I TETTI DI PARIGI

15 Ott 2015 | 0 commenti

 

Il brano che segue parla dei tetti di Parigi, patrimono dell’Unesco. E’ tratto dal libro Cartoline da Parigi, appunti per viaggiatori e sparse considerazioni sui luoghi e sulla memoria, che sono insieme una guida turistica, un feuilleton, una galleria di ritratti, un saggio sull’arte e gli artisti, una confessione autobiografica. 

 

 

Torre Eiffel vista dai tetti di Parigi

Torre Eiffel vista dai tetti di Parigi

 

Scendo alla Gare de Lyon, abbagliato dalla luce, respiro un tiepido vento che contiene confusi l’odore dei vecchi negozi, il tanfo dei kebab, quel misto di  essudato dolciastro che galleggia sotto le pensiline e i rari alberi che circondano ogni stazione.

Ho ancora negli occhi la quieta campagna francese. Dopo Chambery, l’orografia muta repentina, al dolce ondulare delle colline segue una piana acquitrinosa, piccoli villaggi punteggiano la campagna, qualche stazione turistica, campeggi  raccolti attorno a querce gigantesche.

Poi si apre la campagna, ampia e operosa, in cui piccoli boschi cedui, squadrati a filare, si alternano a campi ingialliti di mais o di grano appena mietuto. Nei vasti prati a maggese, all’ombra di alberi isolati, si riparano mandrie di mucche, dal manto candido. Oziano svogliate, brucando ogni tanto, le mammelle gonfie, incuranti del nostro passaggio.

Non credo che l’importanza di una città si misuri dalla larghezza del fiume che l’attraversa, né dall’altezza dei suoi grattacieli. Anche Parigi ha i suoi grattacieli, purtroppo. Un pedaggio pagato alla modernità e alla vanità degli archistar (come si fanno chiamare oggi) cui capita a volte di coprire il mondo con edifici discutibili. Non credo rimarrà molto degli architetti contemporanei! Proprio adesso, mentre mi allontano lungo boulevard Diderot ne vedo uno che sorride dalla copertina patinata di una rivista, è un italiano, quando non è in vena con la matita diventa simile ad un killer con licenza di profanazione.

Panorama di Parigi

Che l’eresia urbanistica sia un fenomeno antico ed endemico ce lo conferma la torre di Montparnasse, un brutto edificio di 210 metri (più della torre Eiffel) in acciaio e vetro, costruito nel 1973, imperante Pompidou. La puoi vedere da ogni lato della città. Rompe l’orizzonte in due e colpisce mortalmente al cuore ogni idea di equilibrio e di bellezza. Bisognerà riflettere perché le città sembrano così dominate dalla cupa propensione al disfacimento,  in preda alla perversione di quanto di bello ancora serbano, siano inaridite o così grottescamente mutate.   

Parigi, torre Montparnasse

Parigi, torre Montparnasse

La skyline di Parigi intorno alla Gare de Lyon, con i suoi centri direzionali, ricorda Porta Garibaldi a Milano o il centro direzionale di Poggioreale a Napoli. Ma non siamo al canto del cigno, non siamo alle rovine di Pompei, ancora no. L’impeto rovinoso del “mattone per tutti” non ha ancora ridotto questa città a un simulacro enigmatico. Basta spostarsi un poco, lungo boulevard Diderot, direzione ponte di Austeritz, o in rue Michel Chasles, ed ecco apparire i tetti di Parigi, quelli sì restano inconfondibili.

Se ne innamora anche il compositore più melodico di tutti, Giacomo Puccini, a Parigi in cerca di ispirazione e di un libretto da musicare. E’ il 1895, e l’anno dopo al Regio di Torino un giovanissimo Toscanini dirige la prima assoluta della Bohéme.

Panorama dei teti di Parigi

Puccini si ispira a Scènes de le vie de Bohéme di Henri Murger, e la soffitta romantica di Rodolfo e Mimì è forse pensata proprio guardando i tetti di Parigi. Nell’opera pucciniana la città si riassume in quella soffitta e nei comignoli che si stagliano contro il cielo: “ nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi”, così si apre l’opera. In basso, il Quartiere Latino “le sue vie addobba di salcicce e di leccornie, quando un olezzo di frittelle imbalsama le vecchie strade”.., così nel libretto di Illica e Giacosa. I personaggi del romanzo di Murger sono ispirati ai componenti di un folto gruppo di letterati e artisti squattrinati che attorno al 1840 effettivamente tirano a campare a “patate e aringhe”, nella luce incerta d’un finestrino di una mansarda, ora esaltati e euforici, più spesso logorati dalla miseria e dall’insuccesso. Fra questi, formano un trio affiatato Baudelaire, Banville e Nadar. Quest’ultimo, dapprima giornalista e caricaturista, è destinato fra gli anni 50 e 60 del secolo a diventare famoso fotografo, forse il migliore ritrattista del suo secolo. Il suo studio è al 113 di rue Saint-Lazare, poi al boulevard des Capucines 35, allora sopra un negozio di abiti.

