Colti, divertenti, spregiudicati, quasi detestabili. Vissero nella Parigi di Zola, Flaubert, Baudelaire, Maupassant. Ossessionati dai bassifondi e circondati da artisti. Erano “due corpi in una sola anima”. Jules, Edmond e la storia del Diciannovesimo secolo
Otto anni di differenza tra i due. Uno malinconico e l’altro gioviale. Uno alto e robusto, l’altro bello, biondo e di salute cagionevole. Uniti da un vincolo fatato, perturbante, vivono in totale simbiosi, condividendo ogni cosa: casa, lavoro, donne, viaggi, desideri. Scrivono un pamphlet contro la Rivoluzione del 1789: una “rivolta da operetta condotta da gente con i piedi puzzolenti”. Scandagliano l’umanità in ogni suo aspetto. Trascorrono le loro giornate nei bassifondi, mossi da una sincera compassione per il popolo. Dodici anni alla scuola francese di Roma, lo Chateaubriand, hanno fatto sì che io sia cresciuta col mito di Vercingetorige invece che quello di Cesare, e che i miei orizzonti letterari non oltrepassassero mai le Alpi (in direzione cioè dell’Italia…).
Balzac, Flaubert, Zola, Gautier, Baudelaire, Verlaine, Maupassant: i venerabili, intoccabili, maestri della mia adolescenza. Questa premessa personale potrà forse servire a spiegare il trasporto, al limite della venerazione, che provo nei confronti dei due uomini che hanno avuto l’ardire di demolire i piedistalli sui quali erano ancorati saldamente gli autori citati, loro contemporanei, e di averceli restituiti in carne e ossa, illuminandone i pregi e, soprattutto, gli infiniti difetti. Il loro nome è legato al più famoso premio letterario francese, ma come spesso accade, la fama dell’onorificenza ha offuscato la memoria di chi l’ha istituita. Non sono in molti (neanche in Francia) a ricordarsi di Jules e Edmond de Goncourt, i fratelli terribili, gli “infrequentabili” letterati del dix-neuvième siècle, eppure sono figure cardine di quel tempo, così generoso di spiriti inquieti.
Confesso che il lato morboso del mio carattere è stato solleticato da questa frase: “Siamo due corpi con una sola anima”. Non so bene chi dei due l’abbia pronunciata, non è importante saperlo, perché, come vedremo, uno vale l’altro. Il legame misterioso e potentissimo che unisce Edmond al fratello Jules cancella ogni minima interferenza, ogni possibile differenza: non contano gli anni che li separano (otto), non contano gli opposti caratteri (Edmond, il maggiore, è malinconico mentre Jules è gioviale) tantomeno l’aspetto fisico (il primo alto e robusto, l’altro bello, biondo e di salute cagionevole). Come gemelli siamesi, essi formano un nucleo indistinto.
Già orfani di padre, quando anche la madre li lascia, siglano un patto simile a quello che si pronuncia di fronte all’altare: finché morte non ci separi. Uniti da un vincolo fatato, perturbante, vivono in totale simbiosi, condividendo ogni cosa: casa, lavoro, donne, viaggi, desideri, frustrazioni, furore. La dottrina (il termine non è scelto a caso) a cui sono devoti è la bellezza, e vi consacrano la loro vita. Il lavoro, o per meglio dire l’impiego, è una faccenda che non li riguarda, possono contare su una discreta rendita che investono nella ricerca di cose belle. Passano il tempo in giro per brocantes a caccia di mobili antichi, cineserie, giapponeserie e oggetti d’arte del secolo passato, di cui sono fanatici nostalgici. Stilano un inventario dettagliato dei loro averi, dando sfogo a un’inclinazione che ancora non sanno essere il loro destino: l’osservazione dei dettagli, la precisione della descrizione. Nel frattempo si dilettano con la pittura e nel loro girovagare prendono nota di tutto ciò che li circonda sviluppando uno spirito reazionario, avverso all’epoca nella quale sono costretti a vivere: contro l’educazione dei bambini (quando il loro libraio di fiducia gli rende noto di voler mandare il figlio in collegio gli rispondono che così lo rovina… a proposito, il bambino in questione si chiama Anatole France e riceverà il Nobel per la letteratura), contro il telefono (“diabolico”), il pigiama (“strumento di prostituzione”), la bicicletta, la democrazia. Ma anche contro le donne, l’omosessualità, gli ebrei… E’ il ritratto di due persone detestabili? Se ci si ferma alla superficie è innegabile, ma scavando si scopre che il loro è un atteggiamento forzato. Recitano volentieri il ruolo di misantropi (salvo essere circondati da amici), amano mostrarsi odiosi, esibire i loro difetti più che i loro pregi. Sono cinici, spietati, scorretti. Ma anche affascinanti, perché profondamente liberi.
