LA CONTRASTATA E TARDIVA FORTUNA IN ITALIA DELL’AUTORE DI ADDIO ALLE ARMI – AVVERSATO DAL FASCISMO, TROVA IN CESARE PAVESE E FERNANDA PIVANO I TRADUTTORI PIU’ CONGENIALI
L’interesse per Hemingway in Italia è abbastanza tardivo, se si pensa che il primo intervento critico – un articolo di Mario Praz apparso su La Stampa nel 1929, intitolato Un giovane narratore americano – risale ad una fase già avanzata della sua carriera letteraria, quando The Sun also Rises e A Farewell to Arms avevano già spopolato tra gli scaffali di mezzo mondo. Interesse non solo, come detto, tardivo, ma anche in linea con certa indulgente bonarietà che la prima generazione di americanisti riserva alla letteratura americana: letta e criticata, ma sempre relegata al ruolo di appendice delle nobili lettere inglesi, senza mai insidiare la millenaria superiorità della tradizione europea. Basta osservare lo sforzo (spesso artificioso) dello stesso Praz di ricondurre l’originalità americana a derivazioni europee. Basta guardare il tiepido entusiasmo di Emilio Cecchi, o il cauto slancio di Carlo Linati, che traduce Il ritorno del soldato già nel 1925 e riceve un biglietto di ringraziamento dallo stesso Hemingway, ma non riesce a immaginare «come possa [la civiltà europea] abbandonare questi suoi preziosi beni nelle mani di Babbitt» (LINATI, 1923) [Ndr. “Babbit” è il tipico americano medio-borghese di provincia per bene del boom economico. Il nome deriva dal titolo di un romanzo del 1922 di Sinclair Lewis, intitolato “Babbit” appunto].
Tra l’altro l’interesse dei letterati italiani per Hemingway si riallacciava ad un elemento puramente accessorio, o comunque esteriore, ossia lo stretto legame biografico dell’autore con la nostra penisola. L’esperienza della guerra – l’arrivo a Schio, la ferita alla gamba a Fossalta di Piave, il ricovero a Milano – si consuma tutta su suolo italiano, e lascia in lui un fantasma da esorcizzare con continui ritorni (almeno sette in totale). Nel 1922 Hemingway è in Italia due volte, in aprile per seguire la Conferenza Economica Internazione di Genova (dove, non essendo molto ferrato in economia, passa il tempo a disegnare caricature di Lloyd George) e in maggio, quando attraversa le Alpi a piedi e torna sui luoghi di guerra (leggenda vuole che abbia defecato sull’esatto punto in cui fu ferito). Nel 1923 fa visita a Ezra Pound a Rapallo, vanno a piedi a Pisa e Siena; poi, dopo una breve sosta a Sirmione, scopre una località di montagna allora sconosciuta, resa glamour dal suo passaggio: Cortina d’Ampezzo. Del 1927 è un breve giro in macchina con l’amico Guy Hickock, con annesso incontro con Giuseppe Bianchi, il prete che lo aveva battezzato in fin di vita al fronte. Nel 1948 e nel 1954 si divide tra Venezia e l’isola di Torcello, mentre in mezzo, nel 1953, inaugura il famosissimo muretto di fronte al Caffè Roma di Alassio.
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e la
dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America,
avversata dai fascisti come potenza plutocratica e covo del giudaismo mondiale.
«Dominio dei monopoli», «popolo sradicato», «sabba di macchine», «società priva
di storia» sono solo alcuni degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione culturale,
una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione – quella degli
Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come vergine
adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni, delle
reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa hemingwayana:
Ma è proprio quando la situazione politica cambia – e
la dittatura fascista si consolida – che cambia l’interesse italiano per
Hemingway. Non più saltuario e superficiale, ma serio, strutturato, foriero di
nuove suggestioni nel mutato clima generale del paese. Non a caso sono gli anni
del mito dell’America, avversata dai fascisti come potenza
plutocratica e covo del giudaismo mondiale. «Dominio dei monopoli», «popolo
sradicato», «sabba di macchine», «società priva di storia» sono solo alcuni
degli epiteti riservati agli USA (ANTONELLI, 2008).
Nel decennio degli anni ’30, «il decennio delle traduzioni» (PAVESE, 1951),
l’introduzione in Italia di autori americani come Hemingway diventa quindi
molto più di una mera traslazione da una lingua ad un’altra. È un’operazione
culturale, una protesta politica, uno slancio ideale, in una suggestione –
quella degli Stati Uniti come altrove di libertà e della loro letteratura come
vergine adesione alle cose – che si alimentava delle progressive restrizioni,
delle reiterate censure, delle asfissianti gabbie della retorica.
