LA ROMA DI PAOLA PITAGORA DEGLI ANNI DI POVERI MA BELLI- LA VITA E GLI AMORI DISSENNATI, GLI ARTISTI DI PIAZZA DEL POPOLO, LA DIASPORA ALLA FINE DEL ’68- ANCORA ESISTE QUALCHE NICCHIA DOVE SI SOPRAVVIVE FRA RIMPIANTI E ORGOGLIO
Roma capoccia e dalle mille chiese. Roma tradita e impasticciata. Roma del Foro “che portava e porta ancora il nome di Mussolini”, scrisse Remo Remotti in “Mamma Roma addio”, inno rivolto a una metropoli “puttanona, borghese e fascistoide”. Tuttavia si distinguono, nella città, sostanziose “nicchie di sopravvivenza”, afferma l’ attrice Paola Pitagora, nata a Parma e romana d’ adozione.
Da tempo abitante a Monteverde, Paola considera il suo quartiere bello e protettivo, ossigenato dai parchi e illuminato dal piccolo faro di cultura del Teatro Vascello, nel cui spazio si svolge quest’ intervista: «Alla guida del Vascello c’ è Manuela Kustermann, bravissima, e il suo pubblico è folto e multigenerazionale», segnala Pitagora.
«Non solo il teatro fa un’ intensa programmazione ed è il centro di svariate iniziative, ma rappresenta un vivace punto d’ incontro nella zona: si può venire a leggere i giornali, a lavorare al computer». Emersa platealmente negli anni Sessanta grazie al film-capolavoro “I pugni in tasca” di Bellocchio e allo sceneggiato televisivo “I Promessi Sposi” di Bolchi, oggi Paola è una signora d’ indomita bellezza.
Bella come sanno esserlo, anche dopo i settanta, certe persone toste, coinvolte, battagliere e in prima linea nel dire, nel fare, nel ricordare e nell’ entusiasmarsi rammentando.
Una memoria piena non è percorsa solo da nostalgia e rimpianti, ma può vibrare di un orgoglioso “io c’ ero”. È questo l’ atteggiamento di Paola, la quale ti scruta con uno sguardo limpido e profondo in grado di riflettere una vita colma di sperienze e passioni.
Tra quelle giovanili ci sono stati il suo amore rovente e dissennato (per gli innumerevoli alti e bassi) con Renato Mambor, e la sua frequentazione della Scuola di Piazza del Popolo, cioè dell’ insieme di artisti provocanti, geniali e trasgressivi che scatenarono a Roma «una libera e gratuita creatività durata fino ai primi segni di esagerazione del Sessantotto», racconta Pitagora.
Al ciclo fosco, spassoso e incandescente dei Sessanta, Paola dedicò il libro “Fiato d’ artista”, uscito per Sellerio nel 2001. «Quel diario si è tradotto in uno spettacolo ideato e diretto da mia figlia Evita Ciri e da Nicola Campiotti», riferisce. «Debutta qui al Vascello il 29 novembre, e con me in scena ci saranno agli attori Giulia Vecchio, nella parte di Paola da giovane, e Francesco Villano nel ruolo di Mambor.
Io interpreterò una sorta di collante mnemonico che lega le situazioni da loro evocate. Avrà dieci repliche e sarà l’ appuntamento-chiave di un’ ampia rassegna intitolata “Fiato d’ artista”. In corso fino al 9 dicembre, vuole ridar fiato a quell’ epoca straordinaria».
«Il programma include documentari, conferenze, un laboratorio di scrittura e due letture sceniche: una sul libro “Il Gioco dell’ Arte” di Agata Boetti, figlia dell’ artista Alighiero, e l’ altra su “Addio a Roma” della scrittrice Sandra Petrignani, che ripercorre gli eroici furori di quella fase».
Chi erano gli spericolati che l’ animavano, oltre a Mambor e a Boetti?