Ben presto capiscono che la scrittura è lo strumento più adatto per scagliarsi contro tutto ciò che detestano. Sono pieni di talento, e lo sanno. Cominciano la loro carriera di letterati come critici teatrali, anche se, dovendo recensire uno spettacolo che non hanno gradito può capitare che dirottino l’attenzione sul pubblico, sulle mises delle signore, o sul menu del ristorante in cui hanno mangiato. Impongono sempre il loro punto di vista, inaugurando uno stile mai adoperato prima, e si creano una moltitudine di nemici. Scrivono un pamphlet contro la Rivoluzione del 1789 che definiscono una “rivolta da operetta condotta da gente con i piedi puzzolenti” e non fanno sconti a nessuno, ergendosi a eroi della Verità, “i soli che non mentono in questa società bugiarda”. L’intolleranza da cui sono pervasi non è tuttavia fine a se stessa, Jules e Edmond vogliono distinguersi dalla norma, soprattutto come scrittori, convinti che il romanzo sia un mezzo per raccontare la società, senza filtri né mistificazioni. Il loro è innanzitutto un progetto estetico guidato dalla sensibilità, che sostengono di possedere più di chiunque altro: “Abbiamo la facoltà di vedere ciò che agli altri sfugge”. Diventano storici del costume, biografi della nobildonna del Settecento, romanzieri. Scandagliano l’umanità in ogni suo aspetto, dal più alto al più basso. I dandy paladini del bello, nostalgici della vita aristocratica del diciottesimo secolo, in realtà trascorrono le loro giornate nei bassifondi, mossi da una sincera compassione per il popolo. Fra gente sudicia e depravata, raccolgono tracce, esplorano ambienti, memorizzano voci, odori, modi di dire, che finiscono tel quel nei loro libri. Come moderni documentaristi sono ossessionati dalla realtà, tanto più se evoca bruttezza, deformità, perversione (fossero nati cinquant’anni dopo, avrebbero scelto il cinema come mezzo di espressione, certamente più consono alla loro indole malgrado la considerazione “alta e inarrivabile” che avevano della letteratura… Il cinema, guarda caso inventato da due fratelli). I Goncourt sono scrittori specialissimi, amano le linee di confine, gli stadi intermedi, si soffermano su ciò che capita fra una cosa e l’altra, l’alterazione provocata dall’assenzio, l’abbandono del sonno, l’abulia… Mettono in scena reietti, prostitute, quasi tutti ispirati dalla vita reale, come in Germinie Lacerteux che narra la doppia vita della loro domestica, ninfomane e dedita a ogni vizio. Diventano precursori di un genere, il Naturalismo (“siamo stati i primi scrittori di nervi”), e lo rivendicano, anche se quel primato viene conferito a Zola che dei Goncourt è prima allievo, poi amico e infine, raggiunto il successo, bersaglio di strali impietosi. E qui arriviamo al perno centrale della loro esistenza, la sostanza velenosa che ha nutrito le loro invettive: il risentimento. Sono arsi fino al midollo da una lava incandescente di risentimento nei confronti della critica che li sottovaluta, dei confrères romanzieri che ricevono onori “immeritati”, del mondo che fa schifo. L’unica cosa su cui sanno di poter contare è l’amore reciproco: “Io so cosa sia l’amore. Se si mette da parte il lato carnale, il sentimento che ci lega fa sì che quando siamo lontani ci sentiamo perduti, l’uno separato dall’altro è un uomo a metà”, scrive Edmond sul diario che dal 1850 custodisce i loro pensieri, le loro impressioni, il loro grido di dolore.
Il diario, l’espressione più intima che esista per un individuo, i Goncourt lo scrivono in due. E senza saperlo, creano il loro capolavoro. I resoconti dei cenacoli in cui gli scrittori parlano male degli altri, bevono, si strafogano e contano le loro donne. La nascita dell’Académie Goncourt. “Su questo viso amato, dove brillavano l’intelligenza, l’ironia, vedo scivolare di minuto in minuto la maschera stravolta dell’imbecillità”. Una volta al mese si organizza le dîner des sifflés che riunisce gli autori le cui rappresentazioni sono state fischiate: Zola, Flaubert, Turgenev. Il solo di cui tutti parlano bene è l’italiano De Nittis dal quale vanno volentieri a cena pregustando i maccheroni cucinati dal pittore pugliese.
IL Journal nasce come valvola di sfogo, è il serbatoio segreto delle loro frustrazioni che trascrivono in totale simmetria (uno comincia una frase, l’altro la termina) corroborati da un sentimento, l’invidia, così potente da fornire loro l’energia per lavorare giorno e notte, riempiendo migliaia di pagine indimenticabili. Il diario, l’espressione più intima che esista per un individuo, i Goncourt lo scrivono in due. E senza saperlo, creano il loro capolavoro.
Tornando a casa dopo una cena o uno spettacolo teatrale (passatempi abituali dei letterati dell’epoca), i fratelli si mettono al lavoro trascrivendo con perfida minuzia ciò che hanno visto e ascoltato: riferiscono le confidenze più intime degli ignari commensali, giudicano gli atteggiamenti, il vestiario, l’imperdonabile mancanza di gusto, i difetti fisici. “Dire male degli amici è la più grande ricreazione mai scoperta dall’uomo sociale”. Non si salva nessuno, anche quando si lasciano sfuggire dei complimenti si può essere certi che vi aggiungeranno un graffio, un dettaglio corrosivo. Ai loro occhi nessuno è davvero sincero e tutti recitano una parte. E’ una ricreazione anche per chi legge. Il Journal non sarebbe il capolavoro che è se non fosse attraversato da un umorismo impareggiabile. Quando la frustrazione è raccontata dal genio, da spettacolo patetico si trasforma in puro godimento (Truman Capote insegna). Sentite qui: “Baudelaire mangia di fianco a noi, senza cravatta, col collo scoperto, la testa rasata, in tenuta da condannato alla ghigliottina. Una sola ricercatezza: mani piccole, nette, pulite, scrupolosamente curate. La testa di un folle, la voce nitida come la lama di un coltello. Un tono pedantesco, vuol fare il Saint-Just e ci riesce. Si difende con una certa ostinazione e con aspra passionalità dall’accusa di avere offeso la morale pubblica con la sua poesia”. Le descrizioni fisiche andrebbero raccolte in un manuale di scrittura: “Gautier: una faccia appesantita, i tratti cascanti, i lineamenti impastati, la stanchezza da ippopotamo, l’intelligenza incagliata in una massa di materia”. George Sand: “Sembra la superiora di un convento. I suoi gesti sono lenti, da sonnambula. Si muove con la dignitosa gravità di un pachiderma”. La scrittrice è uno dei bersagli preferiti. E’ sempre assente, mezza addormentata, si risveglia solo in presenza di Flaubert, dal quale è attratta sessualmente e che lui non degna di uno sguardo, troppo concentrato a parlare di sé e delle sue fisime letterarie, o a leggere a voce alta ciò che ha appena scritto (“sgolandosi fino a far vibrare un grande piatto di bronzo”). Flaubert è un personaggio gigantesco del Diario, un gigione pieno di sé (“la sua allegria bovina manca di ogni fascino”) al quale i Goncourt dedicano pagine memorabili. Basterebbe la descrizione del suo studio sulla Senna, per capire quanto la maniacale attenzione dei fratelli ci abbia regalato una testimonianza quasi fotografica del luogo in cui è stata concepita Madame Bovary. Agli occhi dei nevrotici fratelli non sfugge un dettaglio e a me viene spontaneo chiedermi (una domanda che mi faccio tutte le volte che vedo le fotografie di un interno d’altri tempi) che fine abbiano fatto quegli oggetti, dove sarà finito il calamaio “a forma di rospo” che ha imbevuto la penna di Flaubert?
