione: si tocca così l’interfaccia segreto, la ghiandola pineale che supera l’eterno dualismo, imprecisamente detto “cartesiano”, fra mente e corpo, res cogitans e res extensa. A quel punto la scrittura – come, soffocato a sua volta da un’insufficienza respiratoria, scrisse Gilles Deleuze poco prima di farla finita – diventa una grande «impresa di salute»: segno di «un’irresistibile salute precaria».
E allora il titolo, per quanto suggestivo, è fuorviante. Essere vivi e basta, infatti, in realtà non basta. Come non può bastare leggere, come pure in questi anni ci è toccato fare (con imbarazzo, talora, unito alla sofferenza), altri diari «dal limite»: che di quella sofferenza restavano prigionieri senza appello. Scritture come questa – prive come sono di qualsiasi patetismo, sino ad apparire degne della grande tradizione stoica – ci mostrano invece quello che tutti noi, oggi, dal loro esempio dovremmo imparare a fare.