EVVIVA! LA SIGNORA MERKEL, QUALCHE ANNO DOPO.

23 Nov 2024 | 0 commenti

Signora cancelliera, lei ha guidato la Germania per 16 anni, è stata definita la donna più potente del mondo. Cos’è il potere per lei?

«Il potere è per me la possibilità di plasmare qualcosa. Avere delle maggioranze, prendere decisioni che lascino un segno insieme alle persone che hanno ottenuto i loro mandati. Costruire maggioranze, unirle, trovare compromessi. Questo è il potere».

Da quando nel dicembre 2021 Angela Merkel aveva lasciato la cancelleria, di lei si erano un po’ perse le tracce. Rare apparizioni pubbliche, veniva segnalata in vacanza a Firenze, in Austria, sul Mar Baltico, nel suo buen retiro della marca brandeburghese, o a celebrare i 70 anni insieme alla Cdu. In compenso, dopo l’aggressione russa contro l’ucraina, di lei si è parlato molto e in termini negativi. È su Merkel, per 16 anni cancelliera tedesca e leader incontrastata dell’europa, che si sono soprattutto concentrate le accuse di non aver voluto vedere per tempo le mire egemoniche e guerresche di Vladimir

Putin, scegliendo invece di blandirlo con concessioni. Di più, sempre attenta ai sondaggi e a lasciar tranquilli i tedeschi, Merkel è ritenuta responsabile di aver evitato riforme scomode ma necessarie del modello Germania, precipitata di nuovo nel ruolo del «grande malato d’europa».

Quando ce la ritroviamo davanti in una saletta riservata di Bocca di Bacco, il suo ristorante italiano preferito, è come se il tempo non fosse mai passato: blazer colorato (ha scelto il prugna) su pantaloni neri, collana d’ambra, solo le scarpe sono più comode. Siamo a pochi isolati dall’ex Check-point Charlie, il «varco» nel Muro che divideva Berlino «nei primi 35 anni, esattamente la metà della mia vita».

C’era una ragione per la quasi totale sparizione di Angela Merkel: per due anni si è dedicata a scrivere le sue memorie con Beate Baumann, la donna che dal 1992 è stata la sua ombra in politica. Libertà è il titolo del libro, che esce martedì in trenta Paesi (in Italia per Rizzoli). Ci troviamo i suoi ricordi, la Ddr, Putin, Trump, Berlusconi, ma è anche la sua difesa, una risposta alle accuse: e sembra non avere rimpianti. Alla vigilia della pubblicazione, l’ex cancelliera ha accettato di rispondere in esclusiva alle domande del Corriere.

Nessun leader occidentale ha conosciuto meglio di lei Vladimir Putin. Lei viene criticata per non aver voluto vedere le sue intenzioni aggressive ignorando l’evidenza che Putin volesse distruggere l’ordine europeo. Come risponde?

«Io conoscevo molto bene le intenzioni del presidente Putin. Le ha sempre espresse sia pubblicamente che nei colloqui riservati. Sapevo che non avevamo a che fare con un amico dell’europa. La questione era solo come reagire. La mia risposta non è stata di non avere più alcun rapporto con Putin, ma piuttosto di cercare di impedire l’invasione dell’ucraina attraverso colloqui, a volte anche molto polemici nei quali non ho usato alcun giro di parole. Per un certo periodo ha funzionato. Con l’inizio della guerra russa contro l’ucraina, la situazione è fondamentalmente cambiata».

Com’è Vladimir Putin?

«La più grande gioia della mia vita — la fine della Guerra Fredda, la caduta del Muro, la riunificazione tedesca e l’unità dell’europa — per lui è legata alla peggiore disgrazia del XX secolo, la fine dell’unione Sovietica. Le nostre vedute erano quindi diametralmente opposte. Putin cercava di fare della Russia di nuovo una grande potenza. Ma non era in grado di farlo sul piano economico, attraverso il benessere per tutti. Ci ha invece provato con i metodi imparati nel servizio segreto, il Kgb, attraverso la forza militare e il nazionalismo russo. Così molte delle speranze che avevamo nel 1990, che la Russia prendesse gradualmente la strada della democratizzazione, non si sono avverate».

Perché nel 2015, un anno dopo l’annessione della Crimea, non ha bloccato il progetto del gasdotto Nord Stream 2?

