Parlare di arie celebri come fossero calci di rigore che il pubblico aspetta, di compositori amati e detestati e di improvvisi ripensamenti può essere istruttivo per capire il modo in cui un grande direttore fa musica.
Quanto c’è di naturale o studiato in un atteggiamento che dal podio irradia verso l’orchestra e la platea?
«Nulla nasce per caso – dice Daniele Gatti – e occorrono anni di studi, di filologia accanita, di intuizioni per dare un senso a uno spartito. Prenda Verdi, lo si confina nella tradizione più vieta; pochi sanno scorgere nella sua musica un rigore e una forza che su un altro piano solo Wagner seppe esprimere».
Gatti è un direttore relativamente giovane, una promessa realizzata. In questi giorni è impegnato nei corsi di direzione d’orchestra all’accademia chigiana. Ci incontriamo a Roma, su una terrazza dove sullo sfondo è visibile Villa Medici.
Che rapporto ha con Roma?
«La città mi piace, e mi sono trovato benissimo nel triennio della mia direzione al teatro dell’Opera di Roma. Il mio contratto scadrà alla fine di quest’anno. Dalla primavera del prossimo dirigerò il Maggio Musicale Fiorentino. Altra sfida, altra città».
Un direttore d’orchestra ha radici?
«Le ha per quel tanto che riesce a godere dei propri affetti privati. Il resto è nomadismo, mutazioni veloci, trasferimenti. Qualcosa che somiglia a una solitudine, anche se affollata di gente».
Dove è nato?
«A Milano, famiglia modesta, padre bancario, madre segretaria. La fortuna ha voluto che amassero visceralmente la musica. Mio padre tentò perfino l’avventura della lirica. Subito dopo la guerra aveva studiato canto con il tenore Aureliano Pèrtile ma poi prevalsero le urgenze familiari. Gli restò una passione che mi trasmise. Molte sere in cucina ascoltavamo musica alla radio e, se il brano mi piaceva, il giorno dopo comprava il disco. E lo riascoltavamo con più attenzione. È stato il primo apprendistato».
Poteva anche essere l’ultimo.
«La vita di un bambino di otto anni è un mistero. Ricca di potenzialità ma a volte povera di occasioni. Ho avuto la determinazione fin da subito di sapere che cosa volevo. Ma quello che non sapevo era se possedessi il talento per dare una forma a tutto questo».
Come lo scoprì?
«C’era un pianoforte in casa e cominciai a suonarlo a orecchio. Papà mi portò in conservatorio. Feci un esame di audizione e venni preso. Avevo ormai 11 anni».
Da quell’età sono trascorsi circa cinquant’anni. Come vede e giudica il bambino di allora?
«Con una certa indulgenza».
Perché indulgenza?
«La verità è che non sapevo cosa davvero mi piacesse. Grande amore per la musica e un’eguale passione per il calcio. Ero sempre a giocare. Correre, sudare e gridare in un campetto delle periferia milanese. Tutti i pomeriggi fino a sera inoltrata. Presi a ignorare il pianoforte. Trascuravo l’altra metà di me. Così avanti fino ai 14 anni».
E poi?
«Mi dissi: sfondare come attaccante mi pare improbabile. Potrei fare gol come direttore d’orchestra. Mi iscrissi, a insaputa dei miei, a composizione, riducendo drasticamente l’impegno per il calcio».
Un direttore d’orchestra ha dei miti?
«Tutti li hanno. Anche chi prova a rimuoverli e a dimenticarli».
I suoi?
«Quelli che passavano alla Scala e andavo ad ascoltare: Abbado, Maazel, Muti. E poi Giulini e Barenboim. Ho visto dal vivo una sola volta Karajan, ma è stato sufficiente per capire cosa fosse la grandezza».
L’Italia è verdiana?
«È il compositore di riferimento, lo dico con tutto il rispetto per Bellini, Rossini, Donizetti».
Non c’è troppa enfasi patriottica?
«C’è, ma solo perché viene costantemente frainteso».
In che modo?
«Si spinge sul pedale della tradizione e lo si fa in modo pigro. Per cui, in nome della cosiddetta “tradizione”, alcune interpretazioni diventano intoccabili. La verità è che dietro certa ovvietà stilistica bisognerebbe ricercare la complessità dell’artista. Comprendere le ragioni di certe partiture».