Ma il fascino dei tetti di Parigi è così tenace da meritare un secolo dopo l’elogio di un uomo ruvido e intrattabile come Ferdinand Céline. In Morte a credito scrive: “Lo divertiva il panorama… le migliaia di chiostre del piccolo Marais… E uno spettacolo che può affascinare, bisogna rendersene conto. Il bel merletto delle ardesie… Tutti i riflessi che prende… I colori che si confondono l’un l’altro. Tutto l’attorciglio delle grondaie. E i passeri che saltellano… I fumacchi che giravoltano sui gran baratri d’ombra…” ( Morte a Credito Garzanti 1966 pag. 140)

Tetti di Parigi, foto di Claudia Castaldi

Se passi un pomeriggio nel quartiere Latino, magari alla ricerca di altri luoghi della Bohéme, come boulevard Saint Jacques, o la Barrier d’Enfer, o la strada verso avenue d’Orleans (ribattezzata nel 1950 avenue du Général Leclerc) “tra le nebbie di febbraio”, ti accorgerai che molto è cambiato. Sembra una casba. Frenesia, promiscuità, una brulicante umanità senza volto, irrimediabilmente uguale. Fra le stradine intorno all’imponente mole della chiesa di Sant Severin, fra Saint Michel e Saint Germain, il turista è continuamente adescato da imbonitori di cibarie, da nani e ballerine.

E’ incredibile quanta gente affolli i locali, dilaghi dentro e fuori dalle brasserie, sui marciapiedi, sotto i portici. Nei paesi del Sud d’Italia parlerebbero di “struscio”, qui di promenade o shopping, ma è la stessa cosa: il pretesto per arrivare in linea retta al più vicino locale. Solo che qui non lo fanno fra il tramonto e l’ora di cena, ma dalla apertura mattutina  dei locali fino all’alba del giorno dopo, e così di seguito, suppongo 365 giorni all’anno.

Sono tutti, parigini e non, ad ingozzarsi di falafel, cous-cous, humus, tayine, crauti e wurstel, salse e salsette. Fra una pausa e l’altra, per prendere respiro, parlano fitto fitto, parecchi sono del posto, e mi domando: ma questi quando lavorano? In fondo la Francia è pur sempre una delle maggiori potenze economica del mondo.

Certo, la Parigi di oggi è ben lontana degli ideali urbanistici dell’operoso barone Georges-Eugène Haussmann, un “artiste démolisseur “come si autodefiniva, che nella seconda metà dell’800 fa uscire Parigi dal medioevo, con le sue stradine caotiche, le fognature intasate, le ricorrenti epidemie. Haussmann crea grandi scorci prospettici, attraverso lunghe fughe di viali, peccato che utilizza per ricoprire le strade il macadan, un materiale che con la pioggia si trasforma in una coltre melmosa. Nel 1864, come ricorda Benjamin, il barone in un discorso alla Camera, esprime il suo disappunto per i troppi déracinée della capitale, rivelando il vero scopo dei lunghi ed ampi boulevard, posti a raggiera dall’Arc de Triomphe: non tanto per esigenze igieniche o mobilità delle persone, quanto per rendere impossibile erigere barricate da parte del popolo rivoluzionario. Ma lo sventramento della Parigi medioevale è funzionale all’impero di Luigi Filippo, è un modo per la classe dominante di fare la storia, semplicemente facendo affari con la speculazione edilizia, e coincide con l’allargamento democratico del voto e la dilagante corruzione parlamentare.

Con l’Esposizione universale del 1867 l’Impero è al culmine della potenza, Parigi si conferma la capitale del lusso e della moda. Come scrive Benjamin, “l’operetta allora in gran voga, è l’utopia ironica di un dominio permanente del capitale”

 

tetti-parigi1

Ancora una volta conviene però non guardare le intenzioni, le prosaiche mediocrità quotidiane, ma i risultati, se sono così permeati di (in)volontaria bellezza, come, ad esempio, i magnifici palazzi che si affacciano dai quais e si rispecchiano nella Senna, ma sopratutto i tetti di Parigi.

Affacciati dal bateaux-muoches che ti sta trasportando sulla Senna e rivolgi lo sguardo in alto. Non finirai mai di ammirare le forme, l’imponenza, la capricciosa mutevolezza dei tetti di Parigi.

 Lavorati come se l’ardesia o il mattone fossero duttile plastilina, i tetti sporgono, si incuneano, si torcono, salgono come pinnacoli di castelli medioevali, torrette sfaccettate di fortezze, camini ricamati di pietra e si elevano quasi a prescindere dalle case sottostanti, ergendosi e svettando con tale autonoma magnificenza che nessun altro tetto più vantare.

bateaux-mouches

Poteva l’inafferrabile Fantômas muoversi e dileguarsi fra i tetti se non fossero stati questi? Il successo del personaggio, uscito dalla fantasia di Souvestre e Allais e che dal 1911 al 1914 incanta persino Guillaume Apollinaire, trova nei tetti la giusta dimensione di eroe surrealista, fantasmagorico e un poco gaglioffo che è la cifra del personaggio.

Ecco perché non finirò mai di lodare i tetti di Parigi.

 

 

 

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