Lo stile diaristico, conciso ed essenziale, dimostra l’efficacia nell’uso del tempo presente che restituisce immediatezza e ci trasporta nei luoghi descritti, di cui percepiamo gli odori, i rumori di fondo. Maaccanto agli aneddoti folgoranti si inseriscono pensieri raffinati, considerazioni disincantate sulla letteratura, sul passaggio del tempo, sul terrore della morte, che aleggia, inesorabile, su ogni pagina. Soprattutto a partire dal 20 giugno 1870, data fondamentale nella biografia dei Goncourt.
Jules, il minore, muore a trentanove anni, vittima del male che farà scempio di una generazione: il morbo gallico, la sifilide. La lenta discesa nella follia descritta dal fratello superstite Edmond, che annota giorno per giorno l’evolversi della malattia disperandosi della propria impotenza, è terribile e struggente. “Su questo viso amato, dove brillavano l’intelligenza, l’ironia, vedo scivolare di minuto in minuto la maschera stravolta dell’imbecillità”. L’11 giugno vanno a cena in un ristorante. Jules è impacciato, pronuncia frasi sconnesse, si fa scivolare il piatto dalle mani. La gente li guarda, Edmond gli sussurra di fare attenzione: “Non è colpa mia, non è colpa mia!” grida l’altro afferrandogli la mano e chiedendo perdono: “E allora ci siamo messi a piangere tutt’e due nei nostri tovaglioli, sotto gli occhi stupiti della gente…”
Nove giorni dopo Jules muore. Di fronte al corpo esanime del fratello, Edmond scrive: “Più lo guardo, più studio i suoi tratti, più trovo sulla sua faccia un’aria di sofferenza morale che non ho mai visto persistere sul volto di un morto. E mi sembra di leggere, oltre la vita, il rimpianto dell’opera interrotta, il rimpianto della vita, il rimpianto di me”. Spossato, Edmond si corica. Disteso sul letto accanto a lui, un ritratto del fratello: “Mi sono intrattenuto con la sua immagine fino a notte fonda”.
Alcune settimane dopo, Parigi è sotto assedio. L’elaborazione del lutto si intreccia con i tumulti cittadini, il grande dramma storico marcia di pari passo con quello individuale, Edmond osserva ciò che accade con uno stato d’animo di partecipazione e straniamento, rimpiangendo di non potere condividere insieme all’amato fratello il cambiamento di un’epoca. Le visioni apocalittiche tra le barricate della Commune sono pagine potenti e preziosa testimonianza. Nei libri di storia difficilmente troveremo dettagli come questo: “Mi viene la curiosità di entrare da Roos, il macellaio del boulevard Haussmann. Vedo ogni sorta di spoglie bizzarre. Al posto d’onore, appesa al muro, c’è la proboscide scorticata di Pollux, l’elefante del Jardin d’Acclimatation. In mezzo a carni senza nome e a strane corna, un ragazzo offre dei rognoni di cammello”. La carestia raccontata in poche battute.