Cosa intende?
«Va compreso perché Verdi scrivesse certe cose. Spesso nelle sue opere c’è un atto di accusa verso la società in cui vive. Porta in scena la miseria umana. Non è sociologia la sua. Ma un modo di stare dentro la musica. Se ascoltiamo distrattamente la storia di Violetta nella Traviata, sappiamo già in anticipo come verrà cantata. Questa è la pigrizia di certe ricezioni. Dietro il mondo di Violetta si muovono le forze oscure dell’economia, del denaro, di chi è privilegiato e chi no. Il comportamento di Violetta, la sua maniera di amare, sono considerati un pericolo per la famiglia ottocentesca. Questo ci racconta Verdi e ce lo dice in musica, non con le parole!».
Ma quella musica ognuno la interpreta con la propria sensibilità.
«Ogni grande interprete si sforza per arrivare a una qualche forma di verità. Ricerca un assoluto che non si può afferrare totalmente, ma sfiorarlo è possibile.
Questa storia dell’“assoluto” piaceva ai romantici. Piace a tutti e sa perché? Perché l’assoluto è il solo linguaggio che dà forma alla musica. Anche Schönberg o Shostakovitch cercavano il loro bravo assoluto, mica solo Beethoven».
Non crede che la musica sia spesso ricca di fraintendimenti?
«Cosa intende con fraintendimento?».
Alla fine tutto è interpretabile. Lei legge la “Traviata” in un modo, Muti in un altro e alla fine la partitura ci offre numerose opzioni.
«Per questo esiste lo studio. Fraintendere è umano. Occorre capire se si fraintende in buona o cattiva fede. È chiaro che se l’obiettivo è solo quello di trovare o consolidare un successo, si punterà agli effetti eclatanti, fregandosene di quello che il compositore voleva. Ma c’è anche un altro modo di fraintendere».
Quale?
«Non l’errore o l’interpretazione approssimativa che pure ci può stare, ma il lasciarsi andare al flusso della musica. Sarà essa a condurci da qualche parte. Il fraintendimento è allora toccare vertici che neppure immaginavamo. La musica è grande quando rivela la forza in grado di generare se stessa».
È questo che aspetta un direttore?
«È un attendere che la grazia si compia. Ma è raro che accada».
Conta il merito?
«Conta la libera disposizione della propria anima, a ricevere qualcosa di imprevisto».
Che posto occupa il corpo?
«Intende quello fisico?».
Sì.
«Fa parte della sintassi o meglio dello spazio musicale. Certe volte, quando alcuni passaggi sono particolarmente complicati da trasmettere all’orchestra, è il corpo a guidare il flusso musicale».
Siamo abituati a vedere corpi direttoriali tarantolati e altri al limite dell’immobilità. Perché tante variazioni?
«Ognuno ha una propria postura. Ma il movimento di un corpo sul podio non è un esercizio ginnico. Quando dirigo, non posso fermare l’orchestra e dirle in quale direzione andare. Ho solo un rapporto uditivo e visivo. Il mio corpo “parla” ad essa, dice cosa fare. In quel momento si realizza una sintonia che non era prevista e che fa compiere un salto alla musica».
È la ragione per cui certe esecuzioni sono considerate memorabili?
«Direi di sì. A me è accaduto di “forzare” senza volerlo i confini di un’interpretazione. In che modo non lo so. Ma ci sono state delle improvvise illuminazioni che non avevo previsto. Quando parlavo di verità è a questo che pensavo, al fatto che un’esecuzione non è mai definitiva. Ma i dubbi, alla fine, si sciolgono sulla scena».
A proposito di Claudio Abbado, ecco cosa dice Gatti: «La malattia degli ultimi anni ha trasfigurato il suo modo di avvicinarsi alla musica. Ha reso il suo gesto più essenziale, più astratto e insieme più libero e credo lo abbia avvicinato alla dimensione spirituale e misteriosa della musica…L’ho sempre considerato il mio maestro aggiunto. Gli sarò sempre grato”
Parlava prima del talento. Come lo definirebbe?
