L’ULTIMO SUO ROMANZO RISALE A 40 ANNI FA- ORA “LA VITA È QUALCOSA DA FARE QUANDO NON SI RIESCE A DORMIRE” VIENE TRADOTTO IN ITALIANO PER BONPIANI- DISINVOLTA ED ECLETTICA FRAN LEBOWITZ E’ PASSATA DAI RACCONTI EROTICI ALLE FIABE PER BAMBINI- “IL MIO RUOLO E’ ACCUSARE LA GENTE, DI TUTTO”
Fran Lebowitz aveva diciannove anni quando, dal New Jersey, si trasferì a New York. Era il 1969, aveva in tasca duecento dollari e credeva di essere ricca, o comunque di avere con sé abbastanza denaro per poter vivere senza mai dover lavorare, cosa che odiava e, tuttora, odia fare.
Trovatene un’altra che sia arrivata a New York pensando di avere le tasche piene anziché di doversele riempire; di stazionare, anziché scalare. Non ce n’è una nemmeno fra le agiate, linfatiche aristocratiche di Edith Wharton, le sole capaci di dire che a New York, più che altrove, “presto e bene non vanno insieme”.
Finiti i duecento dollari, Lebowitz si mise a fare le prime cose che le erano capitate tra le mani, pulire gli appartamenti del Greenwich Village e di Manhattan, guidare il taxi, scrivere racconti erotici. Poi aveva cominciato a collaborare con alcune riviste fino a essere assunta da Interview di Andy Warhol, con il quale non andò mai troppo d’accordo. Dirà: «È andata meglio dopo la sua morte». Peste.
Dieci anni dopo, nel 1978, pubblicò il suo primo libro, Metropolitan Life, vendette ottantaseimila copie e per la prima volta nella sua vita ricevette un assegno così corposo (centocinquantamila dollari) che non potette riscuoterlo come faceva sempre, ovverosia pagando un panino al roastbeef con l’assegno mensile per farsi poi dare il resto in contanti. Dovette andare in banca.
Durante la pandemia è stata data per morta.
«È come la battuta di Mark Twain: “La notizia della mia morte è ampiamente esagerata”. In realtà c’ è molta invidia e odio nei confronti di New York, proprio per la sua imprescindibile centralità.
Generalmente chi parla della sua morte è chi qui non ce l’ ha fatta. Inoltre c’ è da aggiungere che in maniera ricorrente leggiamo della morte del romanzo, la morte della pittura, la morte della civiltà, la morte di Dio».
Lei è credente?
«No, ma non credo Dio sia morto. Sono atea da quando avevo otto anni, e vengo da una famiglia ebraica dove entrambi i genitori erano osservanti».
Cosa succede dopo la vita?
«Non ne ho la più pallida idea, ma chi crede nella vita non crede nella morte».
Dall’intervista di Antonio Mondo per La Repubblica
La racconta come una gran seccatura in Pretend It’s a City, il secondo documentario che Martin Scorsese le ha dedicato, e che l’ha fatta conoscere anche in Italia, dove prima di questo libro non era stato tradotto niente di suo, ma il suo nome suonava familiare anche a chi non aveva idea di chi fosse e l’ha scoperta su Netflix, e l’ha ascoltata parlare per ore con Scorsese, in decine di appuntamenti tutti uguali, ai quali arrivava vestita come si veste da sessant’anni, occhiali tartarugati, stivali da cowboy, Levi’s, camicia da uomo con gemelli da uomo, caschetto. Appuntamenti durante i quali lei parlava di cosa ama (i libri, il suo appartamento) e di cosa non sopporta (quasi tutto il resto).
Fran Lebowitz non scrive un libro da quarant’anni, l’ultimo è stato un racconto per bambini del 1994, lo stesso anno in cui uscì una sua raccolta di pezzi in parte già editi e al New York Times spiegò che non avrebbe mai pubblicato il romanzo per il quale aveva firmato un contratto con la Random House perché la sola cosa che le piaceva meno di scrivere era allenarsi.
A Toni Morrison, sua grande amica, «la persona più saggia che io conosca», disse invece che scrivere le piaceva perché altrimenti non le sarebbe rimasto che vivere, e che ammirava il fatto che usasse sempre il noi, che cercasse di includere e coinvolgere i lettori, ma lei era di un’altra scuola, lei voleva starsene per conto suo, non aprire porte, non offrire specchi, non spalancare finestre: «Il mio ruolo è accusare la gente!».