«Consideravo mio compito assicurare che l’economia tedesca potesse sfruttare la possibilità di avere gas a buon mercato. E vediamo oggi quali conseguenze hanno per la Germania gli alti costi dell’energia. Inoltre, per ragioni politiche volevo mantenere rapporti economici con la Russia perché anche quel Paese potesse partecipare al benessere».

Nel libro lei dice che «deterrenza» e «azioni diplomatiche» vanno sempre insieme. Pensa che una trattativa con Putin sull’ucraina nel prossimo futuro sia possibile?

«Abbiamo bisogno della doppia azione, da un lato colloqui e contatti, dall’altro deterrenza. Ne ero e ne rimango convinta. Tuttavia, in Germania non siamo riusciti a costruire abbastanza velocemente un potenziale deterrente. Ciò è dipeso più dal nostro partner di governo, la Spd, che non dal mio partito, la Cdu, anche se io in quanto cancelliera ne porto la responsabilità. Sulla trattativa, naturalmente nulla deve passare sopra la testa dell’ucraina. Allo stesso tempo penso però che i molti Paesi che sostengono l’ucraina debbano decidere insieme a essa quando si potrà discutere con la Russia di una soluzione diplomatica. Non può essere solo Kiev a decidere. Quando questo succederà, non essendo più attiva in politica, non sono in grado di dirlo».

Lei scrive che «Donald Trump subiva il fascino di Putin». E che «vede tutto dal punto di vista dell’immobiliarista che è stato». Pensa che il suo ritorno alla Casa Bianca sia un grave pericolo per la Germania e la Ue?

«Per Donald Trump non ci sono mai situazioni “win win”, dove entrambi i partner di un accordo ottengono vantaggi. Per lui o l’uno o l’altro deve ottenere un profitto. È un’idea che non condivido. Penso che abbiamo concluso molti accordi nel mondo, vantaggiosi per entrambe le parti. A differenza di lui, credo nella forza dei compromessi. La cosa più importante è cooperare con Trump, da partner e rappresentanti di un Paese, liberi da paure e sicuri di sé, difendendo in modo chiaro i propri interessi — nel mio caso erano quelli tedeschi ed europei — così come lui difende i suoi».

Trump aveva qualcosa contro di lei personalmente? A un vertice del G7 in Canada, gettò sul tavolo due caramelle Starbust dicendole: «Eccoti Angela, così non andrai in giro dicendo che non ti ho dato mai nulla».

«Non darei troppa importanza a quell’episodio. Donald Trump era fissato che ci fossero, secondo lui, troppe auto tedesche a New York. Aveva sempre detto che, se fosse diventato presidente avrebbe imposto dazi così alti che sarebbero sparite dalle strade di Manhattan».

Trump era ossessionato da lei?

«No, io ai suoi occhi incarnavo la Germania».

Il «Wall Street Journal» scrisse che lei ha avuto una parte nella caduta di Silvio Berlusconi, il quale si rifiutava di fare le riforme per fermare la speculazione sull’euro e ridurre gli spread. In particolare, lei avrebbe sollecitato un cambio di governo a Roma durante una telefonata con Giorgio Napolitano. Frau Merkel, lei ha chiesto la testa di Silvio Berlusconi?

«No, smentisco categoricamente. Non mi sono mai immischiata negli affari interni di un Paese amico. E di questa variante non avevo mai sentito parlare. È stato anche detto che una conferenza stampa di Nicolas Sarkozy e mia (Consiglio europeo di Bruxelles 2011 n.d.r.) avrebbe contribuito alla caduta di Berlusconi. Non lo credo. Non è assolutamente possibile che un capo di governo straniero causi la caduta di un altro. Questo ha sempre a che fare con i fatti interni di un Paese».

In sedici anni, lei ha conosciuto otto capi di governo italiani: Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi. Ci può descrivere brevemente i rapporti con loro?

