UN BEL LIBRO FIRMATO MLF, ACRONIMO DEL CRITICO MUSICALE ITALIANO DEL CORRIERE DELLA SERA, FREQUENTATORE ASSIDUO DI CANTANTI E CANTAUTORI, PRESENZIALISTA PER MESTIERE AL FESTIVAL DI SANREMO E AL CANTAGIRO- L’AIUTO DI SPADOLINI, LA COMPAGNIA DI MIELI, IL LAVORO CON ARBORE E COSTANZO, RIEVOCATI NELL’ AUTOBIOGRAFICO TROPPE ZETA NEL COGNOME, APPENA APPARSO IN LIBRERIA
O mio buon Fegiz, questo non è un giornale, l’ è un’ antologia. Vi è spazio per il dialogo tra cattolici e laici, per il Risorgimento, per il socialismo illuminato, ma con rigida delimitazione al bolscevismo. Qui al “Corriere” non si ragiona né per giorni né per mesi né per anni, ma per serie storiche. Io ora la metto nel mio allevamento di cincillà, la Terza Pagina. Fra una descina d’ anni lei ritorna da me e io la mando nella capitale del mondo che preferisce. Oh mio buon Fegiz, lei è laureato?». «”No professore” replicai prontamente e, appoggiando le braccia sui braccioli della poltrona come quello che sta per alzarsi, aggiunsi: “Ma se questa è una pregiudiziale”.
Lui mi prevenne: “No, o mio buon Fegiz, a suo tempo lo sarebbe stato, ma oggi Vede Oggi a mio avviso al “Corriere” si dovrebbe entrare per casato o per censo. Lei è assunto come praticante in prova per tre mesi. Vada pure, o mio buon Fegiz”». Vale la pena riportare il testo integrale del colloquio di assunzione al «Corriere» di Mario Luzzatto Fegiz, il più importante giornalista musicale italiano, che oggi compie settant’ anni e li festeggia pubblicando da Hoepli la sua autobiografia: Troppe zeta nel cognome . Era il 1971 e il direttore dall’ accento toscano era ovviamente Giovanni Spadolini.
L’ assunzione era stata propiziata da una collaboratrice di Giulia Maria Crespi, «la fanciullina» come la chiamava Spadolini, predisposto favorevolmente all’ incontro con Fegiz da una telefonata degli amici fiorentini alla madre, cui il direttore era legatissimo al punto da leggerle in anteprima al telefono l’ editoriale del giorno dopo. Il problema è che il neoassunto deve ancora fare il servizio militare: alla scuola di marina di Taranto, tra i gavettoni dei «nonni» veneti e le reclute del Sud con il coltello a serramanico in tasca.
Provvidenziale saranno il ricorso al dialetto triestino, e una malattia che faciliterà il trasferimento a Milano sollecitato dallo stesso Spadolini, nel frattempo divenuto leader politico. Proprio a Trieste comincia la storia di Mario Luzzatto Fegiz. «Trieste per me vuol dire barca, mare, prime cotte e spritz. Ma anche amor di patria. Noi aspettavamo con ansia il ritorno di Trieste all’ Italia. Usavamo un’ espressione che coglieva in pieno il malessere che provavamo: “Xe che noi non semo italiani, ma no podemo esser gnente altro”». E quando nel 1952 Nilla Pizzi porta alla seconda edizione del festival di Sanremo Vola colomba – «inginocchiato a San Giusto/ prega con animo mesto/ fa che il mio amore torni, ma torni presto» – il piccolo Mario e i suoi genitori si commuovono, perché l’ amore che doveva tornare presto era l’ Italia
La madre, Iva, «stirpe di marinai, nata sull’ isola di Lussinpiccolo, era una donna bella e intelligente, ricca e generosa. E mi adorava. Io ero l’ ultimo di quattro figli. Il preferito». Il padre Pierpaolo, statistico, fonda la Doxa. Mario, studente disastroso, si appassiona subito alla musica. Prima al liceo Tasso di Roma, dove fa politica con i giovani liberali e conosce Paolo Mieli. Poi in Rai, dove lavora con Renzo Arbore nella stanza accanto a quella di Maurizio Costanzo. Infine al «Corriere».
Il suo predecessore, Vincenzo Buonassisi, «era un buono alla Vincenzo Mollica, e parlava bene di tutti». Luzzatto Fegiz intuisce che un critico, per diventare noto e potente, deve invece parlare male di molti. E comincia a farsi nemici. Come Pippo Baudo, cui si deve la battuta che dà il titolo al libro, e che scrive una deliziosa prefazione (la presentazione è affidata a un’ altra firma storica del «Corriere», Ranieri Polese, a lungo compagno d’ avventure di MLF a Sanremo).
Un critico deve resistere ai tentativi di corruzione o comunque di pressione. «Un importante discografico, genero di Iva Zanicchi, mi convocò nel suo ufficio. Appoggiò in bella mostra sopra la scrivania una bustarella dalla quale sporgevano delle banconote.
Con tono soave nella forma ma duro nella sostanza mi disse: “Io ho un’ azienda”. Risposi: “Complimenti”. Non accettai la bustarella e continuai a scrivere quello che volevo. Una volta un discografico arrivò in via Solferino 28 con una Fiat 124 Sport 1800 metallizzata con 35 chilometri e i sedili ancora avvolti nel cellophane. Me la lasciò lì col motore acceso: impiegai tre mesi per fargliela riprendere».
Il libro è anche un racconto divertente e affascinante di mezzo secolo di Sanremo e di musica, da Sting a Elton John – cui è legato uno dei rari infortuni di MLF e dei suoi incubi ricorrenti -, da Jannacci a Gaber, da Bocelli a Pavarotti, dai cantautori al «rocker rurale» Ligabue. Svelarli tutti significherebbe togliere il piacere di una lettura avvincente, in cui la comunità del «Corriere» ritroverà i motivi – competenza e humour – per cui segue l’ autore da decenni. Due immagini però vanno fermate fin da ora.
La prima è quella di Vasco Rossi al funerale di Fabrizio De André: «Genova, 13 gennaio 1999, basilica di Santa Maria Assunta in Carignano. In un angolo della chiesa Vasco piange da solo. Disperazione e dolore di un uomo semplice. Non ha amici, non ha scorta. Nessuno osa avvicinarsi. Il suo strazio è la sua difesa».
La seconda è la lettera di scuse a Gino Paoli, dopo che Mario ha pubblicato in prima pagina le confidenze strappate al telefono sulla vicenda dei conti esteri: «Caro Gino, ti ho fatto del male. Ho tradito una persona, prima che un artista, che negli anni mi è stata vicina nei momenti difficili. Ho tradito uno dei pochi – o forse l’ unico – che non se lo meritava (). Il rimorso non mi abbandona e nemmeno la consapevolezza di cosa hai rappresentato e rappresenti nella mia vita. Scusa dal più profondo del cuore. Mario Luzzatto Fegiz, Milano 22 settembre 2015
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera