Il giornalista sportivo Germano Bovolenta, il mondo del grande calcio all’epoca di Baggio, Baresi, Gullit, Rivera e soprattutto del mitico allenatore del Milan Nereo Rocco, nell’articolo rievocativo di Sergio Sottovia.
Germano Bovolenta, il nostro amico “ger.bo.”, polesano, portotollese di nascita, milanese di adozione ma legatissimo alla sua terra, è stato recentemente celebrato da Sportweek, il settimanale della “sua” Gazzetta, il giornale in cui ha lavorato più di trent’anni. Lo hanno inserito nell’antologia delle grandi firme de “La Gazzetta dello sport”, assieme a mitici direttori come Bruno Roghi, Gianni Brera e Candido Cannavò. Hanno pubblicato, oltre alla sua ricca biografia, un suo articolo scritto sulla sfida di coppa Campioni fra Juventus e Verona, a porte chiuse nel 1985. Germano ha scritto migliaia di articoli: interviste, storie, corsivi, pezzi di costume e di fondo in prima pagina. Ha spaziato anche in altri campi e incontrato uomini del cinema, dello spettacolo e della vita sociale. Famosa una sua intervista a Nelson Mandela, Nobel per la pace.
Conservo molti articoli dell’amico e Signore della Rosea, Germano Bovolenta, un professionista esemplare, sempre molto gentile e disponibile. Fra gli altri ho ritrovato un meraviglioso ritratto di una decina di anni fa sul Grande allenatore Nereo Rocco, uno dei giganti della storia del calcio. Lo ripropongo qui con piacere per ricordare l’immenso Paron Nereo raccontato da uno dei grandi giornalisti sportivi italiani.
Il ritratto di NEREO ROCCO, nei ricordi di Germano Bovolenta.
Trieste, 20 febbraio 1979, fa molto freddo, la bora soffia a 150 chilometri all’ora. Nereo Rocco muore all’ospedale Maggiore. Al suo capezzale c’è Tito, il figlio minore, el dotor farmacista. Tito raccontava: «Il giorno prima mi guardò con gli occhi confusi e mi disse: Tito, dame el tempo». Come diceva a Marino Bergamasco e Cesare Maldini verso la fine della partita, quando non c’era ancora il recupero.
«Pensava di essere in panchina», sorrideva triste Tito.
Il funerale di Nereo Rocco viene celebrato due giorni dopo e Trieste si ferma e le rive sono piene, i ristoranti, raccontano i ristoratori, fanno anche tre turni. Ci sono tutti ai funerali del «filosofo, burbero, bonario, popolaresco, impetuoso uomo di sport».
Tutti, da Gianni Rivera a Bepi Straza, accompagnano Nereo al Campo Terzo del cimitero Sant’Anna. Lo portano lassù, verso Valmaura, dove c’è il vecchio stadio in cui ha giocato e allenato.
Poi vicino ne faranno uno nuovo: il Nereo Rocco, con la sua statua di bronzo e le targhe. Nello stadio moderno, elegante, forse troppo svodo, vuoto, ci sono le sue gigantografie, i faccioni, quel mento severo, i cappellini, gli occhi furbi e luminosi.
Rocco era stato un uomo buono, non un buon uomo. E un ottimo giocatore. E un grande, grandissimo, leggendario allenatore. Figlio di Giusto, macellaio, è bravino scuola, ma gli piace troppo el balon. Il cognome del padre è Rock, austriaco. Il nonno, Ludwig, faceva il cambiavalute e veniva da Vienna.
Rock diventa Rocco nel 1925, quando per lavorare nel porto era obbligatorio avere la tessera del fascio.
Il cognome doveva essere italianizzato, doveva diventare Rocchi, ma l’impiegato all’anagrafe sbagliò e nacque così Rocco. Nereo ha un fisico imponente, gioca nella Triestina e lavora nella bottega del padre. Un giorno, primi anni Trenta, arriva a Trieste il Napoli di Sallustro, Vojah e Cavanna.
Si sistemano in un grande albergo, davanti alla stazione marittima, Rocco passa da lì con il camioncino e scarica la carne. Racconterà,una sera nel suo «ufficio», all’Assassino: «Mi vergognavo su quel camion pieno di agnelli e conigli. Avevo la “traversa” bianca, non sapevo come nascondermi. Io, giocatore e macellaio, loro “lì belli e signorotti”. Mi sono messo la mano sul viso, sono saltato di corsa sul camion e ho accelerato».