Edmond continua a redigere il diario ma si ritira dal milieu littéraire isolandosi per sette lunghi anni. Sarà l’amico Alphonse Daudet (figura magnifica, di gran lunga il mio preferito) a fargli ritrovare il desiderio di scrivere romanzi. Pubblicherà La fille Elisa che Flaubert stronca giudicandolo “sommario e anemico”, seguito da Les frères Zemganno che racconta il rapporto esclusivo fra due fratelli acrobati… Il solo Edmond (chiamato “la veuve” dalle malelingue) non è all’altezza delle opere firmate dalla coppia, e insieme al dolore, cresce in lui il rancore. Ma tutto ciò che manca ai romanzi, tutto ciò che disperatamente hanno cercato di raggiungere, è contenuto nel Journal. Dopo un periodo di distaccato languore, lo stile caustico degli esordi ritrova all’improvviso il suo vigore. Agli inizi degli anni Ottanta, Edmond torna a colpire: “Questa storia del XIX secolo, così come io la scrivo, sarà davvero interessante per i posteri”. La posterità è una sua ossessione che si materializzerà anni dopo con l’istituzione de l’Académie Goncourt. Riprendono i cenacoli, le serate nei cafè, le prime teatrali.
Una volta al mese si organizza le dîner des sifflés che riunisce gli autori le cui rappresentazioni sono state fischiate. I più assidui, oltre a Edmond, sono Zola, Flaubert, Turgenev, Daudet. Parlano male degli altri, si strafogano, bevono e sbandierano le loro imprese sessuali, vero fulcro delle loro esistenze. Sono scopatori incalliti, fanno a gara a chi ha avuto più donne (è interessante la questione della quantità, declinata in ogni ambito. Per questi uomini di genio l’importante sembra essere il numero: le migliaia di pagine scritte, le centinaia di donne possedute, i litri bevuti, le portate ingurgitate…). Bevono, scrivono e fottono senza fermarsi mai, come locomotive bruciano carbone, consumano energia per sfuggire alla morte che li terrorizza, e quando non praticano queste attività, ne parlano. Daudet, sensuale e pazzo, racconta dei suoi amori “innaffiati di assenzio” e vantandosi di “essere un porco” mostra la cicatrice di una coltellata infertagli da una donna abbandonata (la sifilide colpirà anche lui; in una pagina struggente Edmond racconterà di averlo visto un giorno ballare come un folle e di aver capito, in quel momento, che era spacciato). Zola si unisce e rilancia: “Una volta sono rimasto a letto con una donna otto giorni” e giù dettagli. Si vocifera che Hugo “tipico sessuagenario in preda a priapismo acuto” durante l’assedio si rinchiudeva con “una, due, tre donne di ogni estrazione”. Hugo viene sempre descritto come una figura mitologica: “I peli della sua barba erano grossi il triplo del normale, ogni bulbo aveva tre peli… aveva denti da lupo, spaccava i noccioli delle pesche… E poi certi occhi!”. Il cinismo condiviso si scontra con il romanticismo di Turgenev, che non solo proviene da un altro mondo ma sembra appartenere a un’altra epoca. Quando Edmond e Flaubert negano l’importanza dell’amore nella vita di uno scrittore, il russo si inalbera: “Non c’è libro né cosa alcuna che possa prendere nella mia vita il posto della donna… io trovo che solo l’amore produce una certa effusione dell’essere che niente altro può produrre!”. Turgenev, tanto delicato da riuscire a rendere romantico anche il resoconto di un suo amplesso sulla fredda pietra di una tomba…
Rientrato a casa, Goncourt ci tiene a stilare una sorta di promemoria: “Turgenev è un porco la cui porcaggine si tinge di sentimentalismo. Zola è un porco grossolano e brutale la cui porcaggine si spende tutta nella scrittura. Daudet è un porco morboso con i capricci di un cervello in cui un giorno potrebbe entrare la follia. Flaubert è un falso porco che si dice porco per essere all’altezza di quei porci veri che sono i suoi amici. E io sono un porco intermittente”.
