“Da i morti non stanno muti. E’ questo che ci hanno insegnato in Sicilia”, scrive Renato Battiato nell’introduzione a un’antologia di cinque racconti di altrettanti autori siciliani (Giovanni Verga, Luigi Capuana, Vincenzo Linares, Giuseppina Radice, Danilo De Luca) dedicata al culto dei defunti e pubblicata da una casa editrice nuova, giovane e decisamente interessante, Rossomalpelo, che ha scelto di esaltare l’aspetto fantastico, favolistico e misterioso dell’isola attraverso pubblicazioni che ne attraversano la storia e ne indagano, alla lettera, l’ossatura.
“I morti bisbigliano, origliano, biascicano oscure sentenze, ballonzolano, minacciano, giocano a nascondino, mangiano, rubano, scherzano, sghignazzano, uccidono”, continua Battiato, e io sono già tornata bambina, sono la bambina che va a letto eccitata perché quella notte, fra il primo e il due novembre, i morti di casa entreranno dalla finestra (arrivati da dove? Si saranno arrampicati dai tubi sul muro del cortile interno? Scesi con una corda dalla terrazza?
Le domande della mia infanzia erano queste, non mi chiedevo altro, non avrei mai messo in discussione la veridicità di quanto accadeva, di quanto aspettavo tutto l’anno che accadesse) e lasceranno sul tavolo regali e dolcetti di mandorla a forma di ossa e teschi, frutta martorana che riproduce alla perfezione fichi d’india, limoni, pere e ciliegie.
Per ingraziarmeli, lascerò sul tavolo un bicchiere di latte e del pane, che al risveglio troverò mezzo bevuto e mezzo mangiato, sbocconcellato, perché i morti hanno fame ma non troppa, hanno soprattutto sfizio, lo sfizio di sentirsi vivi per un giorno. I morti, in Sicilia, sono i custodi dei vivi, mezzi angeli e mezzi satiri; le storie dei morti sono storie della storia dell’isola, abitata in ugual misura da chi respira e da chi non respira più ma continua a camminare, spiare, ridere, urlare, infestare case. Tutto questo io l’ho sempre saputo, lo sapevo ogni due novembre, i bambini lo sanno senza bisogno di ragionamenti, con la naturalezza onirica di un racconto di Capuana. si chiama appunto quello contenuto in quest’antologia, e il titolo fa riferimento a quando Don Ciccio Lanuzza (la perfezione di certi nomi), nel corso di una notte tormentata, si vede comparire davanti al letto l’amico Don Natale Mirone, seppellito dalla moglie qualche giorno prima, e fatica a credere che non sia proprio lui in carne e ossa. “– Tu? E mi hanno detto che sei morto! (…) – Non si muore; sono più vivo di prima. (…) – Dunque sei morto! – Non si muore, ti ripeto. Si sparisce, perché gli occhi nostri non riescono a vedere.”
Leggendo Capuana so perché, quando confessavo a mia nonna, e solo a lei, vergognandomi moltissimo, di aver avuto le traveggole, lei non mi diceva mai: hai avuto le traveggole, ma sempre: i bambini vedono cose che i grandi non vedono. Non confesserò mai cosa avevo visto, non qui almeno: certe cose così radicalmente vere da non essere sopportabili le puoi mettere solo nei romanzi. Così, nel racconto di Capuana, Don Ciccio fatica a credere ai suoi occhi perché non può cedere alla debolezza di credere a sé stesso bambino; serve all’autore un finale che faccia esclamare: “Anche i morti sbagliano! Sbagliano tutti!”. Ovvero: non penserete davvero che i morti siano poi così diversi dai vivi? In Sicilia, poi! Vivi e morti sono così uguali che nel racconto di Vincenzo Linares, il protagonista finisce per sposare un fantasma.
E’ la storia di due ragazzi che si amano, Gianna e Roberto, ma lei è promessa sposa a un altro, a un brutto e cattivo usuraio. Purtroppo, un attimo prima di dire sì, la ragazza cade in terra, e sia il polso sia il respiro non lasciano dubbi: è morta. Chi è allora quell’eterea figura vestita di bianco che nottetempo si desta dalla tomba, esce dalla chiesa, vaga per le strade allucinata e piena di amore e paura? “E’ forse un vampiro?”, si chiede Linares, “E’ forse una sonnambula? E’ uno di quei spiriti gentili, che il popolo crede e teme, un fantasma, una silfide notturna?”. Quando bussa alla porta, l’usuraio non la riconosce, ma il bravo e innamorato Roberto sì, e quindi sarà lui a sposarla, a meritarla: Gianna non era morta, solo colpita da una momentanea e ingannevole asfissia. Una finta morte utile a defenestrare un bolso e fifone pretendente in favore di uno che non teme gli spettri. Romeo e Giulietta, in Sicilia, sarebbero morti entrambi, ma almeno con ironia.