«Una predisposizione che molti hanno nella vita, ma pochi sono in grado di manifestare. Poi ci sono talenti più incompresi di altri e finti talenti di cui si capisce presto il bluff. In ogni caso il talento è una pianta che va nutrita. Bisogna guardarsi da quelle esplosioni giovanili che come fiumi in piena tutto travolgono. Alla fine resta ben poco. Per questo costruire buoni argini permetterà al fiume di scorrere bene. Il talento è il contrario del caos».
Nel suo repertorio c’è molto Verdi e poco Mozart.
«L’ho diretto, anche perché adoro il teatro di musica. Ma è vero che l’ho fatto senza costanza. Sono più incline a Wagner e Verdi».
Li si è spesso visti in opposizione.
«È vero, ma entrambi mirano allo stesso scopo. Di solito si definisce Verdi un compositore di arie; in realtà è un musicista della totalità come lo è Wagner. La loro diversità è dettata dalle differenti origini del teatro. Quello italiano è molto più frammentato di quello tedesco. Poi è chiaro che le visioni di fondo si scostano».
Come?
«Wagner racconta il dionisiaco, il sovrumano, tutto ciò che è titanico; Verdi no, lui ci parla delle miserie umane. Verdi asciuga il dramma fino a tentare di spiegare caparbiamente perché qualcosa accade. Wagner dilata il dramma per liberarlo dalle incrostazioni quotidiane».
Come sceglie un compositore?
«Ci sono molti modi per accostarsi a un autore e a una partitura. Così come ci sono degli ostacoli. Per esempio non riesco a dirigere Rachmaninov. Faccio fatica a entrare nel suo mondo, anche se so che è un gradissimo compositore»
È una rinuncia definitiva?
«Non c’è mai niente di definitivo. Ricordo che quando diressi l’Ouverture del Carnevale romano, giurai a me stesso che mai più avrei eseguito Berlioz. Poi accadde che nel 2008 mi fu proposto di eseguirlo a Parigi. Ero incerto. Alla fine, per dovere istituzionale, accettai. Venivo da alcune fresche letture di storia francese. E fu quella la chiave. La sua musica attraversa tutte le tensioni dell’epoca. Bastava coglierle nella partitura. Eseguii il Romeo e Giulietta mettendo tra parentesi tutte le altre esecuzioni. Fu come trovarmi di fronte a un territorio sconosciuto da esplorare. La sorpresa fu enorme».
Che cosa era cambiato nel suo atteggiamento?
«L’aver visto Berlioz come l’ultimo grande compositore che si misura con Beethoven e non come il musicista che apre la strada a Brahms. Quello che non avevo fini lì capito è che Berlioz non è un normalizzatore».
Ama i compositori di rottura?
«Non c’è dubbio che li preferisco. Ma ho imparato ad amare l’imprevedibile che si nasconde nel prevedibile».
Vale anche per i rapporti che ha con le orchestre che dirige?
«Tirare fuori il meglio da un’orchestra è quello che ogni buon direttore si propone. Ma perché questo accada occorre che ci sia rispetto reciproco che si ottiene non attraverso le compiacenze, ma con la competenza. Il direttore è una figura solitaria. Il suo ruolo viene messo alla prova da quello che fa, non da ciò che dice».
Fuori dal mondo musicale com’è la sua vita?
«Normalissima, vivo a Milano, ho una compagna, amo le macchine e il jazz. Il massimo della distensione è affrontare lunghi viaggi in cui guido e ascolto jazz».
Altra musica?
«Da bambino Sanremo era un obbligo. Ma quella musica non fa più parte del mio quotidiano. Mi piace Pino Daniele».
Bob Dylan?
«Preferisco i Genesis. Il mio è un ascolto armonico, non sono un melodista».
A proposito di calcio è più facile affrontare una partita o una partitura?
«Si possono sbagliare entrambe nel modo di affrontarle. Ci sono direttori che aspettano l’aria di un’opera come fosse il momento dei “calci di rigore”, con il pubblico che esplode davanti all’acuto. È il prevedibile che non diverrà mai imprevedibile».
Ha visto gli europei di calcio?
«Sì, in quel caso viva i calci di rigore!».
Intervista di Antonio Gnoli, ROBINSON Corriere sera