(Ora, facendo finta che non ci sia il lockdown dovuto alla pandemia, provate a immaginare una tavolata simile che si riunisca per una cena a Roma come anche a Parigi o a Londra. Chi mettereste tra gli illustri invitati? Quali pettegolezzi si scambierebbero? E soprattutto, varrebbe la pena starle a sentire, le loro chiacchiere come i loro pensieri profondi? Esiste ancora, da qualche parte, una mondanità letteraria o non letteraria che, trascritta da un solerte testimone, tra un secolo qualcuno si andrà a leggere golosamente come facciamo noi col diario dei Goncourt?).
Col passare degli anni, a quelle riunioni si aggiungono nuovi personaggi, giovani letterati arrivati in città… Maupassant, discepolo di Flaubert, la cui perversione mette i brividi (anche lui vittima della sifilide, che accetta però senza drammi, come vessillo del proprio anticonformismo), Rimbaud, descritto come uno degli esseri più immondi che si possano immaginare (e qui, lo ammetto, ho avuto qualche resistenza, dopotutto è stato il mito della mia adolescenza…), per non parlare di Verlaine, anima corrotta e corruttrice (e di scarsissima igiene personale), lo stravagante Pierre Loti, il contorto Mallarmé. Il solo di cui tutti parlano bene è l’italiano De Nittis dal quale vanno volentieri a cena pregustando i maccheroni cucinati dal pittore pugliese. Goncourt gli è molto affezionato, e De Nittis, orfano di padre suicida, trova in lui un riferimento paterno. Quando “questo ragazzo così caro e così pieno di ingegno da riempirvi di piacere e di gioia, questo pittore così pittore…” muore fulminato da un ictus alla stessa età di Jules, Goncourt ci commuove della sua commozione, e come sempre coglie dettagli bellissimi. Al funerale dell’amico, osserva la giovane vedova: “Quando il prete pronuncia le ultime parole, teme di svenire e senza voltarsi, si fa passare davanti il piccolo Jacques, che era nascosto dietro la sua schiena e poi, appoggiata sulle sue spalle, con le braccia in croce attorno al suo collo, la vedova e l’orfano formano il più aggraziato e commovente dei gruppi scultorei”.
I funerali scandiscono il tempo delle brevi vite di ciascuno dei protagonisti di questo libro straordinario che andrebbe letto con la penna in mano per sottolineare, trascrivere, raccogliere le perle disseminate lungo il cammino (è stato un compito arduo farne una selezione, ho riempito decine di pagine di appunti come mai mi era capitato…). I dolenti cortei funebri si susseguono, le tavolate di un tempo si svuotano. Chi resta accetta il proprio destino con fatalismo, rassegnazione e una irrinunciabile punta di cinismo (Flaubert, alla notizia della dipartita dell’editore Michel Lévy, fa rispuntare dall’occhiello la decorazione che teneva nascosta da quando era stata conferita anche a Lévy… e “la vecchia” George Sand, secondo quanto riferito da Dumas, subito dopo la morte di Monceau, il fido, ultimo compagno, più giovane di tredici anni: “si mise a baraccare, a bere champagne, a scopare qua e là, a fare una vita da studentessa del quarantesimo anno”. Quando anche Edmond capisce che gli resta poco tempo da vivere, fonda l’Académie Goncourt alla quale devolve tutto il suo patrimonio affinché “sia assegnato un premio annuale di cinquemila franchi a un letterato francese”. Poi scrive il suo testamento: “Troverete in un armadio una serie di quaderni intitolati Journal de la vie littéraire. Dovranno essere consegnati al mio notaio dove resteranno sigillati per vent’anni, non potranno essere consultati né pubblicati prima”. Dei 25 volumi soltanto nove, sufficienti a provocare un putiferio, furono pubblicati con Edmond ancora in vita. Il contenuto incandescente non fu tuttavia rivelato allo scadere dei vent’anni richiesti da Edmond poiché gli eredi degli “offesi” ne impedirono l’uscita. Ci sono voluti quasi cento anni per disinnescare l’esplosivo: la versione integrale del Journal uscì, finalmente, nel 1956.
Articolo di Francesco D’Aloja per il Foglio Quotidiano