Nel racconto di Giuseppina Radice, che è scritto in dialetto ed è un esplicito omaggio alle storie di Pitrè, il cunto è affidato alle donne (la cosa più bella era che le donne raccontavano tanti racconti: di fantasmi senza testa, di morti che erano morti ammazzati e che non avevano pace e se ne andavano casa per casa). Nel racconto di Danilo De Luca, che chiude l’antologia, la nonna saggia ricorda al nipote che bisogna avere più paura dei vivi che dei morti; ma l’autore, dopo una brutta avventura, chiude sì dandole ragione, ma ricordando che i morti bisogna comunque lasciarli in pace, oppure si fa la fine dell’uomo della Panda, che per seguire un suono di campane inesistenti si è ritrovato a una messa di strani individui tutti vestiti di nero e non è più potuto tornare fra i vivi, allora ha dovuto lasciare la sua macchina in uno spiazzo, sta lì dagli anni Ottanta, o forse no… La festa dei morti, ricordata da Verga nell’omonimo racconto che apre l’antologia, è in realtà nient’altro che un giorno in cui è lecito festeggiare con clamore ciò che di nascosto accade tutto l’anno: l’amorosa corrispondenza fra i morti e i vivi, un dialogo ininterrotto, ironico, terribile, spaventoso e attraente, lunare e ombroso quanto denso di guizzi, di pulsioni. In Sicilia, i morti sono uguali a come sono dappertutto, solo che non hanno paura del sole, anzi lo sfidano, anzi ancora: da lui nascono. “Dove c’è più luce, là c’è più mistero”, ha scritto Bufalino in uno dei suoi libri più belli, per spiegare come mai l’isola sia sempre stata terra di pratiche magiche, e in quello stesso capitolo, che si intitola “L’orma del diavolo”, fa un elenco di certi scongiuri: “Furcu, Rifurcu, Turcu, Cataturcu (…) ma anche Muscu, Luscu, Fuscu. Anche Bau, Babbalutu, Babbau, in assonanza, probabilmente, con ch’è, nel nostro dialetto, l’inoffensiva, e però bavosa e cornuta, lumaca”. In Sicilia, l’esorcismo parla la lingua familiare, pungente degli avi, con cascami di fobie e paura da morire dentro tutto un sottofondo di quieta normalità, di pacifica e ilare conversazione.
In quest’isola piena di arsure e bizzarrie, dove tutto rischia di essere memorabile e pretende di essere solenne, dove il cattolicesimo è più pagano che puritano e i diavoli come Aleister Crowley hanno trovato buon terreno per scorrazzare, la magia non ha mai avuto bisogno di travestirsi, non ha mai avuto bisogno di trucchi: semplicemente, cresce selvatica da sempre, e poi chissà che fine fa (a volte viene cucinata, sotto forma di certe erbe che nessuno ha mai avvistato altrove, e che le nonne chiamano con sbrigativa consapevolezza “minestra selvatica”). “Vero è che qui dalla magia è facile trapassare, a scelta, nella farsa rusticana o nel mito”, scrive ancora Bufalino. E se leggiamo tutti di fila i cinque racconti sui morti di Sicilia di questa bella antologia, storie d’amore, di ridicolaggini e di stranezze, certo di farsa ce n’è in abbondanza, e si mescola con il mito nella maniera indicata da Bufalino: l’esorcismo parla la lingua familiare degli avi, con cascami di fobie e paura da morire dentro tutto un sottofondo di quieta normalità nei racconti di fantasmi, come in quello di De Luca, c’è una componente leggendaria che si attacca, si avvita a un’esigenza connaturata al luogo, come i miti greci che non sai più se sono nati per spiegare un fenomeno naturale o se invece quel fenomeno è nato per far contenti loro, per far contenta quella storia che qualcuno doveva per forza raccontare.
E’ una gioia che una casa editrice oggi si lanci nelle storie di fantasmi con tale coscienza dell’origine e tanta dimestichezza con le stratificate fantasticherie isolane; i tipi di Rossomalpelo curano anche una rivista, Cariddi, che misura il grado di mostruosità (e quindi di accettabilità) delle storie pubblicate. Il pulp, in Sicilia, esiste in natura: Cariddi, l’orribile e famelica Cariddi, era una ninfa bellissima, punita per aver mangiato i sacri buoi di Gerione. Non è farsa rusticana anche questa, una ragazza che non sa resistere alla merenda, ignara e spavalda mentre si sfizia con una delle fatiche di Eracle? E’ mito, in Sicilia, anche la festa del due novembre, imparentata, molto più che con Halloween, con il “Dia dos Mortos” messicano, che perpetua una festa indigena attraverso le sembianze della “calavera” Catrina, una donna-scheletro, vestita elegante e pronta a tornare sulla terra per ballare, scherzare, ridere. I morti, al Sud, quando si affacciano lo fanno per divertirsi: bere, mangiare, baciare è il loro obiettivo e non bisogna mettersi di traverso. Guai a non assecondarli, significherebbe ricordare loro la peggiore delle offese, la più impronunciabile delle sentenze: che non sono più vivi. Mentre invece, ricorda Renato Battiato, “in Sicilia di morte non si muore mai.”
Articolo di Nadia Terranova, Il Foglio quotidiano