Di cosa? Di tutto, o quasi. Di come roviniamo le cose inventando complicazioni: il succo di lime nelle patatine, la segreteria telefonica, gli orologi digitali, le calcolatrici tascabili, le diete, le riviste, il tennis, il giardinaggio. Di come la ostacoliamo ciondolando per strada, dicendo benissimo di libri bruttissimi, straparlando di natura, andando in vacanza a sfiancarci come prigionieri di guerra, servendo uva bianca al posto del dessert.
È seccata perché corre a una velocità diversa, vede prima e vede meglio: quando s’affatica non è perché una cosa non le riesce, ma perché non le va di farla. Se ci ha messo sette anni per scrivere il suo primo libro non è stato per tormento, irrisolutezza, studio: è stato perché le mancava il tempo, doveva mantenersi.
«Il talento è distribuito in maniera del tutto irregolare e casuale: non lo compri, non lo impari». Era già una scrittrice magnifica quando spolverava le case dei ricchi e osservava il mondo da sotto e leggeva e imparava tutto senza studiare niente, mai studiato in vita sua se non lo stretto indispensabile all’alfabetizzazione.
Noi, invece, giacché del talento non accettiamo che sia come la grazia, del tutto casuale e immeritata, studiamo tantissimo per accaparrarcelo.
Noi, più piccolini e lenti di lei, più smarriti, più bisognosi di consolarci, esprimerci, mentirci e illuderci, la rallentiamo. E allora lei ce lo dice, ci mostra quanto siamo fessi, e lo fa con i test, i quiz, le concioni, i teoremi, gli elenchi.
Questo libro è pieno di manuali per il disvelamento della fesseria, istigazioni all’autarchia, requisitorie contro ignoti e pure contro inanimati, teoremi, calcoli, deduzioni. Scientifico, anche se «la scienza moderna è stata in larga parte concepita come risposta ai problemi dei domestici e in generale è praticata da persone prive di talento per la conversazione»
In Italia non siamo abituati a scrittori che non scrivano, del resto non siamo abituati a persone che non scrivano, e allora in lei vediamo una comica, un’attrice, un’intrattenitrice, una battutista. In fondo, ha un incedere così logico e chiaro da sembrarci poco letterario – non siamo abituati neppure a scrittori che abbiano le idee chiare, che non parlino di fuoco sacro, lavori importanti, missioni, salvezze, ruoli imprescindibili, che abbiano quell’idea di sé che fa sì che “a tre anni cominciano a considerarsi una trilogia”.
«The words are in the cigarettes», disse a un giornalista del New York Times che la ascoltava affascinato e, tra un inciso e l’altro, tra una sua intemerata contro i tosaerba e un’altra contro i parchimetri, scrisse che lei era politicamente scorretta (lo hanno fatto in molti, e ci dispiace per tutti), e soprattutto una mondana festaiola molto ricercata, come Dorothy Parker e Truman Capote.
Di Dorothy Parker, però, Fran Lebowitz non ha mai avuto l’angoscia e neppure l’allegria, perché Fran Lebowitz s’aspetta poco dalla vita, sa che è qualcosa da fare quando non si riesce a dormire, non si cruccia delle donne che non ha sposato, né delle cose irraggiungibili. Ha preoccupazioni concrete, niente di ineffabile. Il suo sorriso è aperto anche quando ghigna. Le piacciono i bambini perché «non ti si siedono di fianco a discutere delle loro irragionevoli speranze per il futuro».
Le piace restare uguale e ferma, unica newyorkese non insonne di tutta New York. Quanto si diverte. Sarà che viene dal New Jersey e non ha mai creduto, nemmeno per un momento, che il mondo sia altro che artificio. Un artificio che è bene che rimanga al suo posto, come noi dovremmo starcene nel nostro. A New York, possibilmente, dove vivere altrove sembra a tutti un’assurdità. E forse lo è.
Prefazione di Simonetta Sciandivasci a LA VITA È QUALCOSA DA FARE QUANDO NON SI RIESCE A DORMIRE” (Bompiani) – pubblicata su Linkiesta.it
In copertina un disegno di Federico Fellini