Il primo a capire la connessione è Cesare Pavese. «Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi» dice cogliendo il punto (PAVESE, 1945). E nonostante i suoi preferiti siano altri – su tutti il Moby Dick di Melville, ma anche Sinclar Lewis e Sherwood Anderson – riserva sempre grande attenzione alle opere di Hemingway. Ad un suo amico americano, Antonio Chiuminnato, già nel 1930 chiede di inviargli «qualcosa di Ernest Hemingway (Anche il sole sorge, Uomini senza donne, Addio alle armi) o qualsiasi altra cosa di lui sia reperibile», testimoniando le difficoltà nel reperire edizioni italiane («Specialmente dell’ultimo libro si parla molto qui, ma non se ne è vista nessuna edizione») (PAVESE, 1966). Un paio d’anni dopo, prega ancora Chiuminatto di cercare «un’edizione economica di in our time di Hemingway. Sento dirne meraviglie» (PAVESE, 1966). E in quella miniera di lucidi giudizi critici che è Il mestiere di vivere, se ne rintraccia uno, in cui coglie l’originalità della prosa hemingwayana:
Stendhal-Hemingway. Non raccontano il
mondo, la società, non dànno il senso di attingere a una larga realtà
interpretando a scelta, a volontà – come Balzac, come Tolstoi, come ecc. Hanno
una costante di tensione umana che si risolve in situazioni sensorio-ambientali
rese con assoluta immediatezza. Altre non ne saprebbero rendere, come invece i
suddetti. Su questa costante han costruito un’ideologia, che è poi il loro
mestiere di narratori: l’energia, la chiarezza, la non-letteratura.
Flaubert sceglieva un ambiente; loro no.
Dostojevskij costruiva un mondo dialettico; loro no.
Faulkner stilizza atmosfere e mitologizza; loro no.
Lawrence indagava una sfera cosmica e l’insegnava; loro no.
Sono i tipici narratori in prima persona. (PAVESE, 1952)
Al di là di queste scarne notazioni, il merito di Pavese sta nell’aver introdotto all’opera di Hemingway una sua allieva particolarmente dotata. Siamo a Torino, nella primavera del 1935, e Fernanda Pivano è una giovane studentessa del liceo classico D’Azeglio. Tra le versioni da Erodoto, l’antipatia per la professoressa di chimica e l’amicizia con i suoi compagni – tra cui Primo Levi, «sommesso e timidissimo», ma che «si imponeva da gigante con la sua bravura, il suo talento, la sua gentilezza» (PIVANO, 2008) – rimane folgorata dall’arrivo di un supplente di italiano «giovane giovane», un po’ ritroso, con i capelli arruffati, ma con «una bellissima voce che avrebbe fatto invidia a un attore, un po’ atona, un po’ soffocata, sempre sommessa, fascinosa mentre leggeva Dante o Guido Guinizelli e li rendeva chiari come la luce delle stelle». Fa lezione sul Momigliano (manuale inviso al ministero), cita De Sanctis e Croce, e non fa mistero della sua insofferenza per le fanfare in camicia nera. Lui è, appunto, Cesare Pavese, e i suoi studenti lo adorano. Un giorno l’idillio viene interrotto dalla polizia fascista, che lo arresta e lo manda al confino. Fernanda, bocciata all’esame di italiano, lo rivede per caso in piscina tre anni più tardi, nel 1938. Pavese non ricorda la sua vecchia allieva, ma se ne innamora all’istante. L’ammirazione sconfinata di lei, però, non sfocia nella passione amorosa (due volte lui la chiederà in sposa, due volte lei opporà un garbato rifiuto) ma l’intesa intellettuale è ottima, e mentre lei prepara la tesi su P.B. Shelley, Pavese le suggerisce di dirottarsi verso la letteratura americana. Così la Pivano:
Naturalmente gli avevo chiesto che differenza c’era tra le due letterature e lui si era passato la pipa da una parte all’altra della bocca e invece di rispondermi mi aveva lasciato in portineria quattro libri, ognuno avvolto in una carta da pacchi arancione e il titolo scritto in corsivo con la penna stilografica, come usava allora: Farewell to Arms di Ernest Hemingway, Leaves of Grass di Walt Whitman, l’autobiografia di Sherwood Anderson e questo strano libro di poesie, Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters. (PIVANO, 2008)
Un gesto così semplice come portare dei libri poteva costare caro a quei tempi. Proprio quell’anno, il 1938, segna un vigoroso giro di vite nella censura fascista, che si fa più stringente, più puntigliosa, aspirando al controllo sistematico di ogni uscita editoriale. «A datare dal 1° aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la diffusione in Italia delle traduzioni straniere» recitano i documenti ufficiali (RUNDLE, 2010). Incurante del pericolo, Fernanda legge i libri d’un fiato e traduce Masters: grazie ad un astuto stratagemma – la raccolta viene spacciata per una devota e improbabilissima Antologia di S. River – il libro esce nel 1943 presso Einaudi. Fernanda, ormai conquistata dalla letteratura americana, lavora ora su Addio alle armi di Ernest Hemingway, altro testo proibitissimo dal fascismo.