«Prodi è stato il primo, per breve tempo. Lo avevo conosciuto quando era presidente della Commissione europea. Mi aveva colpito che spingesse con entusiasmo per l’ampliamento a Est dell’unione. Citava volentieri Helmut Kohl: “La Storia è la Storia”. Così motivava la posizione che tutti i Paesi dell’europa centro-orientale entrassero allo stesso momento. Con Silvio Berlusconi ho lavorato più amichevolmente di quanto molti pensavano. Si adoperava sempre per raggiungere comuni compromessi europei. Questo l’ho apprezzato. Durante la crisi dell’euro la cooperazione con lui si è fatta più difficile. Mario Monti lo conoscevo e lo stimavo da quando era commissario Ue alla concorrenza. Era da un lato affascinato dalla Germania, dall’altro sempre in guardia, e a ragione, perché a causa della sua forte economia non avesse un ruolo speciale. È stata la sua idea fissa da capo del governo durante la crisi monetaria».

Si parlò del suo buon rapporto con Renzi.

«Con Matteo Renzi ci fu un fatto interessante, già prima che succedesse a Enrico Letta, col quale ho anche lavorato bene. Da sindaco di Firenze catturò la mia attenzione una sua intervista a un giornale tedesco, in cui affermava che l’italia doveva semplicemente fare delle riforme. Mi piacque molto e lo invitai alla cancelleria. Al tempo in cui molti migranti arrivavano in Europa, ho stabilito una collaborazione di fiducia con Giuseppe Conte. Paolo Gentiloni organizzò per noi leader dell’ue una indimenticabile celebrazione per i 50 anni dei Trattati di Roma, che ha rafforzato la coesione europea. Infine, con Mario Draghi abbiamo preparato insieme con successo il G20 di Roma nel novembre 2021 sotto le difficili condizioni della pandemia. Devo aggiungere che durante tutti i miei anni da cancelliera, l’italia ha avuto due meravigliosi capi dello Stato: Napolitano e Mattarella. La considero una grande fortuna per il vostro Paese».

Per ridurre gli spread e salvare l’euro, è stato necessario il bazooka della Bce, che arrivò con il celebre «whatever it takes» di Mario Draghi. Lei scrive che prima di questa dichiarazione non ne aveva parlato con lui. Ma avrà discusso con Draghi ai margini dei Consigli europei?

«Naturalmente, ho parlato spesso con Draghi dell’euro e della sua salvezza. Ho chiarito che sostenevo una rigorosa separazione tra le azioni dei governi e quelle delle banche centrali, per me un principio costitutivo dell’euro. Draghi la vedeva alla stessa maniera. Perciò, non era necessario parlarne ulteriormente. Lui era d’accordo che noi facessimo tutto il possibile, attraverso le riforme, per rafforzare l’economia dei nostri Paesi. Allo stesso tempo, rifletteva su cosa potesse fare nell’ambito di sua competenza. Ha compreso al 100% che non mi sarei mai intromessa nella politica monetaria. Nel suo ruolo di presidente della Bce ha agito con grande coraggio. Conosceva i mercati finanziari e sapeva che nessuna riforma da sola, per quanto valida, li avrebbe soddisfatti, a meno che non avessimo introdotto politicamente gli eurobond. Ma sapeva anche che io non li avrei mai accettati, perché non sarebbe stato compatibile con le basi giuridiche dell’euro. Per questo motivo ha sfruttato appieno il margine di manovra a sua disposizione».

Lei definisce una cesura del suo cancellierato la decisione nel 2015 di non respingere i rifugiati siriani, aggiungendo che quella sera provò una «stanchezza mortale». Pensa ancora che sia stata la decisione giusta?

«Anche col senno di poi, è stata una decisione giusta, perché si trattava di persone già arrivate da noi. Per me i valori europei erano alla prova: l’europa è capace di trattare con umanità le persone che si trovano da noi? Questo non significa che tutti abbiano diritto a rimanere. O che non ci debbano essere regole. O che non dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre l’immigrazione illegale, perché le persone pagano molti soldi per mettersi nelle mani di trafficanti e scafisti rischiando la propria vita. Ed è stato anche logico e conseguente concludere l’accordo con la Turchia. Abbiamo compreso che bisogna dialogare con i vicini. C’è bisogno di prospettive per il futuro per gli Stati africani. Naturalmente dobbiamo proteggere i nostri confini esterni, ma non basta».

La sua decisione ha favorito l’ascesa dell’estrema destra, l’afd?

«L’AFD è nata durante la crisi dell’euro, già allora con la tesi che stessimo concedendo troppo agli altri Paesi. Certo, la questione dei rifugiati ha giocato un ruolo nel suo rafforzamento. Tuttavia, l’afd non si contrasta adottando la sua agenda, bensì facendo i compiti a casa e risolvendo i problemi».

