Impermeabile chiaro, cappello floscio a larghe tese, sigaretta all’angolo della bocca, volto corrucciato e l’inconfondibile sorriso a denti stretti, reso singolare dalla cicatrice sul labbro. Era lui o non era lui? Sam Spade in Italia, oggi?
Era appena sceso dalla chevrolet che silenziosamente si era fermata sulla piazza, lucida come appena uscita di fabbrica. Imbruniva, ma l’aria era ancora tiepida, nella festosa confusione dei turisti nessuno sembrava badargli. Fatti pochi passi e quasi di soppiatto si era infilato nella libreria internazionale, dove si era seduto nell’angolo bar, ordinando un whisky. Le braccia conserte, quasi a trattenere l’impermeabile chiaro, la fronte scoperta, ancora con il segno del cappello. Aveva conservato i capelli neri, solo la stempiatura era più profonda, cosa che gli dava maggiore autorevolezza.
Mi fermai davanti a lui: “ma lei è Sam Spade?.. Sì insomma Humphrey….” e lasciai la frase sospesa.
Mi guardò inespressivo, poi con un sorriso amaro dei suoi mi fa: “ma sì…, si metta seduto, è un giornalista?”
“No, un ammiratore, semmai.”
“Cosa vuole?” Si era fatto guardingo.
“Trovo strano, insolito che lei.. Qui a Roma non era mai venuto, neanche nei tempi migliori.”
“Sono qui per Mastorna, quell’idea che frulla in testa a Fellini…è stanco di Mastroianni.” La voce ha un velo di noia, poi riprende: “Audrey Hepburn ha insistito tanto, ama Fellini e l’Italia la donnina.”
“Questa è una notizia, ma per quale ruolo? Un duro come lei.”
Sogghigna, aspira la sigaretta, poi beve un sorso. Indugia socchiudendo gli occhi.
“Un pilota d’aereo”-dice- “ma non conosco i particolari. So che precipita. Nemmeno una pagina di copione mi ha fatto vedere. Tutto qui? -gli domando- e lui, guardandomi con i suoi occhioni da bovino mansueto: no, tutto qui-mi risponde- toccandosi la fronte”.
“Non si è trovato bene con Fellini, mi pare.”
“Roma non mi piace, troppo caotica, preferisco Holmby Hills….Fellini è un grande regista, ma visionario “e improvvisatore, sarà difficile lavorare con lui.”
“Certo, che per voi, abituati con le Major, e la Warner cosa dice?”
“Ho la mia casa, oramai, la Santana Productions, faccio da me.”
Una lunga pausa, come cercando le parole: “invece mi è piaciuta Marina, la moglie..”
“Masina, ….Giulietta Masina, mister Bogart.”
“Ah, sì, Masina. Donna interessante, intensa….” Vuotò il bicchiere d’un sorso e con un cenno ne ordinò un altro. Ma lei non beve- mi guardò sorpreso- “prenda, prenda !..”
Poi riprese: “certo che lui sembra uscito da un rotocalco, … la chiamava con quella… in a cracked voice, come si dice in italiano..?”
“Non so, stridula, forse?”
Qui Bogart si animò per mimare la scena: “peperino piccolo piccolo, solo tu mi fai ridere. Per te sono pronto a fare le capriole… me lo immagino, così grosso com’è”. Preso il bicchiere Bogart ne bevve un lungo sorso, si asciugo le labbra, schioccando la lingua. Da vicino, sul suo naso trasparivano delle venuzze, un ricamo dell’età che il cerone avrebbe nascosto, mentre le borse attorno agli occhi calzavano col personaggio.
Con un tono di confidenza, mi feci più sotto: a proposito, “come andò in Congo, mentre girava La regina d’Africa? Veramente la troupe fu abbattuta dalla dissenteria, esclusi lei e Huston?”
Bogart scoppia in una risata che fa tintinnare il bicchiere oramai vuoto:”un mare di merda, per giorni, il set era ridotto ad una latrina. Ma il peggio venne quando il battello affondò nel fiume. Mi dissi che anche il film sarebbe affondato. E invece ebbi l’Oscar, soffiandolo a Brando…. Bei tempi!”
Nel portacenere contavo 7 mozziconi di sigarette. L’angolo bar era immerso in una nebbia sospesa a mezz’aria. Ogni tanto qualche colpo di tosse stizzosa scuoteva Bogart che, nonostante l’ ampio soprabito, appariva magro, di piccola statura, quasi rattrappito. Quell’uomo mandava dagli occhi lampi di stanco scetticismo, lì stava il suo fascino, e poi in quella delicatezza dell’ovale del viso allungato, insospettata per i sui modi da duro.
Mentre lo osservavo mi sembrò ripetesse come un ritornello, a mezza voce, qualcosa come “voglio tornare domani a Holmby Hills…. voglio tornare….”
Poi si alzò di scatto: “dovè il w.c.?”
Glielo indicai e si avviò col solito passo furtivo.
Avevo un sacco di cose da chiedergli ancora.
Ma non tornò, né lo vidi più. Volatilizzato, come in un sogno.
Sulla sedia era rimasto il suo cappello floscio, marca Stetson, 1940, il nome Humphrey inciso a fuoco sulla striscia di cuoio interna, che conservo ancora come una reliquia.
Una ricostruzione di fantasia che tratteggia bene cosa doveva essere nel privato il celebre attore americano.
Il quale appare però oramai dimenticato, forse non è stato così grande come si dice.
Giovanni Piscopo