Il perché sia proibito è facile da intuire. È un romanzo antimilitarista, antiretorico, e la descrizione della disfatta di Caporetto (a cui tra l’altro Hemingway non assistette, modellandola sulla ritirata greca in Tracia durante la guerra greco-turca del 1922) è considerata lesiva per l’onore delle forze armate italiane. Facile immaginare, dunque, perché Hemingway suscitasse l’entusiasmo degli oppositori. Come è facile immaginare la faccia delle SS naziste quando, durante una retata presso la sede di Einaudi, trovano il contratto di traduzione per Addio alle armi. Commettono però un errore: il contratto è erroneamente intestato a «Fernando Pivano» e le SS arrestano Franco, il fratello di Fernanda. Appena ricevuta la notizia, lei si fionda all’Hotel Nazionale, il quartier generale nazista dietro piazza San Carlo, e riesce, pur tra mille difficoltà, a chiarire l’equivoco. Scagionato il fratello, rimane in carcere per dodici ore, subendo interminabili interrogatori, continue minacce, feroci intimidazioni, in una corrida, così la definirà, «in cui io sono un povero torellino inesperto e loro matadores che da anni passavano la vita a mandare la gente nei lager» (PIVANO, 2008).
L’episodio dovette giungere alle orecchie di Hemingway poiché, una volta finita la guerra, invita la Pivano a raggiungerlo all’hotel Concordia di Cortina, aperto fuori stagione solo per lui. Lei all’inizio pensa ad uno «scherzo di cattivo gusto», poi si precipita sul «trenino da favola ora scomparso delle Dolomiti» (PIVANO, 2017) e lo raggiunge. È il 10 ottobre del 1948:
Quando mi aveva vista lì sulla porta della sala da pranzo, coperta di fuliggine e di polvere e troppo emozionata per entrare, si era alzato e aveva attraversato il salone con le braccia aperte richiudendole su di me in uno hug come quelli di cui avevo letto nei suoi racconti; poi mi aveva preso per mano e accompagnandomi al tavolo mi aveva detto in uno di quei bisbigli coi quali mascherava la sua leggera balbuzie: “Tell me about the Nazi” (PIVANO, 2008).
È l’inizio del sodalizio tra Papa (come
lei chiama lui) e Daughter (come lui chiama lei). Lui le parla
di Fitzgerald e Gertrude Stein, impilando tutti i ricordi della stagione
parigina che riorganizzerà in A Moveable Feast. Lei accumula
indelebili memorie, tra luci e ombre: la lunga tavolata del Natale 1948 a villa
Aprile, sempre a Cortina; le gite in montagna su una vecchia Buick azzurra;
l’«ombra permanente di disperazione» (PIVANO, 2017) al Gritti di Venezia, dove
la chiama nel 1954, l’anno del Nobel, per sostenerlo dopo l’incubo di uno
sciagurato safari in Congo (con ferite, notti all’adiaccio e ben due incidenti
aerei); il solare declino alla Finca Vigia, la casa di Hemingway a Cuba, dove
Fernanda lo rivede nel 1956 con «i suoi bermuda sorretti per miracolo sotto lo
stomaco teso dal gin» (PIVANO, 2017).
In tutto si conteranno, su Hemingway, una biografia, la curatela dell’opera
omnia, cinque edizioni delle opere, quindici prefazioni, quattro traduzioni,
innumerevoli pagine critiche.
Estratto dell’articolo di Mario Taccone
Revisione e cura: Alessandro Ardigò, Valentino Valitutti
Tratto dal sito https://radicidigitali.eu/