Vero? Mah. Gli amici lo chiamavano fiaba perché sapeva raccontarle molto bene.
Racconta, si fa capire, spiega. Soprattutto il calcio. Triestina, Padova, Milan, scudetti, coppe, medaglie e popolarità. Parla il dialetto, un italo-triestino pieno di battute, sarcasmo, ironia e saggezza. Non è un contadino, non ha le scarpe grosse e il cervello fino.
Hanno scritto: «Inveisce, brontola, è uomo del popolo ma anche psicologo, furbo ma sincero. Giusto e umano. Sa insultare con eleganza, non lacera mai».
Prendiamo Helenio Herrera. Sono rivali nei derby, Helenio fa lo spaccone e lo provoca. Nereo lo chiama: quel mona de mago, soprattutto — dirà—«dà lavoro a quei mona di giornalisti».
Diventano tutti mona, i compagni, gli amici, i dirigenti federali e non, José Altafini.
Anzi Jòse con l’accento sulla o. I difensori, i portieri, gli arbitri, il compagno di tressette e di bevute Nicolò Carosio.
E’ sempre stato legato a Trieste, da un filo sottile e — raccontano i biografi — anche strano. Non riesce a starne lontano, ma nemmeno è capace di rimanerci. Quando arriva vicino alla città, accelera:«Se la mucca la senti l’odor de la stalla la cori de più».
Dal «posto di lavoro», sempre in auto. Tutti i lunedì, dicono i figli. Con la Simca da Padova, con la Flavia e la Mercedes da Milano e con un’Alfa verde da Torino. Lui diceva: «Sono un buon guidatore». Esagerava.
Una volta con Rivera ha fatto Milano-Trieste in quarta. Quando Gianni l’ha fatto notare: “Ma signor Rocco, non mette la quinta?”, ha risposto quasi indignato: «Ciò, mona, pensa ai fatti tuoi”.
Raccontava il figlio Tito: “A Torino aveva un’Alfa verde, la targa cominciava… Non ricordo, butto lì un numero a caso, mettiamo TO 345. Dopo due settimane torna a Trieste con la stessa auto, stessa cilindrata e un numero di targa diverso. Noi ragazzi a queste cose guardavamo. “Papà, è la stessa macchina?”.
“Certo, perché?, che macchina dovrebbe essere?”.
“La targa è cambiata…”.
“Ma và, mona…”.
Era diversa. Sa cosa aveva fatto? Era finito dentro le rotaie del tram e l’aveva mezza sfasciata. E allora ne acquistò un’altra, uguale in tutto, ma ovviamente con una nuova targa. Non so, forse si vergognava, era fatto così».
L’uomo delle fiabe diventa un conduttore di uomini. Alla sua maniera. A Milanello lo chiamano mister.
«Mister te sarà ti, mona. Io sono il signor Rocco».
Anzi el Paròn. Comanda lui. Quando qualcuno lasciato fuori formazione, si lamenta, («Perché, signor Rocco?»), risponde pronto: «No xe mia la decision, ma de la siora Maria». Cioè sua moglie. Lo dice, una volta anche a quel mona de Jòse. Ma è soltanto un modo di dire per tenere alto, e soprattutto in mano, lo spogliatoio.
Altafini è il suo centravanti preferito e, con rispetto parlando, il «buffone» della compagnia.
Altafini inventa lo scherzo dell’armadietto che entra di diritto nella hit parade dell’aneddotica rocchiana.
Nereo vive negli spogliatoi, si cambia con i giocatori, è uno di loro e con loro resta a parlare a lungo, specialmente il martedì, sulle panchine. José si nasconde nel suo armadietto. Rocco arriva, lo trova aperto, si alza il cappello e s’interroga.
«Mah, strano, neanche ieri l’ho chiuso».
Lo apre e spunta fuori, nudo urlante, Altafini: «Baahhh!».
E Rocco spaventato: «Bruto mona, te me fa vegnir l’infarto».
Si siede sulla panchina fingendo di ansimare pesantemente: «Non farlo più, non farlo più… Disgrassiato».
Altafini lo rifaceva e la scena si ripeteva. L’anno dopo Rocco va via, arriva Nils Liedholm, Altafini ripropone con il Barone la scena dell’armadietto. Ma quando salta fuori, nudo, urlante, il Barone sussurra: «No. Non è questo tuo armadietto».
