“I veri scrittori sanno riconsegnarci le parole non come “riconoscimento”, ma come “visione”.
Questa frase è stata scritta da Aldo Grasso, giornalista e critico televisivo, in un articolo di feroce commento dell‘ultima performance televisiva di Roberto Saviano. Commento che condivido, ma non voglio qui parlare di eloqui o sproloqui, ma del mestiere di scrivere e di che cosa fa uno scrittore vero da un assemblatore di parole.
Prescindo dal fatto che uno “abbia qualcosa da dire”, perché lo do come il naturale presupposto del “ben detto”, anche se esempi contrari sono ormai una folla, davanti ai quali rimango incredulo e mi domando: ma cosa mai può spingere uno a scrivere (che costa fatica!) se non ha nulla da dire? Risposta impossibile che si inabissa nei meandri della psiche, a meno che non ti chiami Luciana Littizzetto, Alex Del Piero, o come altra scosciata velina o sportivo di turno, perché in questo caso il gretto movente venale è addirittura sfacciato.
Il tragitto dai campi sportivi, dai talk show televisivi, dagli scranni del Parlamento, dalle scene del delitto, dalle ruberie e dagli scandali sessuali al libro, è oramai una linea retta e una predestinazione editoriale.
Non è un caso, ma la tristissima realtà, che il libro più venduto nel caravanserraglio del Salone del Libro di Torino, venghino signori, venghino, è stato di Del Piero, centravanti della Juve; ciò ha suscitato le ire del togato figlio del giovane Holden, Alessandro, che ha borbottato: è come se io mi mettessi la maglia del numero 10 e fossi osannato calciatore. Bravo, bene, bis! Caro Baricco, chi di spada ferisce di spada perisce!
Ma si diceva riconsegnare le parole, che non possono che essere quelle inevitabilmente consunte dall’uso, secondo un lessico corrente, ne bastano un migliaio per scrivere un romanzo, un po’ come le 7 note per scrivere una sinfonia.
Certo, posso essere come Gadda o Manganelli e resuscitare dalle catacombe le parole più desuete, ma non per questo meno polverose, anzi.
Allora la funzione di “riconsegnare” un grumo di parole ben disposte sulla pagina, parole familiari, e perciò stesso riconoscibili, ma che nello steso tempo siano come trasfigurate, non è facile.
A da dove passa questa trasfigurazione vista come anticamera della “visione”? Il parallelo con la musica mi aiuta. Come nella tonalità armonica e nel succedersi melodico, ciò che conta è la sequenza di apparizione, il reciproco legame e la piena rispondenza fra significante e significato; più semplicemente fra parola e insieme deve formarsi una eco espressiva in grado di illuminare le parole sottraendole alla genericità e all’oblio. Quando questa riesce allora le parole mutano di senso, hanno una loro vita autonoma e il racconto si allontana dall’atto dello scrivere per diventare atto creativo e fondativo, pronto a ricevere la “visione” vivificante di chi legge, che lo fa con la trepidazione della scoperta, come se fosse per la prima volta.
In una parola è l’ispirazione e un poco di mestiere che fanno la differenza e poi la fortuna di non essere troppo in anticipo sui tempi.