«Schifano, Kounellis, Angeli, Tacchi, Festa, Ceroli. Personaggi esplosivi nel loro impegno verso la costruzione di un’ arte nuova. Le gallerie di Plinio de Martiis e di Fabio Sargentini erano fucine di scoperte. Alla Gnam Palma Bucarelli mostrava le tele di Picasso, dall’ America giungeva la Pop Art, Fellini e Pasolini giravano i loro film, nei cinema si proiettava Godard e il Living Theatre conquistava Roma.
Fra i pittori Pino Pascali era molto amato e fungeva da cuore del gruppo. La sua morte prematura, nel ‘ 68 per un incidente in moto, fu la fine di tutto, la diaspora. Ebbe l’ effetto di un trauma devastante. Ci fu chi smise di dipingere, chi scappò da Roma».
Ha fatto solo nomi di artisti maschi. Non c’ erano pittrici?
«No, tranne Giosetta Fioroni, che dovette proclamarsi pittore per ragioni di mercato. Un collezionista si era rifiutato di comprare un suo quadro dopo aver saputo che era lei l’ autrice: non compro opere di una donna, aveva detto.
Nella cerchia giravano fidanzate o ragazze rimorchiate di fresco che non lesinavano consensi: quegli artisti erano tutti piuttosto belli. Schifano aveva sempre compagne stupende, Angeli e Ceroli furono amati da donne di forte immagine come Marina Lante della Rovere e Daria Nicolodi».
Perché i Sessanta a Roma furono così frenetici e produttivi?
«Circolava l’ energia del dopoguerra. Un’ energia intellettuale, anche se adesso questo termine sembra dannato.
La nostra non era una élite di potere: eravamo poveri e matti, senza soldi né mercato».
Che ci faceva Paola in questa follia?
«Ero una pazza influenzata dai pazzi. Quel vortice mi attraeva come una calamita. Sono rimasta con Renato per un decennio. Quando lo conobbi avevo sedici anni. Ci siamo lasciati e ripresi un sacco di volte. Volevo far l’ attrice ma non mi aiutava il mio carattere tremendo, un misto di timidezza e aggressività.
Con quel mio modo di fare era difficile trovar lavoro. Nello spettacolo al Vascello ci sarà un momento in cui Giulia, l’ attrice che interpreta me da giovane, rifiuta di mettersi in bikini a un provino. Ero così: pudica, non disponibile, agguerrita. Una volta al Caffè Rosati incrocio il direttore della rivista Le Ore che mi avverte: stiamo impaginando un servizio che ti ritrae al mare, vuoi vederlo?
Vado in redazione con lui, e prima che possa fermarmi prendo le forbici e taglio in due la mia foto in costume da bagno, distruggendogli il servizio. Mi odiarono! Poi, per pura fortuna, Bellocchio mi scelse in un provino e mi lanciò».
Ha scritto nel suo libro che i centauri della Scuola Romana erano degli autodistruttivi totali.
«Vero: quegli artisti rincorrevano la morte. Mi sono salvata perché sono una donna e perché sono di Parma».
Com’ era da vedere Piazza del Popolo, in quel periodo?
«Troppo affollata di macchine.
Intorno all’ obelisco c’ era un enorme parcheggio. Automobili addossate l’ una all’ altra riempivano l’ intera area che ora è pedonale. Ogni tanto bisogna spezzare una lancia a favore dei cambiamenti positivi avvenuti nel nostro tempo!».
Si rendeva conto, la giovane Paola, di assistere a una rivoluzione dei linguaggi artistici?
«Non realmente. Bevevo nettare senza saperlo. Adesso capisco la forza di quella spinta. Tutto era fuori dagli schemi: le opere di Pascali erano visioni immense di mare e campi. Kounellis piazzò dodici cavalli vivi nella galleria L’ Attico.
Come facevo a immaginare che l’ arte fosse anche così? Eppure quella precarietà si basava su una poetica solida e preveggente: oggi guardo i ragazzi che camminano ipnotizzati dai cellulari e penso agli Uomini Statistici di Mambor».
Articolo di Leonetta Bentivoglio per “la Repubblica – Roma”