Era un attore. Federico Fellini nel 1973 gli propose di recitare in Amarcord. S’incontrano in un ristorante a Bologna, pranzano a tortelli e lambrusco, si scrutano.
Rocco doveva fare il padre di Titta. Ci pensa. Poi, quando i suoi giocatori vengono a saperlo e lo prendono in giro, cambia idea.
«No, grassie sior Fellini».
Ma la rinuncia è dovuta, soprattutto, agli impegni del Milan in coppa e campionato.
«Peccato—dirà il grande Federico — nel padre di Titta io volevo un uomo burbero, sentimentale, romantico, antifascista, rozzo ma simpatico. Rocco era il personaggio giusto».
Il suo set era il campo, era lì che offriva performance indimenticabili, accompagnato dal più grande di tutti i grandi: Gianni Rivera.
Lo ascoltava, lo adorava, era il suo terzo figlio, Gianni. Lo invitava a passare le vacanze nella sua casa di Trieste o al mare a Lignano Sabbiadoro.
«El Gianni xe i me oci». C’è tutto in questa definizione. El Gianni doveva solo giocare dove voleva o sapeva. Hanno giocato e vinto. Gianni ha sempre detto: «Rocco manca fisicamente a tutti quelli che lo hanno conosciuto».
Gli hanno dato del catenacciaro, anche nel Milan.
«Ma per favore, davanti eravamo io, Hamrin, Sormani e Prati e prima ancora Mora, Altafini e Barison».
Hanno chiesto al suo bambino d’oro: Rocco era più persona o personaggio? E Gianni: «Uomo. Lui era sempre vero, sempre se stesso. Sia nelle decisioni ufficiali, sia nei momenti di relax».
Vero, autentico. Come la sua vita.
E le struggenti confidenze di Saul Malatrasi, quando col paron Nereo che gli diceva: “Ciò, Rovigoto, me raccomando, controlla le due cocorite ”. Il riferimento era agli esuberanti Lodetti e Trapattoni, quando andavano in “libera uscita”.
Ma mi fermo qui, perché già citate nei rispettivi Personaggio Story raccontati sempre qui su www.polesinesport.it , ricordando soltanto che per certi versi anche Germano Bovolenta è un ‘paron. Ovviamente dal punto di vista giornalistico, punto di riferimento per molti suoi colleghi giovani.
Ricordo alcune speciali ‘prefazioni’ di Germano a libri sportivi polesani. Dalla biografia Arnaldo Cavallari, strepitoso vincitore della Parigi-Dakkar con Sandro Munari , alla storia dello Scardovari Calcio, fino alla mia trilogia “Polesine Gol – Campioni & Signori”. Senza dimenticare i consigli e dritte affettuose a noi tutti che lo stimiamo e ammiriamo.
Germano Bovolenta & Nereo Rocco. Me li immagino come nelle vignette dell’Arcimatto di Gioan Brera fu Carlo sul Guerin Sportivo dei bei tempi. Germano e Nereo che parlano di Calcio & Vita, magari camminando lentamente lungo gli argini del Po della Donzella, da sempre casa e “buen ritiro” del Germano del Delta.
Ma il personaggio principe di questo nostro reportage stile “Memoria & Futuro” è innanzitutto lui, il ‘Signore della Rosa’. Cioè Germano Bovolenta, cantastorie di sport e di vita.
Perché ha ‘vissuto dal di dentro’ il Grande Calcio Mondiale a fianco di tanti campionissimi, poi celebrati come solo lui sa fare. E qui, scusate se mi ripeto, ricordo ancora quel suo incontro con Nelson Mandela, il grande premio Nobel della pace, che ha speso la sua vita per regalarci un mondo ‘senza apartheid’.
Anche per questo onoriamo Germano Bovolenta in fotogallery, con sottostanti relative didascalie by specifici Mass Media, proponendolo altresì in cover in tandem col Nereo Rocco da lui raccontato con rispetto e dolce ironia, da “rabdomante dell’anima”, tra calda umanità e divertita aneddotica.
Lui, Germano Bovolenta, esperto anche di cinema (la sua grande passione) me lo immagino un po’ regista come il Fellini di Amarcord, dove anche le nebbie della Pianura Padana sono sfumature dell’anima, della nostra civiltà contadina e del nostro piccolo mondo antico.
Estratti dell’articolo di Sergio Sottovia per www.polesinesport.it