Lei è nata nella Ddr. La sua origine fu definita, all’interno della Cdu, una «zavorra». Si è sentita poco accettata e sottovalutata, condividendo questo sentimento con milioni di cittadini della Ddr? Sono queste le ragioni del profondo malcontento nei Länder dell’est?

«Per molti può giocare un ruolo. In effetti, solo ora che non sono più cancelliera e mentre scrivevo il libro, ho iniziato a riflettere più profondamente sulla mia infanzia e la mia vita nella Ddr, ossia sui miei primi 35 anni, esattamente la metà della mia vita. Quando nel 2020 è stato pubblicato quell’articolo sulla “zavorra”, mi sono sentita indignata. Mostrava una profonda incomprensione, come se non fosse possibile avere esperienze e ricordi preziosi in un Paese in cui non c’era la libertà dell’occidente. Eppure, è stata una vita sfaccettata, a volte naturalmente anche difficile. Descrivere tutto questo con la parola “zavorra” è temerario, per usare un eufemismo. Mi ha irritato, e non ho più represso questa rabbia. Nel mio ultimo discorso l’ho potuta esprimere».

Tuttavia, per molti anni ne ha parlato poco.

«Sì, perché ritenevo di essere la cancelliera di tutti i tedeschi e di non dover costantemente parlare solo delle questioni dell’est. Questo riflette anche una certa vulnerabilità, che forse non volevo mostrare. Ho parlato poco anche del fatto di essere una donna. Ora che non sono più in carica, ne posso parlare meglio».

La Stasi provò a reclutarla. Come riuscì a evitarlo?

«I nostri genitori ci avevano dato un consiglio fondamentale per la sopravvivenza. L’ho seguito quando, durante un colloquio di lavoro a Ilmenau, degli ufficiali della Stasi cercarono arruolarmi come collaboratrice informale. Dopo aver risposto che avrei riferito subito di questa conversazione alla mia famiglia, poiché non sapevo tacere, persero ogni interesse. La discrezione era una condizione imprescindibile per collaborare con la Stasi. Una volta rotta, non si era più interessanti».

Per la sua cerimonia d’addio ha scelto la canzone di Hildegard Knef «Für mich soll’s rote Rosen regnen». Ma dopo il suo addio non sono piovute rose rosse, bensì critiche. L’«economist» l’ha accusata di aver fatto addormentare il Paese. Signora Merkel, si sente responsabile per la stagnazione della Germania?

«Quando si governa per 16 anni, come ho fatto io, poi non posso dire di non essere responsabile per gli ultimi anni. Sono stati anni buoni per l’economia, in cui abbiamo aumentato gli investimenti e dove grazie alla solidità economica abbiamo fatto molto nel sociale. Non condivido il giudizio dell’economist, ma devo accettarlo. Adesso, di fronte all’aumento dei prezzi dell’energia causato dall’attacco della Russia all’ucraina, alla necessità di maggiori spese per la difesa e alla competizione globale più dura, ad esempio con la Cina, occorre ridefinire le priorità. I cambiamenti si intravedevano già ai miei tempi ma non così chiaramente. Stiamo vivendo un momento di riorganizzazione globale. E a questi nuovi tempi la Germania deve reagire adattandosi».

Anche il freno al debito era giusto?

«Penso che, in linea di principio, fosse una buona idea. Per anni ha imposto moderazione al governo e ai Länder, perché non vivessero al di sopra delle proprie possibilità. Credo tuttavia che nella situazione attuale, di fronte alle molte nuove sfide, dovrebbe essere riformato: ma non per favorire la spesa sociale, bensì gli investimenti».

C’è un passaggio molto bello nel libro: lei cammina con Beate Baumann su una spiaggia del Mar Baltico e dice: «A volte penso al verso dall’eugenio Onegin: dove, dove ve ne siete andati, giorni dorati della mia primavera». E aggiunge che anche i suoi giorni alla cancelleria «erano stagioni della vita, un tempo che ora è passato». Frau Merkel, ne è valsa la pena?

«Se guardo indietro e ripercorro gli impegni, mi è chiaro quante cose emozionanti ho vissuto. Sì, ne è valsa la pena, senza riserve».

Articolo di Mara Gergolet e Paolo Valentino per Il Corriere della Sera

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